La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 9 - novembre 1995

ARTE E PARTE Una frana a teatro. Il Vajont di Marco Paolini PiergiorgioGiacchè Capita di rado che uno spettacolo teatrale interessante e coinvolgente - di quelli dove miracolosamente tutti gli spettatori si commuovono e applaudono sul serio - non sia profriamente uno spettacolo. (.2uando capita, cosa vuol dire? Vorrà dire che, così come esiste il trucco fin troppo abusato del teatro nel teatro, esiste anche l'anima di un teatro oltre il teatro? Il racconto del Vajont di Marco Paolini ha già "girato" molti festival e piazze e - c'è da sperarlo - proseguirà per molto tempo le sue repliche, nonostante resti una rappresentazione felicemente inqua1.ificabi le. Anzi, i termini "racconto" e "rappresentazione" si possono usare solo in senso lato, perché stavolta l'ibrido comodo o il vestito largo da attore-narratore (com'è spesso Paolini nei suoi ormai noti e ricorrenti 'album') non basta più. "Quella che vi racconto è una storia vera, ma io non so come si può fare uno spettacolo su questo", così comincia il copione di uno spettacolo che non c'è, mentre al suo posto c'è per così dire il suo contrario: invece dell'impossibile costruzione di un evento scenico, si dimostra possibile l' evocazione orale di un evento reale. Ma le sue proporzioni si rivelano pet davvero eccessive, I~ sua trasicità app~re come 1mprovv1samente rncontenibile da un teatro o da una teatralità gualunque. Non valgono le dighe de! mestiere e le reti della drammaturgia: Il racconto del Vajont per davvero frana sulla scena e sulla platea, costringendo Paolini a mettere a nudo il loro scheletro, la loro struttura originaria. Così, l'attore si ritrova in cattedra e lo spettatore in f iazza, e una situazione tra i didattico e il politico sembra rinnovare - e rovesciare! - i fasti del teatro politico d'antan. Un teatro politico "a rovescio", insistiamo, e non a caso, giacché non è più il messaggio del testo ma l'argomento-pretesto a prevaricare e azzera-re ogni tentativo d'attore, ogni trovata d'autore. La tragedia del Vajont è uno di quei fatti che tutti ricordano e che nessuno conosce: dunque, come un mito, precede e sovrasta ogni versione scritta e orale. Anche chi avesse divorato il libro di Tina Merlin (di cui abbondantemente si ciba il riconoscente Paolini) non riuscirebbe a darsi laica ragione o a trattenere in ordinata memoria, la quantità "inconcepibile" di errori e di orron che convergono in un'unica storia, quella di un crimine letteralmente contro natura. Certo, al momento, furono in molti a rassicurare l'opinione pubblica sulla insondabile fatalità della disgrazia. In prima fila - ricorda Paolini - firme di intoccabile letteratura e di alto giornalismo: come Dino Buzzati che descrive il Vajont con una pulita e azzardata metafora ("Un sasso è caduto in un bicchiere pieno d'acqua. ·L'acqua è traboccata sulla tovaglia") e che difende la diga come un capolavoro estetico ("La diga del Vajont era ed è una scultura stupenda"); come Giorgio Bocca, che incide una lapide mortuaria contro la natura matrigna, negando non solo l'umana responsabilità ma anche che il fenomeno- Vajont abbia a che fare con la Storia. ("Cinque pae.si, migliaia di persone ieri c'erano, oggi sono terra. Nessuno ha·colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno _può riparare. In tempi atomici, si potrebbe dire che 9.uesta è una sciagura pulita. Gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona, non è cattiva ma è indifferente. Ci vogliono queste sciagure per capirlo"). La "storia" del Vajont invece c'è, ed è una puntuale, ossessiva cronaca d1 una morte annunciata che Paolini intende ricostruire dai primordi e inseguire fino a oggi, fino alle eredità ancora brucianti e ai risarcimenti ancora inevasi. E però, incontenibile dalla scena, dopo averla introdotta, provocata, irrisa - alla maniera ormai inevitabile eppure inservibile di una affabulazione alla Dario Fo (e a chi sennò riferirsi?) - la "storia" del Vajont esce dalle virgolette e continua da sola. Così agli occhi dello spettatore, ogni finzione drammaturgica si riduce a una finta d'attore, un dribbling di qualche effetto ma di minima durata; il bozzetto, il personaggio, il dialetto, si rivelano scuse per giustificare un' occasione teatrale senza la quale non saremmo andati e non avremmo saputo. Dall'altra, sul palcoscenico, Marco Paolini lo sa fin dall'inizio che la sua fatica per spiegare, illustrare, narrare, è destinata a soccombere sotto il peso di un materiale tanto necessario quanto ingombrante: non è il dolore a cui si può alludere soltanto, né il lutto da elaborare insieme (magari al posto della lotta di una volta) ciò che rende improponibile una normale confezione spettacolare, ma sono le cifre di una catastrofe "naturale" e le dimensioni della stupidità e dell'insordigia 1ei protagonisti ven del_\~ stona, a rendere sempre p1u inagibile la scena e sempre più disagevole la sala di un teatro. L'esito o la funzione politica allora non si aggiunge ma si sostituisce al teatro: in sala, la fruizione diventa semplice e però ininterrotta attenzione, mentre, sulla scena, la recitazione si arrende intanto all'oratoria (una parola e un'arte che ritrova il suo sorpren_dente significato positivo!) e l'attore a poco a poco cessa perfino di- giocare con la sua autobiografia: l'autenticità soggettiva è sopraffatta da una verità oggettiva più grande. Finalmente! Era questo in definitiva l'obiettivo inconfessato di Marco Paolini? Io credo di sì, perché, se pur molto più piccola o apparentemente insignificante, anche quella degli attori come lui è una "storia vera", di quelle storie che la restaurata presu ntione della società del teatro consiglierebbe di di-

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