Pègaso - anno II - n. 11 - novembre 1930

V. GOETHE, 1 dolori del giovane Werther 639 dell'ebrietà estatica e del taedium vitae, della disperazione ne.ra e del desiderio di morte ? Lasciatelo dunque passare e non gli chiedete la carta d'identità e non domandategli se somiglia a Goethe ventitreenne o a Jerusalem sui– cida o ad entrambi, e se Carlotta abbia la figura di Lotte Buff ~ gli occhi neri di « Maxe >> La Roche, e se Alberto rassomigli più a Kestner o· più a Brentano, e se Goethe suo padre dopo averlo messo al mondo si sia sentito « com.e dopo una confessione generale, di nuovo allegro e libero e autorizzato a una vita nuova», e se lui, Werther, ritenga suoi figli le– gittimi i varii Jacopi, Renati, Osvaldi ed Adolfi. Lo irritereste inutil– mente perché, come in vita i luoghi comuni della saggezza, niente lo può ora far uscir. dai gangheri più delle banalità filologiche. Al massimo vi risponderà che suo padre dandogli nascita s'era sentito « alleggerito e illuminato per aver tra.mutato la realtà in poesia>> e che quest'ultima sola deve interessare ormai e che male han fatto tanto quelli che da allora ad oggi si son confusi tramutando la poesia in realtà e sparan– dosi, quanto quelli che han creduto comunque di dover imitare il ro– manzo: ultimo tra questi, malgrado l'indicibile soavità del tono, il ba– varese Rans Carossa che fa suicidare, in Doktor· Biirgers Ende (1920), un giovane medico wertheriano. Ma Werther non ne vorrebbe, no, a G. A. Borgese, padre suo nuo– vissimo, che da poesia ha saputo ricreare poesia e dai suoi dolori di– stillar gioia p_e.rla gente del paese sospirato da sua sorella Mignon. Questo secondo volume della bella e indovinatissima « Biblioteca Roman– tica >>che onestamente si dichiara « traduzione >>non è che la più re– cente tra le opere di G. A. Borgese, l'ultima parola di quella sua prosa che, aderente a un analogo processo spirituale, si è, da Rubè a I Vvvi e i Morti e agli ultimi libri cli novelle, anelata facendo di convulsa e arroventata e incalzante sempre più riposata luminosa e tersa, alpina direi, e riconoscibile tra mille. Su codesta goethiana pietra di paragone ha potuto appieno misurare le sue qualità multiple questo scrittore no– stro ultimo rappresentante da noi di quel romanticismo autoctono che da Foscolo passando per Leopardi scende al Nievo e al Fogazzaro. Leggi e t'incanti: ciò che nell'originale quasi straripa in eloquenza, qui è rat– tenuto con beethoveniani colpi d'arresto dopo i quali anche la foga di– venta maestà; quel che in Werther ti conquista all'improvviso, - un gruppo di fanciulle alla fontana, una scenetta di bimbi, un abbozzo d'idillio, - appare in Borgese stagliato e nitido come le cose su di un chiaro cielo settembrino, e quel che è drammatico ti toglie il respiro, e le pagine di Ossian sembrano esistere dall'or,igine dei tempi. Si augura Borgese che questa sua, tra le altre versioni, non sem– bri superflua. Ma esisteva, se si prescinda dal numero, una traduzione del Werther in Italia? Quella del Ceroni (1884), la più nota, porta, tutte le impronte cli un tempo in cui i traduttori non giuravan fedeltà al testo, né si preoccupavan di rendere l'atmosfera di un'opera e in cui ogni occasione sembrava buona per sfoggia-re i riboboli del proprio guar– daroba letterario. Il Werther di Ceroni ha parlato con sua zia e non ha trovato « a gran pezza in lei la trista donna" che s'attendeva; nel giar– dino del suo defunto ospite vorrebbe quasi essere uno. << di codesti sca- l3ibliotecaGino Bianco

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