Il piccolo Hans - anno XI - n. 43/44 - lug./dic. 1984

litico molto difficile e molto precario si resse solo fino a quando fui disposto ad andare incontro alle sue richieste di agevolazioni economiche. Ricordo anche il caso del fobico di cui Virginia Finzi Ghisi aveva parlato in un seminario di due anni fa che arrivò a formulare esplicitamente l'istanza che la sua psicoanalista avesse uno studio più vicino alla casa dove lui abitava. Mettiamoci invece in un'altra prospettiva e chiediamoci: chi è il fobico? Per rispondere a questa domanda dobbiamo scavalcare tutta la letteratura psicoanalitica fino a Freud. La letteratura psicoanalitica del dopo Freud ci ha parlato di « fobie » e bisogna risalire proprio fino a Freud per sentir riparlare di fobia. Il fobico non è una persona che non riesca a muoversi dalla sua casa nell'attualità, ma è qualcuno che molti, molti anni prima non è riuscito a muoversi da quella risposta all'angoscia che Freud ha chiamato fobia per sviluppare una nevrosi. Lasciamo per un momento in sospeso questa definizione e vediamo come nasce e che cosa comporta per la psicoanalisi questo silenzio o questo fraintendimento sulla fobia. Come l'analisi permette al fobico di spostarsi, coprendo in un certo senso la sua impossibilità a mU<;>­ versi, così favorisce durante la sua durata una certa eclissi della fobia dietro le diverse strutture nevrotiche. Si pensi che per molti arrivare in analisi comporta delle levatacce, dei viaggi in treni affollati, addirittura in cuccetta, dormire dove capita, aspettare delle ore in strada (all'addiaccio come diceva un mio paziente) per poi finire a sdraiarsi in un posto così contaminato da tanti corpi, da tanti piedi, da tante teste come è il divano dello psicoanalista. Nessuno che tema di prendere i pidocchi, nessuna donna che pensi di restare incinta come quando si siede in autobus. 27

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