donne chiesa mondo - n. 31 - gennaio 2015

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2015 numero 31 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo La candela di suor Megumi L’annuncio del Vangelo in Giappone dopo lo tsunami della globalizzazione di T ERESA C AFFI M egumi Kawano Maria Madda- lena è una missionaria saveria- na giapponese. Dopo alcuni anni di servizio missionario in Brasile, vive oggi nel suo Pae- se. «Anticamente — dice Megumi parlando del profondo senso religioso del Giappone — il nostro popolo aveva una forte spiritualità, che si esprimeva nell’arte dei fiori, nella ceri- mina in una generazione e i germogli possono spuntare nella successiva. Così, la mia testimo- nianza di Gesù può non portare frutti visibili, ma forse — a distanza di molti anni — qualco- sa fiorirà. È la speranza». Come ha incontrato Gesù, Megumi Kawa- no? «La mia famiglia era buddhista ma non molto praticante: solo in qualche anniversario di morte con la mia famiglia andavamo al di C RISTIAN M ARTINI G RIMALDI A quasi duemila metri sul livello del mare, Nuwara Eliya è la città più elevata dello Sri Lanka. Fu fondata dai britannici nell’Otto- cento e oggi a rievocare quel pas- sato vittoriano resta un campo da golf, un grazioso laghetto per le gite in barca e degli splendidi hotel. È proprio in questa cittadina che un gruppo di suore ha da poco avviato un laboratorio dove si fabbricano borse di diverse taglie e stili. Il tessuto che utilizzano è la juta. Vi lavorano sedici giovani ragazze. Dietro il progetto non c’è solo una ragione ecologista — eradicare nel loro piccolo le irri- ciclabili borse di plastica — ma soprattutto occupazionale: «Se non lavorassi qui non sa- prei cos’altro fare!», esclama una delle giova- ni madri impiegate. Siamo all’interno del grande convento costruito più di cento anni fa dalle suore del Buon Pastore, che com- prende anche una scuola, un dormitorio e una mensa. A guidarmi è la superiora suor John, una donna dalla corporatura robusta, lunghi ca- pelli grigi e, dietro un paio di solidi occhiali da vista, uno sguardo autorevole. L’idea di un centro per il cucito è venuta a lei. Ma l’officina delle borse di juta è solo uno dei progetti della congregazione che vanno nella direzione di favorire lo sviluppo della comu- nità locale. Il più ambizioso è quello di rea- lizzare case per i poveri. «Dopo aver visitato i poveri nella periferia di Nuwara Eliya, ho capito che molti dei problemi psico-sociali che affliggono tante famiglie indigenti sono associati proprio al fatto di vivere in alloggi inadeguati» racconta suor John, mentre tira fuori da una scatola di cartone delle fotografie di qualche anno fa. Mi mostra i siti su cui hanno lavorato: l’idea da cui il progetto è partito era quella di ri- convertire in vere e proprie abitazioni quegli alloggi improvvisati, che poi altro non sono che quattro tavole di legno tenute assieme da chiodi battuti di traverso. Questi alloggi co- stituiscono una buona parte delle dimore alla periferia di Nuwara Eliya. «ll padre di una sorella della nostra con- gregazione è venuto a parlarmi di Habitat Humanity, organizzazione che lavora per co- struire case per i poveri. Mi disse, perché non li inviti a darti una mano? E io seguii il consiglio. Vennero e ci spiegarono nei detta- gli il piano di lavoro. Ero soddisfatta. Così abbiamo cominciato subito» dice suor John, che all’inizio aveva provato da sola a costrui- re una casa con dei fondi messi assieme dalla sorella in Germania. Ma ben presto in quella nuova abitazione cominciò a pioverci dentro: suor John comprese che da sola non ce l’avrebbe mai fatta. Bisognava inventarsi qualcosa. Così è partito l’ housing project . «I risultati sono stati straordinari. Centosessanta case in soli cinque anni» affer- ma la religiosa, mentre punta il dito con fie- rezza sulle foto che ritraggono le nuove abi- tazioni. Se a finanziare l’opera era la ong, è stato però introdotto un sistema per coinvolgere le famiglie direttamente. Sono stati creati dei gruppi composti da dodici nuclei familiari. Ogni gruppo doveva risparmiare una cifra prestabilita ogni mese per contribuire con quella alla costruzione di una casa fino al completamento delle dodici abitazioni. «Noi diciamo sempre: lavora duro per la tua casa e sarai sempre orgoglioso di averla costruita con i tuoi sforzi e il tuo sudore. Per questo è importante che le famiglie partecipi- no alla costruzione. Abbiamo iniziato con le case che si trovavano nello stato peggiore. La prima fase riguardava la costruzione di due camere; finite queste, le strutture erano già abitabili, e solo poi si costruivano le ultime due camere, in modo da consentire a tutti di avere un primo alloggio essenziale nel minor tempo possibile». Suor John fa l’esempio della casa costruita per Rita, trent’anni e tre figlie. Il marito la- vora in una fabbrica di riparazioni di elettro- domestici mentre lei tiene la cassa per l’offi- cina delle borse di juta. Prima dell’intervento di re-styling sulla sua dimora, Rita con la sua famiglia viveva in una baracca di fortuna, con un telo di plastica per tetto; durante la stagione delle piogge si trasformava in una pozza invivibile di acqua e fango. Ora abita- no in una casa vera, fatta di mattoni e di un solido tetto di tegola. L’acqua non penetra più e Maria può sognare all’asciutto. Ma ci sono famiglie in condizioni peggio- ri. Come quella di Riccardo, che non può più lavorare perché per anni ha fatto il fac- chino — o meglio lo scaricatore, un lavoro molto comune da queste parti — portando enormi pesi sulle spalle e ora si ritrova con le ginocchia distrutte. La moglie lavorava sal- tuariamente come babysitter e prima di in- contrare suor John vivevano in un tugurio di legno, sempre fradicio. «Qui piove metà giorni dell’anno» sottolinea la suora. Adesso Riccardo e la famiglia vivono in una casa modesta ma confortevole e in più grazie a un sistema di prestiti agevolati, sempre organiz- zati dalla congregazione del Buon Pastore, possono coltivare ortaggi nel proprio giardi- no che soddisfano gran parte del loro fabbi- sogno alimentare giornaliero. «È un’esperienza che cambia la vita quella di abitare in una casa nuova dopo che per anni si è vissuto in un tugurio» commenta suor John che ha inaugurato lei stessa l’inizio del progetto innalzando, spatola alla mano, la prima fila di mattoni. «Una volta termina- ta la costruzione vengono celebrati dei riti lo- cali, riso e cocco vengono sparsi sul terreno come da tradizione. Ma per i cattolici ci so- no io che porto l’acqua benedetta» mi dice la sorella che però ci tiene ad aggiungere che il progetto non è orientato ai soli nuclei cat- tolici. Sono curioso di visitare una di queste nuo- ve abitazioni. Fuori piove a dirotto. Saliamo su un furgoncino. Risaliamo un terreno ripi- do e strettissimo mentre l’acqua scorre in pendenza prendendo la consistenza di un piccolo torrente. Alla nostra sinistra compare la bella e nuova abitazione. Entriamo in casa e noto immediatamente che dal soffitto pen- de un piccolo vaso. Mi spiegano che si tratta di un simbolo di prosperità: il vaso è riempi- to di riso, curry e altre spezie: ogni famiglia ne appende uno simile nel soggiorno. Per questa gente, al limite della povertà assoluta, possedere una casa è sempre stato un lusso, ma che non manchi il cibo è una preoccupa- zione costante. Non è un caso che le famiglie a cui il progetto housing è dedicato non ab- biano mai avuto la proprietà della terra sulla quale hanno risieduto per tanti anni. «Solo ora abbiamo avuto la garanzia dal sindaco che quelle terre non verranno richie- ste indietro dal comune» mi dice suor John, che aggiunge: «È una grande vittoria. Ora potremo costruire su quei terreni senza la paura che un giorno chi andrà a viverci verrà sfrattato». Il romanzo Il viaggiatore notturno In un momento storico in cui i conflitti endemici tra popoli, religioni ed etnie si stanno nuovamente incarnando nella ripetuta violenza sui corpi delle donne come forma di punizione, umiliazione e sottomissione, a dieci anni dall’uscita, ci torna in mente quella misteriosa figura femminile che attraversa il romanzo di Maurizio Maggiani, Il viaggiatore notturno (Feltrinelli, 2005). È «la Perfetta», la ragazza che dal Caucaso si dirige a piedi verso occidente, con una sporta di plastica in mano. Attraversata mezza Europa, arriverà alle porte di Tuzla dove incontrerà — in una situazione drammatica — il protagonista, specialista di migrazioni animali. Cammina sul ciglio «la Perfetta», donna raminga, violentata e seviziata in quanto femmina straniera, che ha in sé la forza di resistere a ciò che gli uomini le impongono. Ripetendo una frase misteriosa — che il protagonista interpreta come un «non mi toccare», simile a quello che Charles de Foucauld scrisse riferendosi alla morte vedendola all’orizzonte — la donna scandisce il suo «no». In apparenza inutile, nella sostanza così sostanziale. ( @GiuliGaleotti ) Il film Marsella Due madri — una biologica, Sara, e l’altra affidataria, Virginia — per Claire, una bimba di nove anni. I problemi di alcol e droga avevano tolto a Sara la figlia quando la piccola aveva solo quattro anni, ma ora — disintossicata e con un lavoro stabile — il giudice la ritiene di nuovo in grado di prendersi cura della bambina. Per Claire il passaggio dalla vita borghese e benestante con la coppia affidataria al quotidiano un po’ squinternato di Sara, non è per nulla facile, ma riavvicinarsi alla madre naturale significa l’avverarsi di un sogno: le due, infatti, partono alla volta di Marsiglia, dove vive il padre che la piccola non ha mai conosciuto. A sorpresa, il viaggio vedrà, però, anche la partecipazione di Virginia. Non mancano i colpi di scena, e scene di delicata poesia, in Marsella , film spagnolo di Belén Macías (2014), che ha al centro la complessa crescita, innanzitutto emotiva, di una bambina. Niente retorica nella pellicola, ma solo adulti capaci — anche nella sofferenza — di imparare il segreto per essere davvero genitori: porre al centro delle scelte non il proprio ego, ma il futuro dei figli. ( @GiuliGaleotti ) A C ALCUTTA SUORE NEI POSTRIBOLI PER SALVARE LE PROSTITUTE SCHIAVE Non solo un forte ritorno alla dimensione contemplativa, ma anche un rinnovato impegno all’azione: è questo per le religiose indiane il senso dell’Anno della vita consacrata. Esattamente con questa consapevolezza, di notte a Calcutta quattro suore della Congregazione di Maria Immacolata, lasciati i loro abiti consueti, si recano nei postriboli della città, dove molte ragazze sono costrette alla prostituzione o sono ridotte in schiavitù da trafficanti senza scrupoli. La loro opera ha permesso di salvare numerose donne. Questo impegno a favore delle donne sfruttate e indifese — ha spiegato suor Sharmi Souza — «è anche una risposta positiva al messaggio di Papa Francesco per la prossima Giornata mondiale della pace, che esorta a combattere le moderne forme di schiavitù». In una sola notte, prosegue, «abbiamo salvato trentasette ragazze, dieci delle quali minorenni». Le suore offrono sostegno e assistenza alle giovani donne, che poi forniscono informazioni utili alla polizia per fermare i trafficanti. Non che sia sempre facile: a volte gli agenti si rifiutano di recarsi nei postriboli, perché anch’essi sono stati corrotti dai trafficanti, e allora le religiose passano oltre e si rivolgono direttamente ai loro superiori. Secondo dati del Governo indiano, nel 2007 oltre tre milioni di donne lavoravano nel mercato del sesso, il 35,47 per cento di queste sotto i diciotto anni. L’ong Human Rights Watch fa rientrare nella categoria di prostituta almeno venti milioni di persone in India, con la metropoli di Mumbai che, da sola, contiene oltre duecentomila prostitute. Vincendo così il triste primato di più grande centro dell’industria del sesso di tutta l’Asia. C ORSO DI TRUCCO PER DONNE NON VEDENTI Colori dal buio. Grazie a un corso organizzato dall’Unione italiana ciechi e ipovedenti di Torino, le donne non vedenti imparano l’arte del trucco. L’idea è venuta a Nunziata Panzarea, responsabile del comitato per le pari opportunità dell’associazione: pur essendo cieca dalla nascita, la donna riesce a truccarsi contrassegnando i cosmetici con etichette in braille per distinguere i colori. Spesso — ha spiegato — le persone non vedenti tendono a trascurare il proprio aspetto esteriore, eppure il modo in cui ci presentiamo è il fondamentale biglietto da visita nella vita di relazione. Il punto di partenza per il rispetto di sé, e degli altri. L A VOLONTARIA DELL ’ ANNO La Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontario) ha premiato Maria Luisa Cortinovis per il suo impegno con i bambini dell’Ecuador. Grazie alla fondazione del Colegio San Gabriel a La Troncal, aperto con il marito oltre quarant’anni fa, Cortinovis segue la formazione scolastica ed educativa dei giovani, provenienti soprattutto da famiglie povere e indigenti. «Con il suo collegio scommette sui giovani, attraverso la formazione integrale della persona: essi sono il futuro di un popolo e anche la speranza di una società più fraterna e più giusta», si legge nella motivazione del premio. Per Cortinovis, settantaquattrenne originaria di Bergamo, istruzione e formazione servono per «rompere con quella dipendenza che ci fa abbassare la testa. Dobbiamo dare a chi non ha le opportunità, la possibilità di guardare negli occhi le persone per far le scelte coerenti, giuste, individuali, e non quelle degli altri». Il progetto formativo Colegio San Gabriel è composto da una scuola primaria e da una tecnica con diverse specializzazioni in campo artigianale e industriale. Alla scuola sono annessi un convitto e un’unità produttiva, il cui fine è quello di procurare risorse economiche per la scuola con la collaborazione di insegnanti e studenti. Un contributo alla giustizia e alla pace sociale, in un Paese che non è ancora uscito del tutto dalla logica della separazione di classe. «Il riconoscimento non è mio — ha precisato — ma di tanti: volontari, persone che camminano per costruire un mondo migliore, che vivono e danno un senso alla loro vita per la solidarietà e soprattutto per tutte le persone che sono rimaste in Ecuador. La nostra comunità educativa è fatta di bambini, ragazzi, giovani, insegnanti e genitori che camminiamo insieme per creare una visione diversa dei paesi in via di sviluppo». C ARMEN I GLESIAS E L ’ ACCADEMIA La Real Academia de la Historia di Spagna, prestigiosissima istituzione incaricata dello studio della storia — politica, religiosa, militare, scientifica, letteraria, artistica e culturale — spagnola, per la prima volta nei suoi 278 anni di vita sarà diretta da una donna. Eletta con quasi l’ottanta per cento dei voti (23 favorevoli su 30 votanti), infatti, Carmen Iglesias (Madrid, 1942), modernista che insegna Storia delle idee morali e politiche all’università Juan Carlos I , sarà per quattro anni, a partire da marzo, a capo dell’istituzione. U N ’ ATTRICE DIVERSA Il mese scorso è morta a Roma Virna Lisi, attrice molto amata dal pubblico, anche per le sue scelte per nulla scontate. Dopo aver firmato un contratto di sette anni con la Paramount, decise di pagare una penale e lasciare il cinema americano che voleva piegarla a un’immagine che non sentiva sua. È stata una di quelle attrici che hanno imparato il mestiere con l’esperienza: se è pur vero che all’inizio della sua lunga carriera era la straordinaria bellezza a prevalere sul talento, poi nel tempo Virna Lisi ha dato prova di una naturale autorevolezza. Una delle poche italiane a non essere quasi mai doppiata, fin da subito ricoprì ruoli piuttosto importanti, ottenendo diversi premi. Intervistata da Oriana Fallaci nel giugno del 1964, al culmine del suo splendore, alla giornalista che le chiedeva se fosse contenta di essere così bella, rispose: «Attendo con impazienza le rughe, la vecchiaia: la gente mi prenderà più sul serio». Ed è stata di parola: caso assolutamente eccezionale nel mondo dello spettacolo di oggi, infatti, non ha avuto paura degli anni, lasciando che il suo viso raccontasse la sua età. Anche per questo, è morta a 78 anni senza aver smesso di lavorare. E di essere meravigliosa. Il saggio Carmina Il genio poetico e musicale di Ildegarda di Bingen, autentica magistra della comunità femminile di Disibodenberg, è pari alla sua speculazione teologica e alla sua intensa esperienza mistica. I 77 componimenti — Carmina. Symphonia armonie celestium revelationum (Gabrielli Editore, 2014) — sono l’eco delle musiche celesti che Ildegarda udì, e del canto stesso degli angeli. La monaca non trattiene per sé il dono ma lo rende tale porgendolo a tutti perché tutti possano percepire l’armonia del firmamento, e la stessa Trinità. L’amore percorre tutti i canti come un filo che unisce, collega e sospinge a guardare Maria. L’armonia diventa la cifra con cui leggere la viva esperienza della monaca che vuole contagiare e unificare Dio e l’uomo, il corpo e l’anima, la natura e l’umanità. Nei carmina si gioca sempre su corde diverse che vibrano e richiamano voci che si congiungono, sollecitando quel fondo di nostalgia che dimora nell’animo di ogni persona, commossa nel ricordo e nell’anelito del paradiso. La persona inizia a sentirsi affine all’angelo e si allieta, perché scopre la via che la conduce verso la Trinità. La densità del pensiero sotteso si esprime nella pienezza del canto, nella sua fluidità: il Verbo che diviene carne si espande con piena fioritura di linguaggio e di slancio musicale, perché l’atto d’amore divino è grande e dona la vita vera. ( cristiana dobner ) «Ciliegio in fiore» (paravento a due ante, fine XVII secolo, Giappone) Costruire case per i poveri Dallo Sri Lanka in attesa di Papa Francesco «Una volta terminati i lavori — racconta suor John — riso e cocco vengono sparsi sul terreno come da tradizione Ai cattolici però io porto l’acqua benedetta» Ogni famiglia partecipa attivamente alla costruzione I risultati sono stati straordinari con centosessanta abitazioni in soli cinque anni fiamma può accendersi un’altra candela e poi un’altra. E così le candele accese possono di- ventare tantissime! Per questo dico che ci vo- gliono ancora missionari e missionarie che ac- cendano nel cuore delle persone una candela che non è mai stata accesa. Ricordiamo il ge- sto della liturgia pasquale, quando accendia- mo la nostra candela all’unica candela accesa che simboleggia Gesù. Senza Gesù non c’è speranza di risorgere dalla morte: si pensa che la vita finisca con la morte. La risurrezione è ben diversa dall’idea buddhista della rinascita. cosa c’è in casa vostra? Sento che c’è sempre allegria!”. Da lì è cominciato un dialogo. Non è detto che la persona arrivi a ricevere il batte- simo, però può vivere dei cambiamenti impor- tanti nella sua vita. Nella nostra scuola mater- na la quasi totalità dei bambini è di famiglia non cristiana. Attraverso la maestra dell’asilo, imparano a conoscere Gesù. Forse non arrive- ranno mai al battesimo, ma quando in futuro manderanno i loro figli alla scuola materna cattolica, a quel punto qualche mamma sentirà la voglia di studiare la Bibbia. Talvolta si se- La mia famiglia mi lasciò libera di chiedere il battesimo Ero diventata più serena e gioiosa Ma mia madre mi disse: «Però non diventare suora!» Una ragazza kenyota si oppone al matrimonio combinato per lei dalla sua famiglia (foto Reuters) monia del tè, nello sport tradizionale. Non erano solo arti o discipline sportive: chi li pra- ticava acquisiva anche una spiritualità che aiu- tava a ben vivere. Il contatto con la natura era meditativo e, nel mondo shintoista, si percepi- va la presenza del soprannaturale. Questa spi- ritualità sosteneva la nostra vita, ci dava gioia e senso, anche se questo senso non era ancora giunto a pienezza». Con la globalizzazione — prosegue — «que- ste arti si sono svuotate progressivamente della loro anima, rimanendo pure arti. I giovani non vi danno importanza, interessano più gli stranieri. Nella frenesia della società moderna non c’è più tempo di fermarsi a contemplare la natura, mentre la competizione si acuisce, creando, in tutti gli ambiti, l’arrivismo perfino fra i bambini. La carenza di spiritualità ha co- me conseguenza un cambiamento anche nel carattere delle persone: c’è più nervosismo e chi non è fra i primi soffre terribilmente». Non solo la globalizzazione: anche l’impat- to delle catastrofi ambientali di questi ultimi anni ha destabilizzato la vita di tante persone. «Con il terremoto — continua suor Megumi — e il conseguente tsunami di quattro anni fa, molti hanno perso in un momento tutto ciò che pensavano sostenesse la loro vita. Questo ha portato non poche persone a interrogarsi. Dando e ricevendo solidarietà, hanno comin- ciato a riscoprire l’importanza delle relazioni personali, l’importanza della vita». Giappone terra di missione, dunque? «Spesso si fa consistere la missione nell’aiuto ai poveri. Questo è un aspetto importante e il cristiano lo vive come espressione della sua fe- de in Gesù e con il desiderio di farlo conosce- re. Anche i buddhisti, gli shintoisti e gli atei aiutano i poveri, in nome dell’umana solida- rietà. Quando però una persona perde il senso ricevere aiuto, ma è diventato un bambino, si è lasciato aiutare da noi esseri umani che ab- biamo così tanti limiti. Questa è stata per me una grande scoperta». E prosegue: «Quando arriva un momento difficile nella vita, la solitudine, crediamo a questa presenza e non siamo mai veramente soli. Vedendo la sofferenza di Gesù, possiamo capire anche la sofferenza di cui non facciamo esperienza, possiamo comprendere la sofferen- za degli altri e come possiamo aiutarli». Forse per chi è cristiano da sempre, ed è stato battezzato dalla nascita, non è facile comprendere la differenza. «È vero. Chi nasce in una famiglia cristiana, difficilmente può im- maginare come vive chi non conosce la pre- senza di Dio perché non ne suppone neanche l’esistenza, quale solitudine, sofferenza, diffi- coltà incontri. Se credi alla presenza di Gesù al tuo fianco, anche se nessuno ti capisce, tu sai che lui sa tutto e puoi sempre avere una speranza, una luce che illumina il buio della tua vita. Immaginiamo un luogo tenebroso in cui non ci sia neanche una candela accesa: non ci è possibile accenderne una. Però, se c’è anche solo una piccola candela, con quella In Giappone, ai funerali cristiani partecipano tante persone che non sono mai entrate in chiesa e nell’omelia si può annunciare loro il senso cristiano della morte e della risurrezio- ne». Non dev’essere facile annunciare il Vangelo in un Paese come il Giappone. «Il cammino del Vangelo qui è molto lento, è silenzioso, a volte invisibile all’esterno. Il popolo giappo- nese guarda alla vita quotidiana dei cristiani. Quando un cristiano vive nella gioia e nella speranza anche nelle difficoltà, il suo modo di vivere interroga: “Che cosa c’è? Perché è co- sì?”. Questo è già il primo passo per l’incon- tro con il Vangelo. Da lì può cominciare un cammino che può prendere anche molto tem- po e richiede pazienza. La persona stessa si mette in ricerca, a volte spinta dalla sofferenza che sta vivendo e comincia un dialogo, in cui si possono proporre frasi o episodi del Vange- lo adatti alla sua situazione, che possano darle speranza». Un esempio? «Una delle nostre comunità era composta di sorelle giapponesi, messicane e italiane. La nostra vicina ci sentiva ridere fra noi e, dopo tanto tempo, venne a dirci: “Che tempo dove ascoltavamo l’omelia del bonzo. Avevo otto anni quando passai il mio primo Natale cristiano, presso una mia amica, figlia di un pastore. Leggendo la preghiera del Pa- dre nostro su un cartoncino che m’avevano dato, mi chiedevo chi fosse quel padre nostro che sta nei cieli. Sempre mi ponevo domande sulla vita: vivere o morire, mi dicevo, non sia- mo noi a deciderlo. Durante un mio ricovero in ospedale mi colpì il fatto che una signora della mia stanza, che non sembrava grave, s’aggravò e una notte morì, mentre un’altra, che era molto grave, guarì. Mi chiedevo: per- ché esisto? Perché ho ricevuto questa vita? Uscita dall’ospedale, cercai una chiesa cattoli- ca e cominciai a frequentarla. Non conoscevo quasi nulla della fede cristiana, avevo soltanto un libretto sull’Antico Testamento, comprato per curiosità. Da bambina avevo sentito rac- contare le storie di Adamo ed Eva e della tor- re di Babele, ma non sapevo che si trovassero nella Bibbia. Nel mio ambiente quotidiano non trovavo le risposte che cercavo: le trovai nel cristianesimo, grazie a un missionario. A ventidue anni ricevetti il battesimo». Come è arrivata la decisione di consacrarsi per la missione? «Scoprendo la presenza di Gesù, la sua parola, ho trovato la speranza ed è stato normale pensare a quanti non l’aveva- no ancora incontrato. In Giappone quando uno diventa cristiano non è raro che sul lavo- ro, a scuola o in casa sia l’unico a credere in Gesù. Il cristiano è anche missionario, testi- moniando la differenza della vita cristiana. Quando avevo ventisei anni mio padre morì: davanti alla sua bara percepii in modo più forte la grazia di credere in Gesù, che ci apre alla speranza della vita eterna. Capii di più la sofferenza di quanti non conoscono Gesù e sentii la chiamata a spendere tutta la mia vita per annunciare lui e il suo Vangelo. È una grazia del Signore: da sola non avrei avuto il coraggio di lasciare la mia casa e il mio mon- do». Ha incontrato difficoltà in questa scelta? «La mia famiglia mi lasciò libera di chiedere il battesimo, forse anche perché notava che ero diventata più serena, gioiosa e positiva. Fu in quell’occasione che scoprii che anche mio pa- dre aveva frequentato la scuola materna cri- stiana. Mia madre mi disse: “Però non diven- tare suora!”. Soffrì perciò tanto quando scelsi di entrare in una famiglia religiosa e per me le sue lacrime e la sua sofferenza furono una grande difficoltà. Ci vollero dieci anni perché riuscisse a rasserenarsi, e ad accettare la mia scelta: ha anche partecipato alla mia professio- ne perpetua. Penso che lo Spirito Santo stia lavorando nel suo cuore. Altre difficoltà sono le mie fragilità e limiti, ma — passando il tem- po — m’accorgo sempre più che diventano oc- casioni per conoscere meglio la grandezza dell’amore di Dio. Mi basterà l’eternità per dirgli grazie?». della vita, sente il vuoto di una perdita di spiritualità e soffre di una solitudine an- gosciosa. È una grande povertà, anche se non materiale: sta a noi cristiani condividere con queste persone la speranza e la luce che ci fa vive- re. È il nostro specifico di cri- stiani e di missionari: far ri- suonare la parola di Dio, par- lare della sua presenza di pa- dre, far sentire che siamo amati. Quando sono povero, se ho la fede, posso vivere e conoscere la gioia. Quando, poco dopo essere stata battez- zata, sono andata nelle Filippi- ne per partecipare alla Giornata mondiale della gioventù, ho in- contrato un popolo molto pove- ro, con molti bambini. Ho vi- sto che i loro occhi brilla- vano, sprizzavano vita, cosa che non posso ve- dere in Giappone. La stessa cosa ho sentito negli anni di missio- ne in Brasile: ci sono poveri che vivono in strada, che vengono a chiedere da mangiare, che sanno cogliere la presenza di Dio, di Ge- sù nella loro situazione. “Dio c’è perché ascolta la mia voce”, mi diceva uno di loro. In Giappone c’è tutto ma manca la cosa più im- portante. Ogni anno si suicidano quasi ventotto- mila persone». Dio però già lavora nel cuore di ciascuno. «Quan- ti ancora non conoscono Cristo — continua suor Megumi — non sono lontani da lui, per- ché dalla nascita c’è nel loro cuore una semen- te divina, perché noi crediamo che tutti gli es- seri umani sono creati dallo stesso Dio. Penso però che per accogliere in pieno questo valore, per conoscere il volto di questa presenza, oc- corre un aiuto: per noi missionari, il primo servizio al Regno è offrire questo aiuto ai no- stri fratelli e sorelle. Così ha fatto Filippo con l’eunuco, che viaggiava leggendo una parola che non comprendeva (cfr. Atti degli apostoli , 8, 26-40); così ha fatto Paolo quando ha an- nunciato agli Ateniesi il nome del “Dio igno- to” che onoravano (cfr. Atti degli apostoli , 17, 22-34)». C’è una profonda differenza tra le fedi tra- dizionali giapponesi e l’aderire a Gesù e al suo Vangelo, che non può essere ignorata. «La cultura di noi giapponesi — spiega suor Megumi Kawano — è basata sullo shintoismo e sul buddhismo. Per il buddhismo giappone- se, Dio non c’è; per lo shintoismo, ci sono tanti dei: il dio della montagna, il dio delle acque e così via. Rispettiamo, invochiamo, preghiamo questi dei ma sono lontani da noi. Il Dio di Gesù viene da noi, abita dentro di noi, cammina con noi, conosce la nostra vita, la nostra sofferenza, perché in Gesù ne ha fat- to esperienza. Incontrando il messaggio cri- stiano, ho capito che Dio è venuto da noi. Nella sua onnipotenza non aveva bisogno di

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==