Critica Sociale - Anno XVII - n. 23 - 1 dicembre 1907

356 CRITICA SOCIALE sione nella stampa, nei comizi, nelle società, nel Parlamento, riescano a convincersi che determi– nate riven<liC:azioni operaie sono nell'interesse ge– nerale e che questo sarebbe favorito e non osta– colato dalla Joro codificazione, io non ho nulla da obbiettare contro di questa. Non basta mostrare che, per una data classe, un dato stato giuridico è preferibile a un altro i bisogna anche mostrare che esso sarebbe preferibile per l'interesse gene– rale e che esso coprirebbe anche le spese del pas• saggio dallo stato attuale a quello in esso formu– lato. Io consiglio al Marchioli di imparare dalla lettura òei P1·incivles o( political Econ01ny di H. Sidgwick l'arte del saviamente dubitare. Io spero che egli riconoscerà la forza della mia argomentazione e non vedrà io essa alo.una te– nerezza per krumiri o<l alcuna propensione rea– .ziona1·ia (un aggettivo usato troppo lassamente ad esprimere e condannare ogni reazione a ten– denze di <lemocraticismo dogmatico e non critico). 'l'uttavia non ho finito; dopo avere, credo, proyata la mia tesi e ridotto l'avversario, se è logico) ad ammettere il dogma delFinfallibilità per qualche– duno, devo a mia volta prendere l'offensiva e met– tere in luce alcuni vizi dì pensiero, del resto non esclusivamente suoi. . * ,:{- Il Marchiali professa di non essere giacobino. È difficile credergli quando si sia Yenuti alle conclu– sioni su ricordate e si legga nel suo scritto che, per Fetica futura ch'ei vagheggia, sarà legittimo il prender sempre a legnate il krumiro e che, per instaurare tale etica contraria all'etica e al diritto attuale, basta rafforzare le Leghe in guisa da ren– rlere tale sovvertimento di posizioni possibile. Tanto vale proclamare che non già il diritto è una forza, ma che la forza e il numero sono il diritto, ciò che d'altron<le armonizza con la definizione che della democrazia dà il Bonomi nello stesso numero della Critica: la volontà del maggior numero. Qui è la differenza profonda che ci separa ine– sorabilmente: l'essenza della democrazia non è di obbAdire a molti auzichè a un solo padrone, ma di obbedire alla legge, espressione non della volontà del maggior numero, ma della volontà. generale, che è una cosa diversissima dalla prima. La prima presuppone che la società sia una riunione atomica di individui e che la legge sia, o basti che sia, la espressione delFinteresse comune del maggior nu– mero degli individui attualmente viventi. La seconda considera invece la società come un'organizzazione in prngressivo sviluppo, una corporazione nel cui benessere gli indivi<lui partecipano, e nella conside– razione del cui benessere entrano, ed banno egual diritto ad essere prese in consi<lerazione, non solo la generazione presente, ma anche le generazioni future; e prende per volontà generale, esprimen– tesi nella norma giuridica, quelle regole di condotta che si elaborano passaniio per successivi e sempre più ampi gradi di generale accoglimento: dalla co– scienza individuale alla <lomestica; dalla domestica a quella della associazione di mestiere o di profes– sione; da questa a quella ciel patriottismo locale, alla regionale, alla nazionale, che risulta così dalla coordinazione e subor<linazione di tutte Je prece– denti e che ha per cervello le persone che gradi successivi di selezione, <li discussi011e 1 ecc., hanno mostrat,o essere le menti più rappresentative della mente di tutti, cosi come le Leghe operaie sono rappresentative dell'interesse operaio. In questa guisa la volontà generale non è la ne– gazione della individuale o di quella delle minori corporazioni autonome, ma ne è il fiore e costan– temente se ne alimenta e Sempre le presuppone ed è con esse in reciproco scambio di influenze: essa è la volontà non del maggior numero nel mo– mento del voto, ma di tutti; essa elimina tutto ciò che v'è <li limitato e risulta di tutto ciò che è quotidianamente palpito generale nell'officina, nel negozio, nella scuola, nella banca, ecc. Essa è una sintesi e una quintessenza, non una media o mag– gioranza. Essa è veramente la ragion comune, il KowO,, Àòyoçdegli Stoici e non il passeggi ero trirJnfo di un impulso o di un interesse parziale. Obbedire a questa ragion comune è da uomini; obbedire al maggior numero è da schiavi; la saviezza collet– tiva ha tutto il diritto al nostro omaggio; il mag– gior numero di per sè stesso non ne ha nessuno. Ha ragione il Summm~ Maine nella sua opera Po– pular Government di dire che la volontà del mag– gior numero nel secolo xvm e nella prima metà del secolo xrx avrebbe soffocato tutti i progressi dell'inventività industriale, proscrivendo le mac– chine e gli inventori e condannando la ricerca scientifica come fece l'inquisizione cattolica. Il mag– gior numero plaudì ai roghi e alla tortura, e i preti non furono mai se non la creazione del suo bisogno di aYer qualcuno che pensa j,er esso e gli schiva le fatiche e le ansie <lel dubbio. La dottrina della democrazia come volontà del maggior numero è un residuo della superstizione del secolo xvur che credeva che ognuno, _cercando dentro rii sè stesso, nel proprio cuore e nella pro– pria ragione ha uno strumento infallibile per i propri giudizì. Questa dottrina, passando pel cervello di Bentham, divenne quella <lella massima felicità del magg·ior numero, irresistibilmente raggiungibile pel fatto che ognuno segue il massimo piacere e il minimo dolore ed è così il miglior giudice del pro– prio jnteresse. Ora la critica psicologica ha dimo– strato che ciò non è vero o almeno non è tutto il vero. Non solo chi sente più acutamente dati bi– sogni non è per ciò stesso necesgariamente colui che anche sa come meglio appagarli; ma il sentire acutamente un bisogno diventa un ostacolo a ri– flettere sul miglior modo <liappagarlo; e, ad ogni modo) se è vero che ognuno è in generale <la pre– sumersi il miglior giudice del proprio interesse, ciò non significa ch'ei sempre lo sia o che vi sia una tendenza generale a. ch'ei lo diventi. Si applichino queste osservazioni alle classi in– vece che agli individui, tenendo conto della psico– logia collettiva, e si vedrà tutto l'assurdo e della teoria della lotta di classe (') e della -tattica che su di essa si fond(l,. Ciò però non deve farci rite– nere che sia un assurdo la democrazia e che lo sia l'organizzazione e la concorrenza degli interessi. Da ciò che ogni individ,uo ed ogni clas"se non è che presumibilmente il migliol· giudice dei suoi in– teressi e che esf:lipossono sbagliare, non segue già la legittimità dei Governi paterni, ma solo la ne– cessità per ognuno, oltre che di dire francamente la sua opinione, rii ascoltare anche quella degli altri e dì modificare la propria se vi sono per ciò sufficienti ragioni. La democrazia non è nulla se non è il governo della opinione più illuminata. 'futti i metodi elfi.ttorali non sono che modi esco– gitati per provare coloro che, su di ogni cosa, di– .sentendo tra loro 1 -possono formare l'opinione e organizzare la soluzione più ragionevole. Ad ogni momento) in ogni paese, per ogni categoria e ge– rarchia di interessi e finalità sociali, il numero di costoro, il numero degli ottimi, di coloro il cui giudizio risultante tutti accetterebbero, è deter– minato. La difficoltà sta nello scovarli, nell'incorag– giarli a rivelarsi, nel riconoscerli. (1)Crespi dlrebba assai meglio: del concetto brutalmente roeoca– nlco della lotta di Oh\sse; ohe è quello elle anche noi combattiamo.

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