Pègaso - anno I - n. 12 - dicembre 1929

734 G. Pasquali e nello spagnuolo, un po' maggiore nel tedesco, grande nel francese, massimo nell'inglese. E evidente che quanto minore è in una lingua U numero di tali convenzioni, quanto più, come si dice volgarmente, essa si pronuncia come si scrive (ma nessuna lingua si pronuncia come si sc1·ive), tanto meno sarà alterato dai parlanti almeno il valore alfabetico dei segni dell'alfabeto latino. E affatto impossibile che un latino pro– nunciato all'inglese corrisponda a quello dell'età di Augusto, perché la convenzione ortografica per la quale l'u a volte suona iu) a volte u, tal– volta ha un suono difficile a rendersi in lettere nostre ma che assomiglia a un a breve, non può essere già stata romano antico, perch'essa ha le sue radici in vicende peculiari della lingua inglese. E per le medesime ragioni lo stesso vale, per esempio, per la nasalizzazione e il timbro alte– rato delle vocali nasalizzate in francese, e così via. Di tali convenzioni ortografiche l'Italiano fa uso meno che altre lingue romanze e germa– niche. Ma non si vede con qual diritto si attribuisca ai Romani antichi una pronuncia, per esempio, di c e h dinanzi a vocale palatale, e e i, che non risulta certo da una fusione del suono della c ( quale suono della c ?) con l'aspirazione. E lo stesso si deve dire dello .sci di scienza, dove né l's né il c suonano come sono state scritte, mentre l'i non suona affatto, perché, tranne in bocca di meridionali saputelli, ehe vogliono parlar bene, è muto. E una convenzione ortograifica, determinata da ragioni storiche, è anche qu~lla per la quale il c e il g hanno suono palatale dinanzi alle vocali palatali e ed i, gutturale dinanzi alle altre. Dunque l'Italiano pronuncia, si, il latino meglio del Francese, per– ché la sua pronuncia è meno complicata da convenzioni ortografiche; ma questo è insomma un caso, perch'egli lo pronuncia secondo un criterio identico a quello che usa l'Inglese o il Tedesco, applicando alla lingua antica le regole che ha imparato a scuola per la propria. Lo pronuncia anche bene ? la sua pronuncia è la « vera» ? Questo problema formulato cosi, con certa ingenuità, pare appas– sionare gente anche di mediocre cultura più di quel che forse non meriti. Chi scrive queste righe, siccome non rinnega neppur nell'aspetto il suo mestiere di maestro di scuola, se lo è sentito porre mille volte in ferrovia da qualunque vicino aveva indovinato (e ci voleva poco!) l'esser suo; più spesso da viaggiatori di commercio. Noi Italiani moderni abbiamo per il pasto della sera la stessa parola ch'era già adoprata dagli antichi Romani, cena : possibile che la pronunciamo in maniera differente, che non abbiamo noi, i loro discendenti più puri, conservato con la loro razza anche la loro pronuncia inalterata, incontaminata ? L'ingenuo che ragiona così, commette due errori : innanzi tutto, egli contraddice se stesso, pronunciando, certo erratamente, ma conforme a una tra– dizione che risale a maestri di scuola del Medioevo, l'e di cena diversa– mente in latino che in italiano : larga in latino, stretta in italiano. In secondo luogo egli considera quale un vanto nazionale l'immutabilità della lingua, la mancanza di ogni svolgimento di essa per venti secoli. Ohe un suono, simboleggiato un volta da un segno, restasse inalterato per tanto tempo, .sarebbe un miracolo; e non sarebbe neppure un bel miracolo. Poiché ragione principale del mutamento linguistico è l'atti– vità spirituale dei parlanti, un popolo che parlasse ancora come venti BibliotecaGino Bianco

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