RE NUDO - Anno VII - n. 48 - dicembre 1976

) blicano delle fotografie, si completano con didascalie acute e piene di sapore, e oplà il messaggio è fatto, pronto a essere consumato da chi ha fretta. Sta a noi arricchirlo con le nostre emozioni, i nostri ri– cordi se li abbiamo, i nostri confronti col presente se non vogliamo limitarci a contem– plare altri mondi. Particolarmente vicino a noi il capitolo: Fu allora che in– contrai i capelloni italiani. Capitolo drammatico della ! sua vita, che dopo un perio– do di entusiasmi cosmici nel '66, finì in vacca con gli scazzi tra Mondo Beat, Onda Verde e «pivanotteri». - lo na– scosta dietro a grandi torni per non fare la mamma dopo esser per molti (per troppi) la borghese ricca (I), strumentalizzatrice (chissà di che cosa) e per qualcuno in menopausa (purtroppo senza esattez– za) ... la Pivano ci fa rivivere i nostri ruggenti anni '60 da un pun– to di osservazione limitato ma tutt'altro che banale, specie per quel che riguarda l'indu– stria culturale dell'epoca (che quanto a conformismo non è cambiata). RE NUD0/41 brare un ritorno d'Arcadia. In realtà i beats italiani di ri– vendicazioni ne avevano tan– te e l'abbraccio metaforico al borghese era per farsi dare dei soldi, e quello del bor– ghese al beat era per farsi passare la ragazza. Con questo linguaggio franco e fondamentalmente sincero, Certo che per chi ha un'ottica di classe, leggere che i beats erano "diseredati senza ri– vendicazioni e poveri per li– bera scelta» oppure di "ab– braccio di tutte le minoran– ze, lotta di classe scavalca– ta dall'abbraccio» può sem- Ecco come veniva strumenta– lizzata l'ideologia evangelica di Fernanda Pivano da quelli che lei definisce «sottopro– letari ansiosi di impadronir– si di quei privilegi, quali che fossero». (W. P.) stessa pensata da parte dell'ex ami– co dell'ex cowboy di mezzanotte, Dustin Hoffman, specializzato in par– ti di paranoico cittadino. Si sono fatti la concorrenza per un po' e alla fine hanno deciso che la soluzione migliore era mettersi as– sieme. Redford ha contattato Alan Pakula, regista e, insieme, hanno fatto la sceneggiatura, con la colla– borazione dei due eroi (ormai miliar– dari) del Washington Post. I primi trenta secondi del film sono eccezionali; si vede un foglio di car– ta ingrandito enormemente su cui battono i martelletti di una macchina d11scrivere, una trovata. Poi professionisti dello scasso van– no al Watergate, ufficio del partito democratico e li vengono sorpresi dalla polizia, arrestati, processati e condannati per furto. Ma al nostro eroe non tutto sembra chiaro e, con splendide camice az– zurre, impeccabili completi di velluto beige portati con la nonchalance del divo, comincia a indagare. Più della metà della storia si svolge nei freddissimi uffici del W.P., in un turbinio di tasti di macchine da scri– vere, giornalisti come impiegati sotto luci· al neon quasi accecanti, telefo– nate alla Casa Bianca, alla CIA all'FBI. Incredibile come Redford e Hoffman, giornalista più esperto che viene affiancato all'eroe biondo su iniziativa del direttore, riescano a te– lefonare a tutti con una facilità che chi ha solo una volta provato a parla– re con un redattore capo di un gior– nale qualsiasi, sa assolutamente ar– tificiale. ne di Nixon è una associazione a de– linquere bella e buona. E ogni volta che la responsabilità arriva più in alto, ogni volta i due si stupiscono. Impiegati e impiegate del comitato parlano poco, con reticenza, piango– no, all'idea della orribile corruzione che li circonda. Quasi nessuno ha fiducia nell'in– chiesta che, ovviamente, sta fruttan– do al «Washington Post» una feroce campagna denigratoria; a difendere questi due giornalisti, che somiglia– no abbastanza a Paperino e Papero– ga quando lavorano come cronisti al giornale di Paperone, c'è solo il loro caposervizio e la figura, importantis– sima, del direttore, anziano, severo, paternalista che tra un consiglio e un rimprovero interpreta la parte del– la buona coscienza americana che deve arrivare alla verità. Nixon viene rieletto, e vediamo alla TV la cerimonia dell'investitura; l'in– chiesta è arrivata alla fine, tutti i trucchi scoperti e Nixon mandato in pensione. Il film sono andato a vederlo con molta voglia, sull'onda del bellissimo «Tre giorni del Condor» (per via di Robert Redford) e per un lunghissi– mo articolo su Rolling Stone. Ovvio che in un film occorra abbre– viare i tempi, se no avremmo avuto · due ore di telefoni occupati e «No il signor Mitchell non è in ufficio, ri– chiami più tardi», ma questa facilità è uno dei primi elementi propagandi– stici, sottili e intelligenti del film. L'inchiesta va avanti e i due, buoni americani, scoprono lentamente, sempre con maggiore definizione che alla Casa Bianca «c'è del mar– cio» e che il comitato per la rielezio- Cosi come la racconto, semplicisti– camente, cosi la storia viene fuori dal film. Tutti i. personaggi fanno la loro parte in una cosa che è una commedia, un gioco di scarico di re– sponsabilità, un meccanismo che, condannato Nixon vÒole riuscire (e riesce) a salvare l'America, capace di autocritica, capace di emendare i suoi errori e di cancellare il passato. I ruoli del buono e del cattivo, il gio– co delle parti è elementare e il diret– tore del giornale è presentato in modo che chiunque, alla fine del film può pensare che lui, si, sarebbe un buon presidente per questa nazione, onesto e incorruttibile. In sostanza una buona commedia, piacevole, difficile da seguire in tutta la parte dell'inchiesta se non si ha familiarità con i cognomi inglesi, tut– ta tesa a esorcizzare, scacciare l'idea di un'America corrotta. Un film di propaganda. ,Il ..caso Watergate», letto sui gior– nali italiani, viste le lacrime (di coc– codrillo) di Tricky Dick Nixon Riccar– do alla TV, dava l'idea di una cosa molto serie. Redford, uomo di mode– rati interessi civili, appassionato dal caso, ebbe idea di farci un film; Redford mi era piaciuto molto di più nel Condor e Pollack è un regista più vivace e interessante di Pakula.

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