Il piccolo Hans - anno XIII - n. 51/52 - lug./dic. 1986

precipitano, con suono lamentoso di giganti. Tutto è rovina intorno all'osservatore solitario; anche la fragile impalcatura delle ossa sembra dover crollare da un momento all'altro: il beholder questa volta è presente solo per morire le sue morti, nutrire la fiamma delle tempeste, e della febbre rumorosa che in sé addomestica. La raffigurazione di Benjamin dell'angelò di Klee ci presta l'immagine travagliata di un guardiano angelico alle porte del moderno, con il suo insieme di antico e di nuovo: noi lo vediamo sovrastare le rovine del mondo, precipitando lui stesso, come nel dramma barocco tedesco il principe melanconico. Egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che gli si è impigliata nelle ali, ed è così forte che non può più chiuderle•. Ma l'orrore e le rovine - the horror and the havoc - della prima quartina del nostro sonetto valgono in una letteralità assoluta per l'intero corpo dei sonetti «terribili». Il lampo che abbiamo visto con la sua forza accecante nella seconda stanza del «Wreck» (4) accompagnare la venuta del Cristo, come già nell'Apocalisse, dando all'opera di Hopkins quella scossa divina che permea i sonetti gloriosi, qui è ben lontano. Cristo soprattutto è lontano: invocato e assente in tutti i sonetti «terribili»; e qui, nel sonetto 69, neppure nominato, neppure alluso. Solo la prima quartina porta i segni di una presenza spostata, di una mancanza segnalata dal pastore, che non è il divino pastore biblico, dagli angeli, che precipitano, e dal cielo che si chiude su di loro. Ma di Dio, e della sua gloria, nessuna traccia, solo il lamento dei giganti, lo sterminio dell'antica dinastia di dei, precedenti non solo al cristianesimo, ma persino all'insediamento degli dei olimpici. Sono resti 17

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