donne chiesa mondo - n. 40 - novembre 2015

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne A partire dal saggio della giovane nigeriana Adichie La maternità nel femminismo di G IULIA G ALEOTTI C ome mai la società occidentale di oggi, figlia della generazio- ne di donne che ha fatto il femminismo degli anni Settanta, è ancora così maschilista? Certo, non lo è a livello legislativo — in occidente almeno — e certo, a livello sociale, lo è sicuramente me- no di vari decenni fa, ma che la strada per una effettiva parità sia an- cora in salita è un dato di fatto. Perché siamo ancora a questo pun- to? La domanda è complessa, le risposte si intrecciano. Ma probabil- mente alla base di questo fallimento vi è anche il difficile rapporto che il femminismo degli anni Settanta ebbe con la maternità. Uno dei grandi temi con cui si è relazionato quel movimento in oc- cidente — sia nella fase ottocentesca, che in quella, più nota e recente, del secolo scorso — è stato il rapporto con la maternità. Nel tempo, le soluzioni sono state diametralmente opposte: mentre per le femministe dell’Ottocento l’idea di fondo era quella di una sorta di superiorità morale della donna in virtù della maternità, per le loro pronipoti — o almeno per buona parte di loro — l’essere madri era l’incarnazione dell’handicap che, da secoli, inchiodava le donne nelle retrovie, una sorta di diminuzione dell’essere donna. Non capivo molto di questa posizione da piccola: percepivo che era una visione che relegava le donne ai margini della loro natura. La loro specificità diventava un ostacolo: non era, forse, una brutta teoria che, su basi nuove, riproponeva antiche gabbie, capaci di asservirle ancora e ancora? Non che ci piaccia la retorica di chi, compiendo il processo inverso, schiaccia tutto l’essere donna sulla maternità — e qui, parole limpidissime le ha scritte il cardinale Ratzinger: «Anche se la materni- tà è un elemento chiave dell’identità femminile, ciò non autorizza af- fatto a considerare la donna soltanto sotto il profilo della procreazione biologica. Vi possono essere in questo senso gravi esagerazioni che esaltano una fecondità biologica in termini vitalistici e che si accompa- gnano spesso a un pericoloso disprezzo della donna» — ma il proble- ma del rapporto tra maternità e femminismo resta. Proprio per questo ci ha colpite il recente pamphlet che Chima- manda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana (classe 1977), ha pubblica- to riscuotendo un successo mondiale. Scritto con verve, tra autobio- grafia e la netta presa di distanza con chi ritiene il femminismo un ingombrante retaggio del secolo scorso, We Should All Be Feminists , uscito per la prima volta nel 2012 (in Italia, Einaudi lo ha tradotto quest’anno, con il titolo Dovremmo essere tutti femministi ), non solo ri- vendica il diritto di portare avanti la battaglia su tacchi a spillo sen- za odiare i maschi, ma auspica un mondo più giusto fatto di maschi e femmine tutti parimenti davvero fedeli a se stessi. E alle loro speci- ficità («Uomini e donne sono diversi, abbiamo ormoni diversi, orga- ni sessuali diversi e capacità biologiche diverse: le donne possono avere figli, gli uomini no»). In questo scritto, frutto dell’adattamento di quanto pronunciato nel corso di una conferenza, Adichie traccia un ritratto impietoso — e lucido — della società attuale. Noi donne siamo ancora invisibili, nel senso che non veniamo considerate in quanto persone che portano uno sguardo difforme da quello maschile; ancora «passiamo troppo tempo a insegnare alle ragazze a preoccuparsi di cosa pensano i ra- gazzi», mentre «il contrario non succede. Non inse- gniamo ai ragazzi a sforzarsi di piacere»; a noi donne, sin da pic- cole, viene suggerito di nascondere la rab- bia, perché ancora una donna arrabbiata e che si scandalizza per le in- giustizie verso il suo sesso è considerata un’isterica noiosa. Se tutto questo è vero, senza lamen- tarsi e con grande ironia Adichie rivolge il suo sguardo sulle nostre responsabilità di madri. «Facciamo un grave torto ai maschi educandoli come li edu- chiamo. Soffochiamo la loro umanità. Diamo della virilità una defi- nizione molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida den- tro cui rinchiudiamo i maschi. Insegniamo loro ad aver paura della paura, della debolezza, della vulnerabilità. Insegniamo loro a ma- scherare chi sono davvero, perché devono essere, per usare un’espres- sione nigeriana, “uomini duri” (...). Ma la cosa peggiore che faccia- mo ai maschi — spingendoli a credere di dover essere dei duri — è che li rendiamo estremamente fragili. Più un uomo si sente costretto a essere un duro e più la sua autostima sarà fragile. E poi facciamo un torto ben più grave alle femmine, perché insegniamo loro a pren- dersi cura dell’ego fragile dei maschi». Dobbiamo dunque rivedere, innanzitutto noi donne giacché siamo ancora noi a occuparci primariamente dei piccoli, tutto il nostro si- stema educativo, cambiando quello che insegniamo alle nostre figlie e ai nostri figli. Se vogliamo arrivare a un mondo che sia davvero più femminista — cioè «un mondo più giusto, un mondo di uomini e donne più felici e più fedeli a se stessi» — dobbiamo passare per la maternità. Ce lo ricorda una giovane donna, figlia del continente anagraficamente più giovane al mondo. Centro di ascolto ante litteram Giuliana di Norwich raccontata da Ferdinando Cancelli Nato a Torino nel 1969, dopo gli studi classici ha esitato tra lettere, storia e medicina. Diventato medico, ha ottenuto il diploma post laurea in medicina palliativa all’Università Claude Bernard di Lione (Francia) e il perfezionamento in bioetica all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dopo aver trascorso un periodo di lavoro come Chef de clinique all’Hôpital de Bellerive (Ginevra), esercita la professione di medico palliativista a Torino per la Fondazione F . A . R . O . onlus. Sposato con Clara dal 1997, ha condiviso con lei il cammino per divenire oblato secolare dell’abbazia Mater Ecclesiae sull’isola di San Giulio e deve moltissimo alla sua famiglia monastica. Giuliana e il suo libro «The Revelations of Divine Love» Dalla sua cella l’eremita parlava ai contemporanei dell’amore e della paternità ma anche della maternità di Dio P er chi visita la cittadina medie- vale di Norwich, nella regione sudorientale dell’Inghiletrra nota come East Anglia non lontano dalle coste del mare del Nord, il luogo non è sicuramente di immediata visibilità: nessun cartello turi- stico lo indica e sulle guide comuni vi è dedicata al più una riga a fondo pagina. Ci arriviamo a piedi partendo dalla ma- gnifica cattedrale che domina il centro cittadino: una ventina di minuti attraverso una periferia moderna e poco attraente, molto diversa dalle zone residenziali alle quali il turista in Inghilterra rapidamente si abitua. Eppure il luogo, benché modesto e ri- costruito dopo le devastazioni della Rifor- ma prima e dell’ultima guerra mondiale poi, è ancora oggi molto visitato. Che co- sa cercano i turisti di oggi fermando i propri passi dinanzi a una piccola finestra di quella che sembra essere una chiesetta in King Street ? Molto probabilmente, anche se a volte a loro insaputa, quello che cercavano i pellegrini che seicento anni fa qui giunge- vano da ogni dove: essere ascoltati da una donna semplice e coraggiosa, solitaria ep- pure aperta sul mondo proprio come la finestrina che la rendeva discretamente ac- cessibile. Di Giuliana di Norwich sappiamo po- chissimo e ignoriamo persino il vero no- me. Nacque forse nel 1342, morì forse nel 1429, soggiornò per lunghi anni come ere- mita in una cella annessa alla chiesa di San Giuliano nei dintorni di Norwich e scrisse un libro nell’inglese del suo tem- po, un libro talmente diffuso e letto nei secoli successivi nel Regno Unito da ac- compagnare una delle infermiere che han- no fatto la storia, Florence Nightingale, quando curava i feriti della guerra di Cri- mea. Una sua biografa moderna, Sheila Up- john, sottolinea come la Norwich di Giu- liana non fosse ai tempi di secondaria im- portanza ma fosse divenuta la seconda città d’Inghilterra per la ricchezza dell’agricoltura e il commercio della lana contando circa diecimila abitanti. intimamente legati tra loro da rendere im- possibile la comprensione dell’uno esclu- dendo l’altro. La sua visione, nonostante la coloritura del tempo, è serena: l’unica ira che possiamo trovare in Dio — scrive Giuliana — è la proiezione della nostra giacché in lui vi è solo amore. Qualcuno scrisse che forse Giuliana fu una vedova alla quale morirono i figli, qualcuno che ricevette un’educazione dal- le benedettine del luogo nel monastero di Carrow, altri che si fece aiutare a scrivere il suo libro poiché completamente illette- rata. Non sono mai state trovate le sue re- liquie, nessuna tomba certa ospita il suo corpo. È forse questa impalpabilità a ren- dere Giuliana di Norwich a noi così vici- na; «in termini spirituali lei è ovunque» scrive Sheila Upjohn. Una donna semplice e profondissima che si affaccia a una piccola finestra di periferia per donarci il suo segreto. Sarebbe quindi errato pensare a Giulia- na — scrive ancora Upjohn — come a una figura relegata nella pace contemplativa di una campagna medievale ideale: la sua cella è piuttosto da immaginare come un centro di ascolto, quasi un consultorio an- te litteram , di una delle nostre moderne città. Pellegrini, donne sole, uomini feriti nell’anima e nel corpo, mercanti in diffi- coltà, religiosi: da dove prendeva Giulia- na la forza di ascoltare e di consigliare tutti? La forza, stando alla testimonianza di Margery Kempe che la incontrò nel 1413 e che di quell’incontro lasciò una te- stimonianza scritta ritrovata negli anni Trenta del secolo scorso, la attingeva da tre finestre. La prima si apriva sulla chiesa e da questa poteva ascoltare la messa e ri- cevere i sacramenti, la seconda su una stanza interna dalla quale probabilmente riceveva il cibo per il sostentamento fisico del corpo e la terza era quella che la met- teva appunto in grado di dare al mondo il suo sostegno. Epidemie di peste (la peste nera rag- giunse Norwich nel gennaio 1349 e nuo- vamente in una seconda epidemia nel 1349), infezioni del bestiame e carestie (il raccolto del 1369 fu il peggiore dei cin- quant’anni precedenti) segnarono a più ri- prese quel tempo la regione di Norwich, eppure Giuliana conservava una visione piena di speranza. L’8 maggio 1373, giunta in punto di morte per un’affezione misteriosa dalla quale poi altrettanto misteriosamente gua- rì, ebbe le visioni che la confermarono nella sua fede e che sono alla base del suo libro, The Revelations of Divine Love , oggi tradotto in molte lingue. Ebbe una visione realistica della passione di Cristo, ricca di particolari anche fisici della soffe- renza di Nostro Signore. Vide con certez- za Dio che «crea, ama e cura» le sue creature con amore paterno e, cosa mo- dernissima per i tempi, materno; compre- se che quaggiù «noi cerchiamo riposo in cose così insignificanti che mai ce lo po- tranno dare» e che uomo e Dio sono così

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