donne chiesa mondo - n. 40 - novembre 2015

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Mensile dell’Osservatore Romano novembre 2015 numero 40 A cura di L UCETTA S CARAFFIA (coordinatrice) e G IULIA G ALEOTTI Redazione: R ITANNA A RMENI , C ATHERINE A UBIN , R ITA M BOSHU K ONGO , S ILVINA P ÉREZ (www.osservatoreromano.va , per abbonamenti: info@ossrom.va ) Una strada da illuminare La crisi esistenziale e spirituale delle religiose africane di E LENA B UIA R UTT D al marzo 2012, il segretario ge- nerale della Conferenza episco- pale del Sud Africa è suor Her- menegild Makoro: rarissimo ca- so di una donna eletta da un collegio maschile e di questo al comando. Energica e determinata, Hermenegild riper- corre la propria storia privata e pubblica, sot- tolineando immediatamente come, fin dall’in- fanzia, sia stata abituata a essere “in mino- ranza”, poiché cresciuta in una famiglia pre- valentemente maschile. Nata il 7 dicembre 1951 a Koeqana, località rurale nel distretto di Mount Fletcher, nella provincia del Capo Orientale, Hermenegild è la seconda di quattro figli, unica femmina con tre fratelli maschi e, come se non bastas- se, «anche i miei cugini erano maschi: ero dunque circondata da ragazzi», aggiunge iro- nica. Eppure, durante la sua crescita non ha subito alcuna disparità di trattamento, perché «siamo stati tutti allevati in un’atmosfera di libertà, in cui ognuno di noi è sempre stato incoraggiato a essere se stesso». Una famiglia molto religiosa, quella di Hermenegild, in cui «c’era fiducia, nel senso che i nostri genitori si fidavano di noi». Il re- galo più grande e più difficile che un genito- re possa fare al proprio figlio è quello di scommettere su di lui, accettandolo così com’è, amando la sua unicità, sostenendo e facendo fiorire la sua diversità: «L’atteggia- mento dei miei genitori ha instillato in me questo stesso spirito perfino nelle persone con cui lavoro», commenta fiera suor Mako- ro, individuando proprio nell’infanzia il pe- riodo decisivo per la formazione del suo sen- so di libertà e indipendenza. Cambiare le persone, responsabilizzarle, renderle consapevoli dei propri diritti è ciò che viene richiesto a una Chiesa come quella africana le cui parole d’ordine, secondo le parole dell’ Africae munus di Benedetto XVI sono giustizia, riconciliazione e pace: tutto sa attività pastorale e accademica, culminata nella laurea in educazione e formazione all’università del Transkei e nel diploma in teologia all’università di Natal-Pietermaritz- burg. Suor Makoro ha poi insegnato alla scuola superiore di Mariazell e per anni è stata coordinatrice del gruppo pastorale per la catechesi: ha lavorato come responsabile del gruppo diocesano per l’animazione nella diocesi di Umtata. Per un periodo ha presta- to servizio anche come superiore provinciale delle Sorelle Missionarie del Preziosissimo Sangue. Insomma, una vita attiva con impe- gni a pieno ritmo e responsabilità concrete e incalzanti. Prima del conferimento dell’incarico di se- gretario generale della Conferenza episcopa- le, suor Hermenegild ha lavorato nella Con- ferenza episcopale per sei anni. Per questo motivo, valuta in modo pragmatico le moti- vazioni delle sua nomina: «Credo che i ve- scovi mi abbiano nominata perché credevano in me e sapevano cosa ero capace di fare. Hanno riconosciuto le mie qualità come per- sona». Nonostante il riconoscimento delle sue qualità e dei suoi meriti come persona, suor Makoro ci tiene, però, a sottolineare il suo apporto specifico in quanto donna. «Credo che la specificità che una donna pos- sa apportare a un’organizzazione gestita es- senzialmente da uomini sia quella della com- passione, della comprensione, del sentimen- to. Un agire dettato dal cuore e non dalla testa». Ma anche gli uomini hanno fatto la loro parte, in questo caso aprendo con coraggio strade nuove. Secondo suor Makoro, la sua nomina infatti è da attribuire «al progressi- smo dei vescovi della nostra conferenza, con- sapevoli che alla Chiesa non basta uno sguardo basato su una visione di genere. Se la Chiesa vuole andare avanti deve cambiare atteggiamento. E questo risultato deve essere un messaggio molto forte perfino nei movi- menti ecumenici». L’esempio della Chiesa africana, con la fi- ducia e il riconoscimento accordati a energie nuove, in cui le donne giocano finalmente un ruolo di primo piano, potrebbe servire da fa- ro alla Chiesa di tutto il mondo: «Al nostro meeting del Secam (Simposio delle Confe- renze episcopali di Africa e Madagascar) so- no stata accettata come un uguale tra tutti uomini» continua suor Makoro. «È impor- tante che le donne accettino la sfida quando si presenta e spero che entro la fine del mio mandato, che scade tra due anni, qualche al- tra conferenza abbia imparato dalla Confe- renza sudafricana dei vescovi cattolici». Accettare la sfida significa essere pronti ad agire in modo rapido e diretto in una società «che è diventata egoista a tal punto che l’al- tra persona non conta fintanto che io sono felice». Perciò la missione fondamentale della Chiesa rimane quella «di evangelizzare glo- balmente o localmente», precisa suor Mako- ro, proprio là dove emergono i nodi critici, costituiti da «individualismo, vuoto spiritua- le, materialismo, dissolvimento dei legami fa- miliari, povertà economica e spirituale, pro- blemi riguardanti l’ambiente, i migranti, i ri- fugiati». Raccogliere così la sfida lanciata da Papa Francesco che ha auspicato una Chiesa in uscita, una comunità di credenti esortata a uscire in senso geografico ed esistenziale in- sieme. Un andare verso l’altro, verso altre culture, popoli diversi, verso le periferie geo- grafiche ed esistenziali: ovvero i poveri, gli scartati, i disperati, i falliti, abbandonando ogni riferimento autoreferenziale che impedi- sce l’annuncio autentico. Nel marzo 2014 suor Makoro ha ricevuto inoltre un’altra nomina in un’altra trincea, la Pontificia commissione per la tutela dei mi- nori, dove la Chiesa di Papa Francesco inten- de combattere una battaglia dolorosa e dove- rosa nello stesso tempo. La commissione, guidata dal cardinale statunitense Sean O’Malley, sta svolgendo un ruolo di consu- lenza per gli episcopati nazionali al fine di prevenire gli abusi sessuali sui minori da par- te di ecclesiastici. «La Commissione lavora divisa in gruppi diversi», spiega suor Makoro. «Il nostro in- carico è di consigliare il Papa, i suoi collabo- ratori e le Chiese locali riguardo alla tutela dei minori. I gruppi lavorano su diverse te- matiche che la commissione ritiene cruciali». L’effettiva tutela dei minori e l’impegno per garantire loro lo sviluppo umano e spirituale consono alla dignità della persona umana fanno parte integrante del messaggio evange- lico della Chiesa. «I gruppi di lavoro copro- no le seguenti aree: linee-guida per la salva- guardia e la protezione dei minori; guarire e curare le vittime, i sopravvissuti e le loro fa- miglie; formazione dei candidati al sacerdo- zio e alla vita religiosa, educazione dei vertici ecclesiali; educazione delle famiglie e delle comunità; teologia e spiritualità; norme cano- niche e civili. Io sono personalmente impe- gnata nel gruppo per l’educazione alle fami- glie e alle comunità». Una vita di servizio e in prima linea, quel- la di suor Hermenegild che, con docile mo- destia, oltre a lamentare l’impegno in «troppi meeting che hanno poi poco impatto sul mio lavoro», inaspettatamente confessa una sua peculiare sfida personale: «Sono una persona timida e il mio lavoro mi pone sempre alla ribalta. Questa è una sfida, dato che preferi- rei lavorare dietro le quinte». La testimonianza Madre di diecimila figli Nata in una famiglia della minoranza tutsi, nel 1994 Margherite Barankitse ha fondato nel suo Burundi dilaniato dalla guerra civile la Maison Shalom, casa di accoglienza che da allora ha ospitato oltre diecimila bimbi di ogni etnia e religione, vittime di guerra, povertà e Aids. La incontrammo qualche anno fa, quando venne in Italia per presentare il libro Madre di diecimila figli (Piemme 2007) scritto con Christel Martin: al centro, i bimbi incontrati, ognuno con la propria storia di sofferenze e sorrisi inattesi. Tutti ugualmente vittime di odio e violenza, i piccoli non costituiscono un gruppo omogeneo: alcuni hanno visto i loro familiari massacrati, altri, figli dei carnefici, portano addosso il peso della barbarie dei genitori; ci sono poi i bimbi- soldato, i bimbi malati e quelli violentati. Maggy rifiuta di definire la Maison Shalom un orfanotrofio, istituzione anonima che non si preoccupa dell’avvenire dei piccoli, e che in Burundi — essendo gestito con fondi occidentali — crea nei bimbi bisogni fasulli ed estranei. Maggy è invece convinta che a un bambino privato dei genitori, ciò che più manca è la famiglia: ricreare e ricostruire questo legame, ridargli la dignità di appartenenza è dunque il suo scopo principale. Se alla Maison Shalom la diversità dei piccoli diventa un valore è perché ognuno vede, oltre alla propria sofferenza, anche quella dell’altro: il confronto li aiuta vicendevolmente a crescere. Ascoltare il dolore del bimbo dell’etnia che ti ha sterminato la famiglia, aiuta a superare l’odio. E a far crescere la generazione del perdono. (@GiuliGaleotti) Il documentario Afrika is a woman’s name Tre donne, tre Paesi, tre società e un continente: è questo il succo del documentario delle registe Ingrid Sinclair, Bridget Pickering e Wanjiru Kinyanjui Afrika is a Woman’s Name (2008) che racconta le storie di Njoki, Phuti e Amai, tutte e tre significative per lo sviluppo della propria terra. Il viaggio inizia con NjokiNgung’u, una procuratrice del Kenya, impegnata contro le violenze e gli abusi sessuali; continua con Phuti Ragaphala, direttrice di una scuola elementare in un piccolo villaggio della provincia di Limpopo, una delle regioni più svantaggiate del Sud Africa; e termina con Amai Rosie, casalinga di un villaggio in Zimbabwe capace di divenire, grazie alla tenacia e al coraggio, donna d’affari. Sono tre figure che, pur provenienti da orizzonti differenti, vivono e lavorano in realtà controllate dagli uomini, chiedendosi, però, come poter cambiare le cose. Perché sanno bene che la società, i loro figli e le altre donne hanno bisogno del loro esempio e del loro aiuto. ( @GiuliGaleotti ) U NA DONNA AL SINODO DÀ VOCE ALLE DONNE «La Chiesa ha contribuito in modo determinante a definire e a disciplinare la famiglia; si trova quindi in una condizione privilegiata per proporre modelli di famiglia nuovi e adatti ai nostri tempi, fedeli alla vocazione cristiana. Per farlo, però, ha bisogno di ascoltare la realtà e i soggetti reali dalla famiglia, cioè gli uomini e le donne: uomini e donne veri ma specialmente donne che hanno vissuto e riflettuto sul grande cambiamento del ruolo femminile nell’ultimo secolo, una delle ragioni fondamentali della crisi della famiglia». Così, in un applauditissimo intervento, Lucetta Scaraffia, uditrice al sinodo sulla famiglia, intervenuta il 16 ottobre nel corso della dodicesima congregazione generale. «La Chiesa ha bisogno di ascoltare le donne, di ascoltare cosa ritengono di avere perso e cosa guadagnato nel grande cambiamento, di ascoltare quale famiglia vorrebbero oggi. Perché solo nell’ascolto reciproco si opera il vero discernimento. Le donne sono le grandi esperte di famiglia: se usciamo dalle teorie astratte, specialmente a loro ci si può rivolgere per capire cosa bisogna fare, come si possono porre le fondamenta per una nuova famiglia aperta al rispetto di tutti i suoi membri, non più fondata sullo sfruttamento della capacità di sacrificio della donna, ma che assicuri a tutti un alimento affettivo, solidale. Invece, sia nel testo che nei dibattiti, di donne, di noi, si parla pochissimo. Come se le madri, le figlie, le nonne, le mogli, cioè il cuore delle famiglie, non facessero parte della Chiesa, di quella Chiesa che comprende il mondo, che pensa, che decide. Come se si potesse continuare, perfino a proposito della famiglia, a far finta che le donne non esistono. Come se si potesse continuare a dimenticare lo sguardo nuovo, il rapporto inedito e rivoluzionario che Gesù ha avuto nei confronti delle donne. Molto diverse sono le famiglie nel mondo, ma in tutte sono le donne a svolgere il ruolo più importante e decisivo per garantirne solidità e durata. E quando si parla di famiglie non si dovrebbe parlare sempre e solo di matrimonio: sta crescendo il numero di famiglie composte da una madre sola e dai suoi figli. Sono le donne, infatti, a rimanere sempre accanto ai figli, anche se malati, se disabili, se frutto di violenza. Queste donne, queste madri quasi mai hanno seguito corsi di teologia, spesso non sono neppure sposate, ma danno un esempio mirabile di comportamento cristiano. Se voi padri sinodali non rivolgete loro attenzione, se non le ascoltate, rischiate di farle sentire ancora più disgraziate perché la loro famiglia è così diversa da quella di cui parlate. Ancora più sole. Voi, infatti, troppo spesso parlate di una famiglia astratta, una famiglia perfetta che però non esiste, una famiglia che non ha niente a che vedere con le famiglie vere che Gesù incontra o di cui parla. Una famiglia così perfetta che sembra quasi non aver bisogno della sua misericordia né della sua parola: “Non sono venuto per i sani ma per i malati, non per i giusti ma per i peccatori”». D UE SUORE IRACHENE TRA I PROFUGHI CRISTIANI A E RBIL Si chiamano Afnan e Alice le due Piccole Sorelle di Charles de Foucauld che, da alcune settimane, hanno scelto di vivere in un accampamento di Ankawa, alla periferia di Erbil, dove hanno trovato precaria sistemazione migliaia di cristiani della Piana di Ninive fuggiti davanti all’offensiva dell’Is. La scelta delle due religiose, raccontata ai microfoni di Radio Sawa, è di condividere concretamente le condizioni di difficoltà e sradicamento sofferte dalle migliaia di famiglie che, costrette a lasciare le proprie case, si stanno ormai rassegnando a dover vivere in questo stato ancora per molto tempo. Afnan e Alice stanno coinvolgendo anche altre religiose nell’assistenza a bimbi e giovani che vivono negli accampamenti tra tende e container. L’intento è quello di preservarli dal senso di vuoto e dall’assenza di attività formative che, col tempo, possono degenerare fino a innescare derive di degrado psicologico e morale. I L MESSAGGIO DI L IVIA AL CONDOMINIO Il 7 ottobre, su «la Repubblica», Antonio Caramassi, un lettore di Follonica, ha raccontato la storia di Livia, collaboratrice familiare rumena che, nel suo condominio, assisteva un anziano. Prima di andarsene, morto il signore, la donna ha lasciato nella bacheca dell’androne una lettera. «Ringraziamento. Ho avuto la fortuna di conoscere una piccola comunità che si chiama Condominio via Pio La Torre 3. Vi ringrazio! La vostra accoglienza è stata magnifica per me, una semplice badante. Vi ringrazio per tutti i “buongiorno” o “salve” che mi avete dato con tanta cortesia, senza pregiudizi. Ringrazio tutti coloro che mi hanno aperto la porta delle loro case e specialmente coloro che mi hanno aperto le loro anime e mi hanno accolto con dolcezza e gentilezza. Auguro a tutti voi, dal più piccolo fino al più grande (come età) tanta salute e di non aver mai bisogno di una badante. Con rispetto Livia». U N CORRIDOIO PROTETTO DALLE DONNE IN K ENYA Su Combonifem, Michela Trevisan ha raccontato una bella storia di riscatto al femminile in Kenya, grazie a un programma contro la deforestazione e a 550 donne che si sono riunite in microcooperative per riprendersi futuro, terra e dignità. «Jenliza Mwikamba ha 39 anni e due figli. Cinque anni fa i suoi bambini dormivano per terra e non c’era denaro per pagare gli studi. Oggi i bimbi dormono su un letto e frequentano regolarmente la scuola»: Jenliza produce e vende cesti colorati. La sua storia è comune ad altre donne che vivono nel Kasigau Corridor Project, un’area protetta di foreste vasta oltre duemila chilometri quadrati nel distretto di Taita Taveta, nel sudovest del Kenya. Un’ampia fascia di territorio che separa i due parchi nazionali Tsavo Est e Tsavo Ovest, salvata dalla deforestazione e dal degrado grazie al programma delle Nazioni Unite per la conservazione delle foreste, iniziato nel 1997. Così come avviene in Africa e in moltissime zone povere del pianeta, anche qui, a partire dalla seconda metà del Novecento, per ottenere guadagni rapidi, le comunità locali iniziarono ad attaccare il territorio. Estensioni sempre più ampie di foresta furono bruciate per produrre carbone destinato al mercato illegale. I terreni disboscati furono utilizzati per coltivare mais, ma la scarsità di acqua costrinse la popolazione a spostarsi continuamente, abbattendo sempre nuove porzioni di bosco per cercare terreni migliori. Ciò trascinò le comunità locali nel baratro della povertà: gli uomini si abbandonavano all’alcol e molte donne, per sostenere la famiglia, iniziarono a prostituirsi. Ma proprio dalle donne è cominciata la rinascita, che ha presto contagiato l’intera comunità. Il saggio Desert Children È nata in Somalia, in mezzo al deserto, Waris Dirie. E da lì, dopo aver subito da bambina il traumatico rito della mutilazione genitale, è fuggita, ribellandosi a una realtà che faceva del suo essere femmina una condanna. Trasferitasi a Londra, è diventata una tra le modelle più richieste del mondo. Madre di due figli, non ha mai dimenticato la tragedia della sua infanzia, memoria che l’ha portata a essere la portavoce di Face to Face, la campagna dell’Onu contro le mutilazioni genitali femminili. La sua battaglia contro questa tortura che segna ancora un numero altissimo di bambine Dirie l’ha, tra l’altro, raccontata nel volume Desert Children (2005) in cui, dando voce alle donne, spiega come la pratica non sia seguita solo in qualche sperduto villaggio arabo o dell’Africa subsahariana, ma sia ormai diffusa anche nelle più moderne metropoli occidentali. «Non importa quali e quante argomentazioni si possano portare a sostegno della tradizione, il problema di fondo è sempre il potere e il controllo». (@GiuliGaleotti) Qui, di fronte a trentacinquemila preti e tremilacinquecento missionari, le suore sono più di sessantamila Eppure la Chiesa non si è mai molto impegnata nella loro formazione Raccontare questo continente non è semplice Tutto è doppio, nel racconto Tutto si specchia nel suo riflesso La terra più ricca e povera del mondo è la culla della civiltà e delle contraddizioni Testa e cuore Suor Hermenegild Makoro, dal 2012 segretario della Conferenza episcopale del Sud Africa È importante che le donne accettino la sfida quando si presenta Nella mia famiglia sono cresciuta in un’atmosfera di libertà Ognuno è sempre stato incoraggiato a essere se stesso Fiume sacro, Nigeria (Reuters) ciò, nella storia di Hermenegild Makoro, è stato appreso tra le mura domestiche, intrise di un cattolicesimo autentico e sentito. Il suo avvicinamento a Dio, dunque, è av- venuto in modo assolutamente personale, senza forzature esterne: «Ho scoperto in mo- do graduale quello che stavo cercando nella mia vita. Un giorno, poi, ho partecipato alla professione di fede di una suora ed è diven- tato molto chiaro in me il fatto che volevo seguire la vita religiosa. Da quel momento in poi, non mi sono più guardata indietro». An- che in questo caso, la famiglia ha appoggiato la scelta della figlia, seppure «il supporto maggiore è arrivato da mia madre, mentre mio padre voleva che stessi a casa e studias- si». Non a caso Hermengild sottolinea come sua madre e sua nonna «fossero persone di grande spiritualità e sani principi, che prega- vano ogni giorno per una vocazione al sacer- dozio o alla vita religiosa per i componenti della famiglia». La scelta di prendere il velo è sbocciata dunque quasi esclusivamente in questo fertile humus familiare. «In modo sorprendente non ho mai avuto contatti con nessuna suora della mia parrocchia, tranne che con le suore che mi hanno preparato per la prima comu- nione e la cresima. Ricordo comunque che una suora aveva fatto su di me grande im- pressione e questo può avermi influenzata anche se indirettamente». Sono state quindi due donne, la nonna e la mamma di Herme- negild, le persone decisive per la sua decisio- ne di prendere il velo, culminata del 1976, con la professione di vita religiosa presso le Sorelle Missionarie del Preziosissimo San- gue: una spiritualità corroborata da un’inten- di S ILVINA P ÉREZ I n Africa le giornate sono scandite dalla parabola del sole. Ci si sveglia all’alba e si va a dormire poco dopo il tramon- to. Nelle strade di terra rossa che sol- cano il paesaggio ci si imbatte in una umanità in cammino, spesso scalza. Basta ve- dere al mattino, quando le strade sono piene di donne che camminano velocemente sul ci- glio. L’Africa ha un volto: quello delle donne. Sono loro che, senza far rumore, senza accam- pare diritti, riproducono ogni giorno il mira- colo della sopravvivenza. In un continente do- ve è davvero difficile vivere. Per queste donne straordinarie è normale camminare ogni giorno per quindici chilome- tri per raggiungere il pozzo più vicino, è nor- male fare trenta chilometri a piedi per vendere una cipolla oppure essere picchiate dal marito o fare l’ottanta per cento dei lavori nei campi ma non essere proprietarie della terra. Se chie- di a una donna: “perché?”, lei ti risponderà semplicemente che per lei quella è la normali- tà. Pur essendo circondate da uomini assenti e da società con tratti maschilisti qualcosa sta cambiando. Ci sono donne che hanno rag- giunto cariche politiche cruciali, posizioni rile- vanti nel mondo professionale o un ruolo chiave all’interno della propria società. Un’emancipazione inimmaginabile fino a po- co tempo fa, a cui anche la Chiesa ha contri- buito. Raccontare l’Africa non è semplice. Tutto è doppio, nel racconto. Tutto si specchia nel suo riflesso. La terra più ricca e povera del mondo è la culla della civiltà e delle contrad- dizioni. Qui, il tempo non si ferma. Casomai torna su se stesso in un doppio binario tra conquiste e passi indietro. E proprio di quest’ultimi ci hanno parlato Amina, Zelam e Rhanda, tre suore africane che hanno descritto la dolorosa subordinazio- ne a cui vengono costrette gran parte delle donne africane, in ragione di una cultura che vuole l’uomo capo e padrone. Ciò produce mento domestico e sociale della religiosa afri- cana, a differenza di ciò che accade nelle con- gregazioni maschili. Le religiose vengono esaltate per i lavori fatti: cucinano bene per amore di Gesù, inse- gnano il catechismo ai bambini, decorano le chiese parrocchiali, puliscono, rammendano e cuciono vestiti, accudiscono i prelati e gli an- ziani, si prendono cura dei bambini in diffi- coltà. Ma tutto ciò esclude le religiose africane dalle funzioni principali, quelle della gestione, dell’amministrazione e della decisione. La situazione adesso è ancora peggiorata a causa dell’aumento del numero di piccole fon- dazioni di tipo diocesano, fondate dai vescovi e preti africani, donne scelte per essere a loro servizio. Quando i prelati finiscono il loro mandato o muoiono, queste opere falliscono. Di conseguenza nascono altri problemi ancora per le suore coinvolte. Talvolta le religiose africane vengono man- date in Europa come missionarie nelle diocesi, ma questa cooperazione missionaria spesso fi- prete, spesso, viene solamente trasferito in un’altra parrocchia o inviato a studiare. Sono molte le suore che conoscono questa realtà — sottolineano le religiose — anche se non ne parlano per paura. Fino a che non ca- pita che rimangano incinte e allora la congre- gazione le manda via dal convento perché «è una vergogna». È una situazione «abituale in Africa», dove istituti o congregazioni di altri Paesi accorrono per cercare vocazioni, ma non cercano «persone interessate alla vita religiosa da formare», bensì solo una sorta di manova- lanza «per risolvere i loro problemi: hanno bi- sogno di personale che lavori nelle scuole o negli asili che gestiscono». Nei Paesi dove l’aids è molto diffuso — de- nunciano le suore — le suore vengono conside- rate più “sicure” per evitare il contagio nei rapporti sessuali. Non sono casi isolati, chiari- scono: è quasi impossibile quantificare il nu- mero di suore che subiscono abusi dai loro “benefattori” e poi sono state abbandonate dalla loro congregazione. Questo costituisce uno scandalo per tutta la Chiesa, perché que- ste religiose, prima che entrassero in queste congregazioni diocesane, erano delle ragazze normali, intelligenti, spesso le migliori della società a cui appartenevano. Quasi fin dall’inizio, la Chiesa ha promosso la realizzazione femminile. Sarebbe difficile trovare un’altra istituzione nel pianeta che — come un fatto la Chiesa cattolica — abbia per- messo semplicemente alle donne di pensare con la propria testa, di essere quello che erano nate per essere e di realizzare grandi cose. Invece uno strano contrasto sembra caratte- rizzare oggigiorno lo status delle donne nel cattolicesimo africano. Se per ipotesi dovesse venir meno il loro contributo nella catechesi, nell’animazione liturgica e nelle attività carita- tive, è facile immaginare che le comunità par- rocchiali collasserebbero. Diceva Virginia Woolf che «una storia non esiste finché non viene raccontata» e il silenzio sulla crisi di identità delle religiose africane è durato forse troppo a lungo. Bisogna aiutarle: questo è Jesus Mafa, «La visitazione» ( XX secolo) gravi distorsioni anche in se- no alla Chiesa, genera pro- blemi legati sia al carisma che alle vocazioni religiose e rende più attuale che mai il monito di Papa Francesco sul servizio delle donne alla l’appello che lanciano le religiose africane. Ascoltiamole ancora: «Sono sparse per il mondo, chi mai si è interessato a loro? Dove sono? Cosa fanno?. La Chiesa deve affrontare le sofferenze delle religiose africane in partico- lare ma più in generale la situazione delle donne al suo interno proprio perché le donne, e le religiose in particolare, sono il volto della Chiesa che più frequentemente e più facilmen- te raggiunge i poveri». Parole dure piene di dolore. Chiesa: un servizio che non deve mai diventare servitù. In Africa, di fronte a tren- tacinquemila preti e tremila- cinquecento missionari, le suore sono più di sessanta- mila. Eppure «la Chiesa non si è mai molto impegnata nella loro formazione». Le religiose di solito vengono formate solo e soltanto per l’apostolato, quindi, per la catechesi e l’insegnamento nella scuola elementare. Cioè, per rispondere alle esi- genze sociali e non per capi- re e approfondire il carisma e la spiritualità della congre- gazione a cui appartengono. La Chiesa non si è impegna- ta molto per la formazione di queste religiose. Religiose che si ritrovano sempre ad applicare decisioni già prese da altri e per altre. La religiosa virtuosa veni- va e viene incensata come perno tra il mondo visibile e invisibile, la rivelazione dell’amore e della grazia, l’essere più naturalmente re- ligioso che Dio abbia creato. Ma poi tutto questo sfocia in una condizione di asservi- che mandano le religiose a studiare senza for- nire loro alcun sostegno economico», tanto che esse si trovano spesso a dover chiedere l’elemosina. Un fatto che di per sé provoca un forte sentimento di vulnerabilità. In alcuni casi, non rari, la situazione di queste religiose impreparate a servizio delle gerarchie ecclesiastiche è ancora più umiliante. Lo ha denunciato, nel 2001, l’importante pe- riodico cattolico americano «National Catho- lic Reporter», pubblicando il rapporto che suor Maria Marie McDonald, superiora gene- rale delle Missionarie di Nostra Signora d’Africa, nel novembre 1998 inviò a un grup- po di delegati dell’Unione dei superiori gene- rali (congregazioni maschili), dell’Unione in- ternazionale delle superiore generali (congre- gazioni femminili) e della congregazione vati- cana per gli istituti di vita consacrata e le so- cietà di vita apostolica che si stavano occu- pando della questione. Suor McDonald scrive infatti che il proble- ma non è circoscritto all’Africa, anche se il gruppo che ha preparato il rapporto ha fatto riferimento all’esperienza africana. «È precisa- mente a causa del nostro amore per la Chiesa e per l’Africa che ci sentiamo tanto afflitti dal problema che vi presentiamo». La denuncia spiegava nello specifico il cir- colo vizioso che si innesca in questi casi par- tendo dall’esistenza di molestie sessuali e per- fino di stupri da parte di ecclesiastici nei con- fronti delle suore. Di solito poi la suora viene allontanata dalla sua congregazione mentre il nisce male per man- canza di progetti chiari e di prepara- zione e le religiose non di rado finiscono nelle strade, diven- tando senza fissa di- mora. Data la penu- ria di risorse — ci di- ce suor Anne — «ci sono molte congrega- zioni africane povere

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