RE NUDO - Anno XI - n. 88 - giugno-luglio 1980

RE NUD0/21 . . Intervista ad Antonio Maraui LA CULTURA TIBETANA L ·a questione _tibetana, che hai sempre stoncamente trovato . poca eco, anche negli anni della diaspora successiva all'invasio-1 ne cinese, ba conosciuto in Italia un 1 periodo di una certa notorietà, anche grazie agli articoli del corrispondente del Corriere della Sera, Ostellino, : sulla situazione del Tibet. Ora, questi articoli, tutti antiorientalistici, han– no suscitato molte perplessità e criti– che, perché erano d.i una notevole durezza nei confronti del Tibet tradi– zionale, "lamaico": si parlava addi– ritturadi barbarie e di carnefici, indi– cando il Dalai Lama. Vorrei sapere cosa pensa al proposito. , Penso senz'altro che quegli articoli avessero un 'impronta di grande su• pe.rjìcialità; e non ci si può meravi– gliare di questo: è il pericolo cui va incontro il cronista affrettato. che di solito è fatto scendere da un aereo e portato in giro da un propagandista. li: cronista vede quello che vogliono far- ' gli vedere. ascolta certe cose. e poi le 1 riversa in questo genere di articolo. Certo, una cattiva professionalità; ma non mi sembra che ci sia poi molto da stupirsi. perché il problema"è compli– cato. ed è quasi logico che chi segue il filone della propaganda cinese sia ca– duto in questo "infortunio" (per dirla anche in modo troppo generoso). Per quanto riguarda ilfatto in sé. la "crudeltà" o "barbarie" precedente. conviene prendere in considerazione alcune immagini a modo loro obietti– ve. cioèfar riferimento allefotografie. Mi ricordo bene il materiale fotogra– fico che mi è capitato spesso di sfo– gliare: si vedano i prigionieri in grossi cappi. i ladri puniti in modo molto vi– stoso. che ricordava il nostro medioe– vo; e sono immagini di persone vestite I di stracci. malconce. punite con evi– denzafisica. Questo. però. è uno degli, aspetti del quadro generale. quello di cui può avvalersi una speculazione: il Tibet tradizionale era certo una strut– tura di tipofeudale. sotto certi aspetti; però c'erano altri aspetti. meno appa– riscenti. che svelavano una realtà ben diversa. Vedere le cose da un .solo punto di vistapuò deformare qualsiasi realtà. Credo che il tradizionale sistema tibetano abbia avuto un suo sviluppo molto articolato. e quindi difficilmente sintetizzabile. Ma credo anche che il solofatto che sia durato tanto tempo. che si sia espresso con una sua stabi– lità. con un 'omogeneizzazione di po– polazioni diverse. che si sono ricono– sciute in un "unità culturale evidente. dimostri che questo sistema esprimeva una realtà sentita. e che quindi non aveva bisogno. per esistere. di ceppi o di altre punizi<Jni. Certo, leggendo libri scrilli da occi– dentali si vedevano squarci di vita du– ra, non facile, che lo scrittore occi– dentale notava semplicemente perché non c'era abituato. Tutti noi che co– nosciamo l'Oriente sappiamo che ha anche degli aspelli scioccanti. Tra l'altro, io credo che nel modo di presentare l'Oriente da parte degli occidentali ci sia anche una compo– nente etnocentrica, per non dire raz– zista. L'orientalismo, quando non I: n questi ultimi mesi si parla molto del Tibet e del problema .I.i dei rifugiati tibetani. Infatti il governo cinese ha chiesto a ! S.S. il Dalai Lama di tornare nel "Paese delle Nevi", ga– rantendo la libertà di religione e la possibilità di poter praticare e insegnare il buddhismo. Non.sappiamo quali saranno le risposte dei rifugiati tibetani a queste offerte cinesi, speriamo comunque che un accordo possa essere trovato e al Tibet possa essere restituita almeno l'identità culturale e la libertà religiosa. Nel frattempo siamo andati a intervistare sulla cult_ura tibetana, il problema dei profughi ed altre cose ancora, uno dei più attenti studiosi della cultura tibetana in esilio: l'antropologo Antonio Marazzi che alla cultura tibetana ha dedicato due importanti libri, "Tibetani in Svizzera", Milano 1975 e "Il potere latente", Milano 1979. cade nell'infatuazione, tende sempre a finire all'altro estremo: il rifiuto. Assurdo, del resto, perché anche la Londra dell'800, con i suoi quartieri proletari, non era certo molto meglio delle strade di Lhassa. C'è anche un altrofallo importante. che nessun cronista può negare: l'in– successo della cinesizzazione del Ti– bet. Chi si melle fuori da un tempio e guarda la gente che entra ed esce, tro- 1 verà un totale di dieci-venti volte su– periore alle cifre ufficiali. Per dire che certi cara11erisopravvivono in modo fortissimo, anche nell'arco di un cam– bio generazionale. Mi è capitato di I conoscere persone che sono passate! a11raverso un«educazione scolastica non legata alla tradizione, e che pure hanno mantenuto lo schema di riferi- 1 mento sociale. esistenziale, della ge– nerazione precedente. Questo è il mo– do migliore di confermare la consi-1 stenza e la validità della cultura tra– dizionale: è continuata in modo im– perturbato in mezzo a sconvolgimenti incredibili. La cosa è addirillura più evidente in quelli che sono rimasti in 1 Tibet che in quelli che sono andati via,' e naturalmente hanno ricostruito la' loro realtà in modo un po' artificioso. Lei, proprio nei libri dedicati agli esuli tibetani, sia in India che in 1 Svizzera, nota, anche con statistiche, quanto sia notevole la percentuale dei profughiche non avevano nulla da perdere, anzi molto da guadagnare, economicamente, dall'invasione ci– nese. I proprietari terrieri fuggiti erano, in percentuale, molto pochi. Annch'io vivendo con i tibetani, ho visto che per la maggioranza erano fuggiti perché temevano cli dover ri– nunciare ad un'identità culturale, !llla loro memoria collettiva. Ora, lei ha scritto che. la cultura tibetana, in esi– lio, pur tra diversi scossoni, ha un filo che noo s'interrompe. Lei pensa che questo possa continuare in futuro, nelle comunità esiliate, oppure che sia destinato ad interrompersi? Credo che in questa situazione si riproporranno dei fenomeni che an– tropologicamente si ritrovano in tante condizioni diverse. C'è senz'altro una dinamica, queste comunità non pos– sono certo sopravvivere in modo stati– co: è una caralleristica di tulle le si– tuazioni sociali e culturali. non sareb– bero vive se non si trasformassero. In questo caso, naturalmente, si trasfor– mano in modo accelerato dai tanti contrasti. conta lii. problemi e cos,·via; indubbiamente. in una situazione esa– sperata come può essere quella di una cultura. la cultura buddista. traspor– tata agli antipodi. il mutamento è lo– gico. La tendenza, comunque, è verso l'assimilazione: nel lavoro, nei rap- porti (anche matrimoniali) che si in– staurano, e cos,. via. Nello stesso tem– po, però, si può vedere un altro feno– meno, del 1u110 originale, che permelle di assicurare una certa continuità a valori evidentemente molto sentiti da tulli (anche se non tulli riescono poi a conciliare gli aspelli della vita quoti– diana con quelli della cultura tradi– zionale): mentre nella strullura tradi– zionale tullo era omogeneo, e quindi un certo sistema di valori si diffondeva anche nella vita di tulli i giorni. adesso si crea una dicotomia un po' simile a quella del mondo occidentale; cioè, la dimensione spirituale si "specializza", in un certo senso. Invece la vita del monaco, in un contesto tipico, è inse– rita in quella della comunità, e la sua particolarità deriva dalla qualità di vita. Questa dimensione univoca si può mantenere nella vita dei rifugiati in India... Esatto. In Svizzera, invece, si crea la specializzazione dello spirituale. Ho visto che le famiglie di queste co– munità fanno una vita per cosi' dire secolare.finché non c'è una ricorrenza o un avvenimento per cui si deve chia– mare il Lama, ospitarlo, ricevere la sua assistenza. Poi però, subito dopo, si rinuncia di nuovo a questo: è l'ine-

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