donne chiesa mondo - n. 38 - settembre 2015

L’OSSERVATORE ROMANO mercoledì 2 settembre 2015 pagina 9 L’OSSERVATORE ROMANO settembre 2015 numero 38 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo Donne e sacerdoti Ne siamo assolutamente convinte: è un punto nodale per la vita futura della Chiesa. Troppo a lungo trascurata per misoginia, paura, diffidenza, comodità e ignoranza, la questione del rapporto tra i sacerdoti e le donne è fondamentale perché la vita all’interno della comunità cristiana sia davvero un fecondo incontro di crescita e maturazione per tutti. Perché — sulla scia di una lunghissima e distorta tradizione — le donne sono ancora sentite dal clero come un problema? Come presenze pericolose per l’integrità di una vocazione, e non invece come fonte di ricchezza? Perché le donne sono di fatto assenti nel percorso formativo dei seminaristi? Come ricorda Caterina Ciriello, nella Pastores dabo vobis , l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II risalente all’ormai lontano 1992, si sottolinea «la connotazione essenzialmente “relazionale” dell’identità del presbitero»: ma che relazione si può mai costruire se non si incontra mai, da pari da pari, l’altro da sé? Anche perché, ormai divenuti pastori, gli ex seminaristi — siano essi parroci, missionari, professori... — si trovano a vivere in un mondo popolato da maschi e da femmine. E con questa realtà, senza pregiudizi od ossessioni, senza morbosità o supponenza, si troveranno a dover esercitare il loro ministero. È un’immagine di grande dolore, la memorabile scena di Roma città aperta , il capolavoro firmato da Roberto Rossellini all’indomani della fine della seconda guerra mondiale. Nel bianco e nero poetico e terribilmente reale di don Pietro (Aldo Fabrizi) che tiene tra le braccia il corpo senza vita di Pina (Anna Magnani), troviamo ogni volta la potenza di una pietà rovesciata. Dove non è lei che piange lui, ma lui che culla e abbraccia lei. Lui, il sacerdote, la guarda negli occhi. Un sacerdote che guarda negli occhi — da pari a pari — una donna con cui ha pianto e riso, sperato e pregato. Con cui ha fatto, nella maturazione reciproca, un tratto di strada. ( giulia galeotti ) In seminario per formare A colloquio con suor Maria Daniela Cubadda e suor Paoletta Meloni donne chiesa mondo La comunità del seminario di Bosa durante un’escursione «Roma città aperta» (1945) di S ERGIO M ASSIRONI Inconfondibili, mi attendono all’aeroporto di Cagliari vestite di bianco; volti gioiosi, affabilità materna. 22 luglio, non sarà un caso: Maria di Magdala. L’impatto con i loro sguardi, l’auto semplice e vissuta, temperatura e luce del Mediterraneo, un tragitto breve che diventa scambio: tutto sa di Vangelo; l’atmosfera è certo di quelle che Gesù amava. Inizia così l’incontro con suor Maria Daniela Cubadda e suor Pao- letta Meloni, una giornata per ascoltare e raccontare. Congregazione femminile che ha avuto il seminario per casa madre, le Figlie di San Giuseppe di Genoni dal 1888 sono anzitutto protagoniste della for- mazione dei sacerdoti. Da ventiquattro an- ni suor Maria Daniela è alla guida dell’Istituto. Cagliari, fine Ottocento... «Si trattava, per il nuovo arcivescovo Berchialla, di ricostruire dal basso una diocesi bisognosa di strutture, formazione e slancio spirituale. Chiese ai superiori del suo ordine, gli Oblati di Maria Vergine, la presenza di padre Felice Prinetti. Dal 1881 Prinetti è in città, prima segretario dell’ar- civescovo, quindi reggente del seminario: un grande investimento si preparava nella formazione del clero. Ecco l’urgenza di provvedere al servizio domestico del semi- nario, che si sostanzia nel progetto di Pri- netti di generare nella Chiesa sarda una nuova famiglia religiosa. La partenza è dunque tradizionale: suore per la cucina, il guardaroba, il lavoro nascosto, la preghiera di intercessione. Non è giusto sminuire questi aspetti, considerandoli anacronisticamente in ter- mini di asservimento e minorità: le suore hanno subito trasformato i loro compiti in un’atmosfera, rendendo il posto in cui pa- reva relegarle la storia un punto di parten- za. Qui emerge nel suo rilievo il carisma, cioè quel dono dello Spirito con cui il fondatore ha trasmesso alla comunità un profilo da assumere con naturalezza. In particolare, i testi di Prinetti indicano alle suore la centralità della compassione. Si tratta di una cifra con cui egli rilegge l’in- tera economia salvifica alla luce della divi- na propensione ad ascoltare abbassandosi. Le suore educheranno, dunque, portando in seminario uno stile che dovrà incidere nei futuri ministri della divina compassio- ne: l’idea di mediazione acquista così i contorni quotidiani di un servizio fatto con intelligenza e cuore. «Nelle vostre mani tutto dovrà trasformarsi come il pa- ne e il vino nella messa»: donne che mo- strino con la vita ai candidati al sacerdo- zio che questo fa la carità. Spesso ciò che manca non è la presenza fem- minile, ma il suo esser vista. Così carismi grandi finiscono col parlare a pochi e trasfor- mare la Chiesa troppo lentamente. Di per sé, una vocazione cristiana non mira ai riconoscimenti, ma capisco il pun- to. In realtà, si va dalle manifestazioni di riconoscenza — che arrivano quando meno te lo aspetti da ecclesiastici apparentemen- te burberi e distaccati — alla ben più fre- quente intesa tra seminaristi e religiose. Le Figlie di San Giuseppe, prima a Cagliari e poi nei seminari di Oristano, Nuoro, La- nusei, Iglesias e Bosa hanno fatto da mamme a moltissimi giovani. E una ma- dre, anche se dietro le quinte, è centrale e sa di esserlo: ciò significa gioie e preoccu- pazioni, presenza, correzione, riferimento per le questioni del vestire, del nutrirsi, della salute, sprone alla preghiera e a uno stile di vita ordinato. In comunità semina- ristiche di piccole e medie dimensioni, sto- ricamente ciò ha messo in campo, di fatto, una corresponsabilità educativa. Era come se le famiglie affidassero i loro ragazzi alle suore: erano loro l’interlocutore nelle visi- te ai figli, occhio femminile che accompa- gna e custodisce. Si è andato più in là? Esiste qualche semi- nario in cui vi è stato chiesto di far parte a pieno titolo dell’équipe formativa? Con dieci anni di anticipo sul docu- mento La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana , che al numero 37 invita ad affiancare ai sacerdoti educatori «anche laici, uomini e donne, specialmente nell’ambito della consulenza psicopedago- gica», rilevando che «il carisma femminile (...) può essere di grande aiuto nell’itine- rario formativo», nel 1996 il seminario diocesano di Alghero–Bosa si attivò per costruire con le Figlie di San Giuseppe un nuovo tipo di collaborazione. L’allora ret- tore, oggi vescovo di Lanusei, Antonello Mura, mise nero su bianco nel dialogo con l’istituto il desiderio di una nuova presenza delle religiose, «invocando un vero e proprio gesto profetico», che ne va- lorizzasse la consacrazione e ne permettes- se un servizio educativo a tutto campo, ri- volto ai ragazzi nella loro formazione, ma anche segno vocazionale per la città e la diocesi. «Una presenza libera da impegni Suor Paoletta, lei è stata protagonista di questa nuova storia. Che ricordi ne ha? Avevo ventotto anni quando mi fu chie- sto di entrare in seminario in una modali- tà che tutti consideravano nuova. Arrivai con timore: non avevo le idee chiare su che cosa sarebbe potuto accadere. Ero io stessa in cammino verso una maturità vo- cazionale. Certo, mi dava sicurezza la pre- senza di una consorella più avanti negli anni, ma tutto ci allontanava dagli schemi consueti. La presenza tradizionale in semi- nario comportava che le suore avessero propri spazi e tempi, qui si entrava in una dimensione di comunità diversa, sempre tra i giovani. In tutto eravamo una quin- dicina di seminaristi, il rettore, e tre suore — di cui due stabili e una nuova ogni an- no — di ritorno da esperienze missionarie: una grande famiglia. Venivano dall’esterno anche confessori e padre spirituale, ma in casa si collaborava gomito a gomito suore e rettore: un’équipe educativa affiatata, che doveva approfittare dei rari momenti di assenza dei seminaristi per gustare la pace e il silenzio necessari a momenti di condivisione e di verifica. Quali sono stati i momenti più significativi? Si alternavano una quotidianità condivi- sa — ricreazione, ping-pong, letture, sport — e momenti di formazione più struttura- ti. C’era anche una notevole apertura all’esterno, in particolare si coltivava il rapporto con la città. I seminaristi fre- quentavano le scuole del territorio, così che spesso noi stesse mantenevamo con- tatti con gli insegnanti e seguivamo il loro percorso di studio. In comunità, conduce- vamo la catechesi settimanale, la lectio di- vina a piccoli gruppi, l’ora di “coscienza critica” che mirava a una verifica della vita personale e comunitaria. Poi avevamo le proposte culturali. Furono anni di incredi- bile vivacità: in particolare gli “incontri d’autore” portarono in seminario grandi personalità della politica, dell’arte e della vita civile. Cenavano con noi, talvolta par- vio: un periodo comunque sufficientemen- te lungo perché molto di quanto speri- mentato sia ancora vivo. Rispetto ai timori iniziali, quegli anni hanno plasmato la mia vocazione religiosa, così che ora, co- me maestra delle novizie nel mio istituto, vivo un patrimonio di sensibilità e di com- petenze formative guadagnato tra i futuri sacerdoti. Del resto, molti preti incontrati da ragazzi continuano a venire per raccon- tarsi, cercano la suora per confidarsi, per superare momenti di scoraggiamento o trovare luce nelle dinamiche affettive e co- munitarie in cui sono coinvolti: la relazio- ne educativa continua e si arricchisce, con un tratto originalissimo di complementari- tà tra maschile e femminile. Suor Paoletta ha citato la dimensione affetti- va. Suor Maria Daniela, cosa vede dalla prospettiva che le concede il ruolo di madre di un istituto tanto vicino ai sacerdoti? A Bosa le suore curavano anche percor- si sulla vita affettiva, modulati sulle diver- se età dei seminaristi. Ma in generale, co- me donne e talvolta col vigore delle ma- dri, vorremmo veder crescere dei giovani interiormente completi, rivolti non solo all’apparenza, aggrappati al Signore e non a qualche aspetto della vita o del ministe- ro. Vederli diventare adulti: non è il frutto automatico di una formazione teologica. Nelle comunità seminaristiche occorre in- vestire su una formazione umana integra- le, che superi la frammentazione che i ra- gazzi sempre più portano in sé, provenen- do da mondi, spesso anche familiari, mol- to sfilacciati. La relazione con le suore, anche nelle forme più tradizionali della lo- ro presenza, vorrebbe favorire questa cre- scita nell’equilibrio, che domani si tradur- rà in vicinanza buona alle persone, in ascolto paziente, rispetto, magari in auda- cia e profezia. Certo, se manca la maturi- tà, anche il rapporto con il mondo femmi- nile ne risente: può essere aspro, dall’alto in basso, privo di delicatezza, o all’oppo- sto prender la forma di attaccamento mor- boso. Per questo le donne presenti in se- minario non possono voltarsi da un’altra parte: incidono su dimensioni gravide di conseguenze sul clima che si respirerà nel- le parrocchie di domani. Dopo l’esperienza di Bosa, ve ne sono di nuove in corso? Già vent’anni fa, quando si avviò l’espe- rimento con don Antonello Mura, il no- stro istituto era costretto a valutare un ri- dimensionamento delle proprie presenze. Tuttavia divenne via via più chiaro che l’investimento sui seminari e, in generale, sulla formazione dei sacerdoti, ci riportava all’origine, al carisma e alle intuizioni del nostro fondatore. Oggi nel seminario di Cagliari suor Antonia Deidda, laureata in psicologia, si occupa di maturità psico-af- fettiva, intervenendo specialmente alla co- munità propedeutica. Suor Nolly, di origi- ne indiana, con i seminaristi ha frequenta- to per cinque anni le lezioni di teologia, vivendo tra le suore in seminario, ma con- dividendo viaggi, studio, preparazione de- gli esami con i futuri sacerdoti; oggi ha ottenuto la licenza in Scienze bibliche e chissà quali nuove esperienze di collabora- zione o di insegnamento potrebbero na- scerne. A Oristano, suor Sandra Calia ne- gli anni scorsi era superiora delle Figlie di San Giuseppe a servizio del seminario mi- nore, ma insegnava contemporaneamente nelle scuole superiori in città, frequentate anche da alcuni seminaristi. Come si vede, non esiste un’unica direzione, ma un’evo- luzione del carisma originario per rispon- dere alle situazioni presenti. Forse, però, la grande novità dell’ultimo decennio è che in una realtà tanto veloce e complessa nessuno crede più di farcela da solo. Que- sta è una vera chance per una Chiesa dal volto evangelico e anche perché in essa le donne cristiane esprimano più ampiamen- te tutta la ricchezza della propria origina- lità. Oggi più che mai la consapevolezza che da loro venga un contributo singolare ha ragione di essere viva». Per un sacerdote, lasciare dopo poche ore Cagliari e una conversazione tanto ric- ca significa tornare con altri occhi alle persone con cui condivide la sua missione quotidiana. manuali, come quelli della cucina, tutta protesa ad arricchire la vita comunitaria, come una vera e propria compagnia edu- cativa, dalla preghiera allo studio, animan- do i diversi gruppi che (...) necessitano di attenzioni specifiche». solo chi fa o solo chi pensa: formativo era l’esser fianco a fianco in ogni aspetto della vita. Così la conversazione tra adolescenti e religiose si faceva continua, con e senza parole. Una naturalezza che in diversi casi oliava il rapporto più gerarchico tra semi- narista e rettore: la suora era altro, chiara- mente educatrice, ma insieme confidente, portatrice di accenti e sensibilità particola- ri. Una complementarità di attenzioni che si rifletteva nell’équipe educativa, quando si trattava di leggere, ciascuno con i suoi occhi, il cammino di ogni ragazzo, spesso per elaborare decisioni delicate. Sentivamo che certi travagli sarebbero stati molto pe- santi da portare in solitudine, mentre lo scambio tra suore e rettore generava una sicurezza piena di reciprocità. Cosa resta oggi di quella esperienza? Il seminario di Bosa, come molte comu- nità di adolescenti, ha visto negli anni re- centi un drastico calo di presenze, fino al- la chiusura. Così il nostro progetto si con- cluse nel 2009, a dodici anni dal suo av- tecipavano alla preghiera, poi iniziavamo dialoghi aperti anche alla gente. Quindi basta lavori manuali? Al contrario! Sebbene la cucina fosse gestita da personale appositamente assun- to, tutto il lavoro di pulizia e di gestione della casa era condivi- so tra suore e ragazzi. La vita in seminario era volutamente essenziale, per molti versi austera. Il nuovo, a livello educativo, emergeva dal condividere la concretezza anche nei suoi aspetti più umili. Nessuno viveva ser- vito e non esistevano man- sioni secondarie. Crollava- no gli schemi per cui vale

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