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Piero Gobetti

Matteotti


[…] Eretico e oppositore nel partito socialista, poi tra gli unitari una specie di guardiano della rettitudine politica e della resistenza dei caratteri: sempre alle funzioni più ingrate e alle battaglie più compromesse. Combatté tutta la vita il confusionismo dei blocchi, la massoneria, l’affarismo dei partiti popolari. Era implacabile critico dei dirigenti e si ricorda che giovanissimo in una riunione socialista il nume del socialismo locale aveva dovuto interromperlo: "Tasi ti, che ti ga le braghe curte!”
[…]
Per la sua energia eccessiva, invadente, per il suo spirito critico, lo accettavano senza troppo entusiasmo; il suo disprezzo per il quieto vivere e per le abitudini di sopportazione gli alienava i tanti furbi che se ne sentivano umiliati: lo accusavano di ambizione, non lo capivano. Invece nel momento dell’azione aveva il consenso di tutti, riusciva a sacrificare anche i più pacifici mostrando come sapeva sacrificare se stesso. Anche di questa apparente arroganza e severità la spiegazione è nella sua ascetica solitudine. La sua difficoltà di conoscere le persone e di essere riconosciuto per quel che valeva rientrano in un austero culto del silenzio, in una ferrea sicurezza di sé. In lui era fondamentale la difficoltà di comunicare il disagio di esprimersi proprio di tutte le anime religiose o etiche; che si traduceva in una indifferenza per le opinioni correnti, audace sino ad assalire le fame più inconcusse. In realtà l’audacia della sua critica dissolvente era piuttosto indifferenza e impassibilità verso le contingenze.
Nel 1916 al Congresso dei Comuni socialisti che lo rivelò a tutto il socialismo italiano, stupì per la sua completa mancanza del sentimento dell’opportunità così indispensabile per i mediocri e per le furbizie piccolo-borghesi!
[…]
Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti. E così si risparmiava ogni sfoggio di cultura. Ma il suo marxismo non era ignaro di Hegel, né aveva trascurato Sorel e il bergsonismo. È soreliana la sua intransigenza. La concezione riformista di un sindacalismo graduale invece non era tanto teorica quanto suggeritagli dall’esperienza di ogni giorno in un paese servile che è difficile scuotere senza che si abbandoni a intemperanze penose. Egli fu forse il solo socialista italiano (preceduto nel decennio giolittiano da Gaetano Salvemini) per il quale il riformismo non fosse sinonimo di opportunismo. Accettava da Marx l’imperativo dl scuotere il proletariato per aprirgli il sogno di una vita libera e cosciente: e pur con critiche non ortodosse non ripudiava neppure il collettivismo. Ma la sua attenzione era poi tutta a un momento d’azione intermedio e realistico: formare tra i socialisti i nuclei della nuova società: il comune, la scuola, la cooperativa, la lega. Così la rivoluzione avviene in quanto lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica, non per un decreto o per una rivoluzione quarantottesca. La base della conquista del potere e della violenza ostetrica della nuova storia non sarebbe stata vitale senza giusta preparazione. ...
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