La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 5/6 - lug.-ago. 1995

Tre crisi: la guerra· e l_'Europa,1:onu, gli Usa Mimmo Càndito Lanciata dalla miopia diplomatica di Germania e Francia - con un riconoscimento troppo affrettato dei nuovi Stati di Slovenia e Croazia - l'ultima guerra balcanica ha superato ampiamente i confini del "conflitto regionale", all'interno dei quali la geografia fisica è riuscita comunque finora a tenerlo. La rottura di confini è soltanto politica, non ancora militare; ma la confusione dei governi occidentali ha creato un pasticcio di interessi quasi inestricabile, e in quel pasticcio può trovare ormai spazio l'ombra di una vera crisi nelle relazioni tra Europa, Usa e Russia. Nel celebre teorema di Francis Fukuyama, che poi precedette di soltanto pochi mesi l'esplodere di questa guerra, il ricercatore della Rand Corporation accompagnava la controversa elaborazione di una "fine della Storia" con l'elencazione di alcuni, interessanti, corollari. Uno di questi affermava che la vittoria del capitalismo e la fine dell'utopia comunista avrebbero acceso in ogni angolo del mondo focolai infiniti di nuove guerre, che vengono considerate regionali per la natura dei soggetti coinvolti ma che in realtà sono sempre più contagiose e sempre più controllabili. La caduta dell'equilibrio tra i due blocchi internazionali avrebbe liberato spinte e tensioni che quell'equilibrio, prima, riusci- \·a ad attutire; in più, queste nuove tensioni conflittuali avrebbero potenzialità fortemente destabilizzanti, perché nel campo di battaglia mancherebbe oggi quella misura di responsabilità globale che le due Superpotenze comunque usavano per evitare che lo scontro "regionale" potesse farsi guerra "totale". Le guerre che oggi si stanno combattendo dentro la geografia aspra e montagnosa della vecchia federazione titoista restano ancora limitate alle fazioni locali: serbi, croati, bosniaci. Anche dof o la c;i.ttura degli ostaggi e i loro utilizzo da "scudi umani", la ~resenza dei ca~chi blu ?ell'Unprofor (Umted Nauons Protection Force) resta tuttora marginale sul teatro dello scontro armato. Ma l'ambito strettamente "regionale" nel quale si disegna il campo di battaglia si mostra ormai un'efficace rappresentazione del corollario di Fukuyama, perché dilata enormemente i confini reali dello scontro e anche la natura dei soggetti politici trascinati sul campo. Dopo ottant'anni Sarajevo torna a farsi una memoria drammatica della storia mondiale, e il sioco delle instabilità balcaniche sembra rimettere in modo una dinamica delle coincidenze che lascia spazio a inquietudini non più soltanto emotive, o irrazionali. La Macedonia diventa già ora l'ultima frontiera di que- ~to gioco, mentre in Bosnia si continua a morire ogni giorno. La prossima tappa potrebbe essere, intanto, il ritiro dei caschi blu, o l'occupazione serba di Sarajevo; en attendant, la crisi ha scatenato già i suoi effetti su tre terreni di difficile · ricomposizione: 1) la capac1tà politico-diplomatica dell'Europa, 2) il ruolo e le funzioni dell'Onu, 3) la collocazione internazionale degli Usa. L'Europa e la guerra Se Germania e Francia hanno gravi responsabilità per l'accensione della crisi, quando sull'interesse d'una posi-· zione unitaria della Comunità europea fecero prevalere invece i loro obiettivi di opportunismo nazionale, la responsabilità si fa poi continentale - cioè dell'intera Europa - quando la crisi diventa una guerra generalizzata, che non risparmia nessuno dei terrirori · della vecchia Jugoslavia. Fin dalla prima rottura della Slovenia, la diplomazia europea commise un tragico errore di sottovalutazione, concedendo nelle analisi scarso rilievo ai rischi che il neonazionalismo intrabakanico stava aprendo sul laboratorio della Csce (la Conferenza sulla Sicurezza .e la Cooperazione). Ancora intontite dal gran boato che la Guerra del Golfo aveva provocato sull'intero pianeta, ambasciate e cancellerie videro la crisi serba - al confronto - come una piccola tensione, di piccolo orizzonte, e di piccole dimensioni; la prima battaglia parve un focolaio "inevitabile" della morte di Tito e della caduta del Muro, fu considerato anche un focolaio senza molte scintille. Nemmeno il sistema mondiale dei mass media seppe sfuggire alla trappola del paragone con la Grande Guerra Planetaria appena combattuta nel deserto di Saddam, e la copertura if!iziale di sta_mpa e_tv tra L"1JbJanae Zagabi"la fu distratta, episodica, strettamente -mossa da fatti di cronaca bellica. Se ·però i media seppero imporre subito un salto d'impegno alla loro presenza in Jugoslavia (lo testimoniano comunque i 70 giornalisti morti laggiù, e i premi prestigiosi assegnati ai corrispondenti di guerra del "New York Times" e del "Guardian"), la macchina della diplomazia si mostrò invece lenta, tarda a capire gli sviluppi, farraginosa nella progettazione delle misure da decidere per bloccare l'espansione minacciosa dei -rischi militari. Il contagio bosniaco veniva considerato unanimemente probabile; dopo la crisi slovena e dopo la guerra croata; eppure le grandi capitali europee - soprattutto Londra e Parigi - parvero colte di sorpresa dall'espandersi del conflitto, e non seppero interporre che strumenti diplomatici inadatti a qualsiasi forma di contenimento dell'escalation. Le "due verità" che muovono qualsiasi analisi delle guerre combattute ora in Jugoslavia sono, secondo Michael Elliott, "la prima, che nessuna delle potenze occidentali ha mai voluto rischiare di finire coinvolta davvero nella penisola balcanica; e la seconda, che nessuna ha avuto l'onestà almeno di dirlo apertamente". Presa in ostaggio dall'ipocrisia dell'Europa (ma anche dell'America), la Bosnia paga oggi questa debolezza dei suoi tutori; ma

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