Terza Generazione - anno I - n. 1 - ottobre 1953

tanti gentili: il selvaggio univeno che ci affascinava non ci affascina più. E come siamo diventati stupidi, pen– siamo con ramn1arico certe volte, guar– dando la testa del nostro bambino che ci è così familiare, familiare come non ci è stata mai nessuna cosa al mondo, guar– dandolo mentre è seduto a fare una col– lina di terra con le sue grasse mani. Co– me siamo diventati stupidi e come sono piccoli e torpidi i nostri pensieri, piccoli che potrebbero entrare in un guscio di nocciola, eppure così faticosi, così soffo– canti! Dov'è andato il selvaggio universo che ci affascinava, la nostra forza e il ritmo vivo e libero della nostra giovinez– za, l'ardita scoperta delle cose giorno per giorno, il nostro sguardo risoluto e glo– rioso, il nostro passo trionfante? Dov'è adesso il prossimo per noi? Dov'è adesso Dio? Dio, noi ci ricordiamo di parlargli soltanto quando il nostro bambino è ma– lato: allora gli diciamo che ci faccia ca– scare tutti i denti, tutti i capelli, ma gua– risca il nostro bambino. Appena il bam– bino è guarito, dimentichiamo Dio: ab– biamo ancora denti e capelli e riprendia– mo i nostri piccoli pensieri torpidi e fa– ticosi: chiodi arrugginiti, scarafaggi, pra– ticelli freschi, pappette di farina. Anche noi siamo di ventati superstiziosi: di con– tinuo facciamo le corna, siamo seduti a lavorare o a scrivere e di colpo ci alzia– mo, facendo le corna accendiamo e spen– giamo la lampada per tre volte, perchè d'improvviso ci siamo detti che solo que– sto potrà salvarci dalla sventura. Ci rifiu– tiamo al dolore: lo sentiamo venire e ci nascondiamo dietro le poltrone, dietro le tende, per non farci trovare. Ma viene allora il dolore per noi. L' a– vevamo aspettato, eppure non lo ricono– sciamo subito: non lo chiamiamo subito col suo nome. Storditi e increduli, fidu– ciosi che tutto si potrà rimediare, scendia– mo le scale della nostra casa, chiudiamo quella porta per sempre: camminiamo in– terminabilmente per strade di polvere. Ci inseguono, e noi ci nascondiamo: ci na– scondiamo nei conventi e nei boschi, nei granai e nei vicoli, nelle stive delle navi e nelle cantine. Impariamo a chiedere aiuto al primo che passa: non sappiamo . . . ' se sia un amico o un nemico, se vorra soccorrerci o tradirci: ma non abbiamo scelta, e per un attimo gli affidiamo la nostra vita. Anche impariamo a dare aiuto al primo che passa. E sempre cu– stodiamo in noi la fiducia che tra poco, tra qualche ora o tra qualche giorno, torneremo alla nostra casa coi tappeti e ~ibliotecaGino Bianco le la1npade; saren10 carezzati e consolati; i nostri figli siederanno a giocare con un grembiale pulito, con delle pantofole ros– se. Dormiamo coi nostri figli nelle sta– zioni, sulle gradinate delle chiese, negli alberghi dei poveri: siamo poveri, pen– siamo senza nessuna fierezza: scompare in noi a poco a poco ogni traccia di or– goglio infantile. Abbiamo della vera fa– me e del vero freddo. Non sentiamo più paura: la paura è penetrata in noi, è una cosa sola con la nostra stanchezza: è lo sguardo inaridito e immemore che gettiamo alle cose. Solo a tratti, dal fondo della nostra stanchezza, risale in noi la coscienza del– le cose, così pungente da farci venire le lagrime: forse guardiamo la terra per l'ultima volta. Mai abbiamo sentito con tanta forza l'amore che ci lega alla pol– vere delle strade, agli altissimi gridi de– gli uccelli, a quel ritmo affannoso del respiro in noi: ma ci sentiamo più forti di quel ritmo affannoso, lo sentiamo in noi così sordo, così lontano, come se non fosse più nostro: mai abbiamo tanto ama– to i nostri figli, il loro peso fra le nostre braccia, la carezza dei loro capelli sulle . . ' nostre guance, pure non sentiamo ptu paura nemmeno per i nostri figli: dicia– mo a Dio che li protegga, se vuole. Gli diciamo di fare come vuole. E adesso siamo veramente adulti, pen– siamo un mattino, guardando nello spec– chio il nostro viso solcato, scavato: guar– dandolo senza nessuna fierezza, senza nes- suna curiosità: con un po' di misericor– dia. Abbiamo di nuovo uno specchio fra quattro pareti: chi sa, forse fra poco avre1no anche di nuovo un tappeto, una lan1pada forse. Ma abbiamo perduto le persone più care: e allora cosa ci impor- ta onnai di tappeti, di pantofole rosse? Impariamo a riporre e a custodire gli oggetti dei morti; a tornare da soli nei luoghi dov'eravamo stati con loro; a in– terrogare, sentendoci intorno il silenzio. Non abbiamo più paura della morte: guardiamo nella morte ogni ora, ogni minuto, ricordando il suo grande silen– zio sul più caro viso. E adesso siamo veramente adulti, pen– siamo, e ci sentiamo stupiti che essere adulti sia questo, non davvero tutto quel– lo che da ragazzi avevamo creduto, non davvero la sicurezza di sè, non davvero un sereno possesso su tutte le cose della terra. Siamo adulti perchè abbiamo alle spalle la presenza muta delle persone mor– te, a cui chiediamo un giudizio sul no– stro comportamento attuale, a cui chie– diamo perdono delle passate offese: vor– remmo strappare dal nostro passato tante nostre parole crudeli, tanti gesti crudeli che abbiamo compiuto quando pure teme– vamo la morte ma non sapevamo, non avevamo capito com'era irreparabile, sen– za rimedio la morte: siamo adulti per tutte le mute risposte, per tutto il muto perdono dei morti che portiamo dentro di noi. Siamo adulti per quel breve momen– to che un giorno ci è toccato di vivere, quando abbiamo guardato come per l'ul– tima volta tutte le cose della terra, e ab– biamo rinunciato a possederle, le abbia– mo restituite alla volontà di Dio; e d'un tratto le cose della terra ci sono apparse al loro giusto posto sotto il cielo, e così anche gli esseri umani, e noi stessi sospesi a guardare dall'unico posto giusto che ci sia dato: esseri umani, cose e memorie, tutto ci è apparso al suo posto giusto sot– to il cielo. In quel breve momento ab– biamo trovato un equilibrio alla nostra vita oscillante: e ci sembra che potremo sempre ritrovare quel momento segreto, ricercare là le parole per il nostro mestie– re, le nostre parole per il prossimo: guar– dare il prossimo con uno sguardo sempre giusto e libero, non lo sguardo timoroso o sprezzante di chi sempre si chiede, in presenza del prossimo, se sarà suo pa– drone o suo servo. Noi tutta la vita non abbiamo saputo essere che padroni o ser– vi: ma in quel nostro momento segreto, in quel momento di pieno equilibrio, ab– biamo saputo che non c'è vera padronan– za nè vera servitù sulla terra. Così ades– so, tornando a quel nostro momento se– greto, cercheremo negli altri se già è toc– cato loro di vivere un momento identico, o se ancora ne sono lontani: è questo che importa sapere. Nella vita d'un essere

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