Pègaso - anno IV - n. 10 - ottobre 1932

Musiche nuove a Venezia 473 mai orchestrale, con tutti i raddoppi e le trascrizioni più ingegnose. Di tutte le opere moderne rappresentate a Venezia soltanto il Retablo di de Falla può rispondere, a parer nostro, a quell'idea di opera da camera che ci sembra l'unica accettabile. Anche se nella Maria Egiaiaoa i personaggi si muovano dinanzi ad una schematica scena tripartita, con effetti di luce elementari, e nell'orchestra manchi alcuno degli stru– menti che Respighi usa mettere di solito nelle sue partiture, siamo sempre nell'estrinseco e nell'accidentale: tanto che pensiamo che qualche pagina di questo Mistero, - per esempio la seconda parte del secondo episodio, - guadagnerebbe ad esser rappresentata con tutti i mezzi usuali dell'opera, dalla scena all'orchestra. Altrettanto dicasi della Grançeola di Lualdi, che soprattutto nel finale risulta immiserita da una parsimonia dettata più dall'economia del bilancio che da quella dell'opera d'arte. E non si parla della Pantèa di Malipiero, che pur ridotta egregiamente dall'autore, ci ha lasciato ancora più vivo il desi– derio di sentirla com'essa fu scritta originalmente, per un'orchestra normale e con le voci corali invece dei sassòfoni; nè del balletto di Franco Gasàvola, di cui una maggior ricchezza e varietà di elementi sonori e visivi gioverebqe a mascherare la fondamentale banalità. (Della Favola di Orfeo di Casella diremo che l'autore con la sua solita pro– digiosa abilità è riuscito a mantenerla, sotto l'aspetto di cui discor– riamo, in uno stato di prudente neutralità, idealmente adatta com'essa ci sembra a teatri piccoli e grandi, al più con qualche ritocco, che già Casella deve aver preveduto). Confessata dunque apertamente la nostra scarsa fiducia in queste forme teatrali alquanto ibride, che mentre si dichiarano nate per gli ambienti raccolti son poi presentate in teatri da millecinquecento e più persone, e paiono non .d'altro desiderose che di diventar simili aUe sorelle maggiori (e lo stesso discorso vale, salvo le dovute eccezioni, per la cosidetta orchestra .da camera), veniamo alle opere in questione. S'è detto che a quella di Manuel de Falla, modestamente indicata come una « adaptacion musical y escénica >> di un episodio de El Ingenioso Caballero Don Quimote de la Manoha di Miguel de Cervantes, conviene più che a tutte le altre il titolo di opera da camera. Qui stile musicale, soggetto, quadro, si adeguano perfettamente. Non un gesto che esca fuori della cornice, non un accento che venga a rompere la squisita ar– monia dell'insieme. Non più l'abbandono al ritmo e al canto zingare– sco (jondo), non più l'andalusismo del Tricorno e delle Notti, ma la riservatezza e l'austerità della rude Castiglia vi dominano, nella linea come nel colore. La melodia si muove in limiti ristretti, e dalla limi– tazione dell'ambifas, come da un cilicio portato con gioia, sembra ritrarre forza e bellezza. Quanto all'istrumentale, vedete quali effetti impensati e magici il compositore ha saputo raggiungere, con sì pochi elementi; e d'una varietà che ha del miracoloso : nel secondo quadro (Melisenda) con una mel-0dia tutta ripiegata su sè stessa, quasi senza intervalli, una povera melodia che crea un'atmosfera d'angoscia, o nel pomposo entrar di Carlo Magno, dove tre fiati e un'arpa bastano per dare il tono di gravità e di solennità richiesto dall'apparire di sì alto personaggio . . BibliotecaGino Bian.co

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