RE NUDO - Anno VII - n. 38-39 - gennaio-febbraio 1976

68 LUIGI TENCO: UN TRANQUILLO WEEK-END DI SANREMO Suonava, cantava, componeva, perché gli piaceva la musica non per altro. Aveva suonato il sax con un sacco di gruppi jazz e rock, anche con Gaber e Jannac– ci. I suoi primi dischi Luigi li incise nel '58 '59 agli inizi dell'eti– chetta «Ricordi». Andava in sala e incideva la voce alla prima. Di solito quando un cantante so– vraincide la voce su una base orchestrale ha sempre bisogno di diverse prove, la prima non va mai bene: difetti d'intonazione, di di– zione. Invece Luigi era capace di sovrapporre la voce ai dodici pez– zi d'un LP in una sola giornata. Non perché fosse un super– professionista né tantomeno un presuntuoso: anzi dicono che fos– se estremamente insicuro nelle sue scelte, è che la musica per lui era un modo di esprimersi e quin– di era naturale, vivo, non artefat– to. Non c'era bisogno di rifare la voce venti volte per trovare « il giusto effetto vocale» o il « bel canto». E in questo assomigliava a Dylan.Non nelle canzoni che faceva che avevano tutt'altra ma– trice, più vicina alla canzone fran– cese, ma senza •maniera», anche qui era molto personale, sfuggiva ai «generi» e ai riecheggiamenti. Chi .ascoltasse il suo ultimo disco pirata uscito postumo con dei vecchi provini di un Lp mai uscito sarebbe sorpreso di scoprire in Luigi anche una vena ironica, dissacrante, canzonatoria vicina (e nello stesso tempo diversa) a Gaber e Jannacci. Il suo primo disco fu « Quando» e tardò a uscire. Luigi non voleva usare il suo nome e continuava a sce– gliersi pseudonimi assurdi, tipo Dick 21. Poi non gli andavano più bene e bloccava la stampa delle etichette. Era il periodo in cui usare uno pseudonimo all'ameri– cana era quasi d'obbligo. Mina si chiamava Baby Gate e Gaber, se un ultimo scrupolo non l'avesse trattenuto, stava per chiamarsi nientedimeno che Scicky Rocky. Ma Luigi non voleva lo pseudoni– mo per americanismo. Non s'è mai bene capito perché, ma esita– va a uscire col suo nome. Diceva che era per via della famiglia (commercianti di vini): forse non voleva confondere le etichette dei dischi con quelle del Barbera asti– giano, forse invece non voleva che i suoi avessero fastidi: a quei tempi, agli esordi del divismo, avere un figlio cantante non era sempre visto di buon occhio so– prattutto perché i guadagni arri– vavano dopo anni e anni di un culo pazzesco. Stava parecchio da solo, ma ogni tanto se aveva bisogno di un amico lo andava a trovare e se lui non c'era stava ad aspettarlo e se lui non arrivava stava lì lo stesso magari a parlare con la madre. Del rapporto di coppia aveva invece fastidio, non gli andavano i possessivismi e in questo era molto diverso dall'ami– co Paoli (e si vede nei testi delle sue canzoni). Non è giusto farne un santo, un martire: sono troppi gli sciacalli che l'hanno apprezza– to dopo la morte, mentre prima non lo cagavano neanche. Sta nel macabro funzionamento dell'in– dustria discografica la creazione– distruzione del personaggio e con lui il meccanismo era funzionato a rovescio: distruzione-creazione. Prima del fattaccio di Sanremo Tenco vendeva pochissimi dischi anche se i suoi pezzi erano molto eseguiti nelle sale da ballo delle orchestrine. Di lui non piaceva questo non atteggiarsi a divo in un'epoca in cui bisognava avere « il ciuffo» o sapere fare « la spac– cata». Poi quando venne di moda il personaggio dell' «introverso» trovarono una casella anche per lui. Non volle entrarci e fece la canzone che pubblichiamo a fian– co: « La ballata dell'arte». Non gli andava usare una «persona» per creare il «personaggio», così come non gli andava avere il suo nome sui dischi, così come gli sarebbe ripugnato pensare che dopo avrebbero fatto di lui il san– to della canzonetta. Quando scrisse « in un mondo dove c'è posto per Orietta Berti non c'è posto per.me » non credo volesse dire una cattiveria verso la Berti. La Berti è una povera crista che quando era al vertice del succes– so gli impresari facevano alzare alle cinque di mattina per sfrutta– re tutto il tempo disponibile all'u– so capitalistico del suo personag– gio. Anche lì: creazione e distru– zione (cioè tutti a sputtanarla per– ché è «grassa» «è brutta» e altre cazzate razzistiche radio– televisive che però contribuivano a farne un personaggio). A Luigi la mistificazione, la confu– sione « persona-personaggio » è stata fatale e s'è sparato. Farne un santo vuol dire continuare la mi– stificazione. Ecco perché più che di Luigi (e di Luigi ce ne sono diversi in giro anche oggi) è bene parlare di quello che c'è dietro: non di lui che si spara a Sanremo ma dell'atmosfera omicida di una qualsiasi normale serata di Sanre– mo, della tensione, del senso d'e– sclusione, della bava di successo su cui scivola una tipica manife– stazione discografica. C'è da stu– pirsi che solo uno finora si sia sparato: però tanti tentati suicidi, tanti suicidi di fatto non consu– mati ma altrettanto reali. Sanre.mo eraallora· il punto dove si andava– no a intricare tutte le matasse del mercato discografico italiano. Un cantante non era (e non è) mai solo. A Sanremo se ne accorgeva. Si accorgeva cioè che lui era la pedina e dietro e davanti aveva l'azienda, la fabbrica del disco. Un cantante arrivava a Sanremo accompagnato dal produttore, dall'Ufficio Stampa, da tutta una serie di figuri (e di «onesti sala– riati») che sono quelli che in con– creto «vendono» il disco. Li hai sempre addosso. Non è facile far finta che non ci siano. Loro stessi ti dicono che il personaggio sei tu, ma non puoi fare a meno di sentirti merce. E merce sei. Quan– do la merce va sul mercato si cerca di venaerla al prezzo più alto: quindi conferenze. stampa, radiocorrieri, foto sulla spiaggia, tutto un insieme di zuccherini in cui ti decantano, dicono che sei il più forte, che sarai la «sorpresa» del Festival, che ti hanno già pro– curato serate ben pagate per anni interi eccetera. Questo lo dicono a te e lo dicono alla stampa. Chi ci crede è un pirla, ma di solito ci si crede: ci si può anche illudere che tutto l'interesse che ti gravita attorno è per te, per quello che sei e che fai. Man mano che si avvicina la serata del debutto l'at– mosfera si scalda e si fa nevroti– ca. Si respira un certo nervosis– mo: cominci a capire che sul pal– co sarai solo, che al «momento della verità» sei tu e il toro. Che dietro le quinte faranno un sacco di patteggiamenti, che forse è già deciso chi vince e chi perde, chi deve vendere e quanto, ma che

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