Il piccolo Hans - anno XIII - n. 51/52 - lug./dic. 1986

me above and in all things») e quotidianamente scommette sul reale («... it is the eye they baffle»), non allude in Hopkins ·a nessuna confusione panteistica, né a contraffazioni o distillazioni emotive: gli oggetti non si fanno, come per Coleridge, «vivid spectra», né la natura si trasforma in luogo di esperienze private ed esclusive (abbiamo già accennato agli «alberi di Wordsworth»), o di improbabili meraviglie, come per lo Swinburne criticato dallo stesso Hopkins: «Either in fact he doesn't see nature at all or else he overlays the landscape with such phantasmata, secondary images, and what not of a delirium tremens imagination that the result is a kind of bloody froth»' 5 • Mentre la tentazione della visione rivelatrice e sfuggente - quella di Pater e di tanti autori modernisti - si tempra nella pratica «scientifica», già ruskiniana, dell'applicazione paziente e metodica. Il memorabile studio dell'inscape della quercia (cfr. i Diari, 1866) impegnerà il poeta per mesi; e proprio alla quercia e alla legge intrinseca che governa la sua struttura complicata, «asimmetrica», egli aveva già dedicato alcune riflessioni in un originale saggio di estetica scritto nel '65, On the Origin of Beauty. A Platonic Dialogue. In Hopkins dunque, l'opzione dell'individualità, della «oddity», legittimata dalla presenza di un soggetto «forte» portatore di percezioni differenziate, non si risolve nell'interiorità, o nella rivelazione epifanica, ma porta con sé nuove riflessioni attorno all'oggetto, alla «sua» individualità d'oggetto in un mondo d'aggetti. Dall'osservazione analitica alla contemplazione religiosa, la teoria dell'oggetto si decide nell'ambito delle percezione sensibile: innanzi al mondo degli oggetti, al «mondo-oggetto», sta l'eccellenza dell'occhio, primo commutatore della funzione-oggetto, ma nondimeno consegnato alla relatività della sua realtà organica e spaziale, all'ambiguo rapporto con la luce, ai «troubles of perspective»: 42

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