donne chiesa mondo - n. 31 - gennaio 2015

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Le infermiere Quella tripla dose di antibiotico di S ILVIA G UIDI «P ensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vi- vono nelle frontiere» ha detto Papa Francesco nell’in- tervista a «La Civiltà Cattolica» nel 2013: «Io sono vi- vo grazie a una di loro. Quando ho avuto il problema al polmo- ne in ospedale, il medico mi diede penicillina e strectomicina in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva cosa fare perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza». Papa Bergoglio ha riassunto con un aneddoto personale — e con la consueta, efficace sintesi — quella che per Cecilia Sironi, presidente della Consociazione italiana delle Associazioni infer- miere/i è stata e continua a essere la battaglia di una vita: far ca- pire l’importanza di un lavoro troppo spesso sottovalutato o ad- dirittura ignorato quando si tratta di prendere decisioni che ri- guardano i sistemi sanitari nazionali. «L’idea di studiare per tanti anni, minimo sei, a cui sommare una specialità medica e di vedere dopo troppo tempo i malati — racconta Sironi — mi portò a informarmi sulla scuola per infer- mieri. Negli anni successivi più volte ho pensato a quell’inizio, ho avuto tanti momenti in cui mi sono detta: “Ma chi te l’ha fat- to fare? Hai scelto un lavoro faticoso, che chiede davvero tutto, un lavoro che non è né stimato né retribuito adeguatamente”». La tentazione di fare marcia indietro c’è stata, ammette: «Sin- ceramente ho pensato diverse volte di lasciare tutto, ma non per- ché pensassi di aver sbagliato strada. Il motivo è sempre stato l’opposto: per un eccesso di passione. Mi domandavo: perché una professione così bella, così importante per la vita degli altri deve portare chi ne è innamorata a non essere messa nelle condi- zioni di esercitarla come vorrebbe e dovrebbe? Una donna può dare davvero molto come infermiera. E non lo dico per nostalgia romantica, ma perché collaboro alla formazione dal 1983. In per- centuale, le infermiere sono più brave, anche se, quando si trova- no ragazzi tagliati per questa professione, sono davvero estrema- mente capaci. Proprio per questo grande amore alla professione ho scelto di dedicarmi alla formazione dei futuri infermieri. Sarò soddisfatta quando — spero accadrà prima che io vada in pensio- ne — la professione dell’infermiere sarà vissuta e percepita dalla gente con pari dignità a quella del medico o del fisioterapista». Ma sembra un traguardo ancora lontano. «Raggiunto da tem- po in Paesi con problemi igienico sanitari enormi, non ancora in Italia — continua Cecilia Sironi — gli infermieri possono salvare la vita di intere popolazioni a costi contenuti. In gran parte dei servizi sanitari e assistenziali di tutto il mondo si può fare spesso a meno del medico, ma non dell’infermiere, la cui preparazione è ampia, abbraccia tutti gli aspetti clinici e assistenziali, include la famiglia, tiene presente il contesto e considera la persona con tutte le sue componenti, non solo gli aspetti bio-fisiologici». E prosegue: «Ciò che mi colpì iniziando a lavorare in un ospe- dale londinese nel lontano 1980 fu la presenza di una chiara ge- rarchia infermieristica. Chi mi fece il colloquio per l’assunzione era una capo infermiera ( senior nursing officer ) dalla quale dipen- deva direttamente tutto il personale infermieristico e di assisten- za. Il fondamentale assunto che un numero adeguato d’infermieri per ciascun malato porta a un concreto risparmio, oltre a una qualità dell’assistenza non solo percepita dai malati ma oggetti- vamente valutabile, è qualcosa di ancora poco noto. Autorevoli enti (si pensi all’Institute of Medicine) hanno ben compreso que- sto e si stanno muovendo di conseguenza, utilizzando i risultati dei numerosi studi, svolti anche in Europa, fra cui quelli di Lin- da Aiken». E i libri di Jean Watson, che dagli anni Ottanta a oggi restano un classico delle scienze infermieristiche. Un anno fa Cecilia Si- roni ha curato la traduzione italiana di Philosophy and Science of Caring ( Assistenza infermieristica. Filosofia e scienza del caring , Mi- lano, Casa Editrice Ambrosiana, 2013). «Della Watson — prose- gue Sironi — mi ha sempre colpito il fatto che sia una donna alla ricerca di senso. Del senso della sua vita, di come viverla in mo- do profondo e di come aiutare ciascuno ad andare al fondo di quel che vive nell’esperienza di sofferenza, malattia e dolore. La sua sincerità l’ha portata a condividere il suo cammino personale con altri e a usare quanto appreso personalmente per aiutare altri a guarire. Non proviene da una tradizione cristiana, ma ha fatto, per esempio, il camino di Compostela. Ho visto nella sua elabo- razione filosofica, mediata dalla sua grande umanità, un modo per recuperare quei valori che abbiamo perso o stiamo perdendo. Dopo aver gettato via tutto quello che era legato alla Chiesa, all’imponente opera di monaci, religiosi e congregazioni femmi- nili dei secoli scorsi, dove un giovane può recuperare le energie per scegliere e rimanere in una professione così faticosa? L’amore all’uomo, alla propria e altrui umanità non può che avere una sorgente». Ecco — conclude Cecilia Sironi — «penso che Jean Watson possa accompagnare in questo cammino di ricerca tanti infermieri». Catturasti anche me Marcella, santa del mese, raccontata da Sandra Isetta Della celebre corrispondenza tra Girolamo e Marcella sono conservate importanti lettere del primo all’autorevole discepola, talora rac- contata come maestra e con insolita soggezio- ne. Qui è immaginato un testo del padre del- la Chiesa in morte della sua interlocutrice. I o, imbarazzato, evitavo gli sguardi di quelle nobili donne, ma tu ci sa- pesti così fare — opportune importu- ne come dice l’apostolo — da vince- re, con la tua abilità, il mio rite- gno. Sì, proprio io, l’altezzoso Girolamo, mi son trovato a mal partito quando ti ho conosciuto, Marcella. Come ricordi, giunsi a Roma nel 382 e venni nella tua sontuosa domus sull’Aven- tino. Qui, tempo addietro, erano stati tuoi ospiti i vescovi di Alessandria, il grande Atanasio e Pietro, rifugiati a Roma per sfuggire la persecuzione dell’eresia ariana. Dalla viva voce di questi due vescovi tu hai appreso la vita del beato Antonio, al- lora ancora in vita, l’esistenza dei mona- steri di Pacomio nella Tebaide, e la regola delle vergini e delle vedove. Il monachesi- mo era un fenomeno del tutto nuovo: tu non ti sei vergognata di professarlo perché sapevi che era gradito a Cristo. Quel gior- no, ebbi la sorpresa di scoprire come la tua casa fosse trasformata in una sorta di comunità di vergini e vedove, che libera- mente seguivano Dio. Avevi dato vita a un circolo di donne, frequentato da alcune nobili romane — ma anche da uomini, pre- ti e monaci — che si riunivano per leggere e commentare la Bibbia. Tutto mi sarei aspettato, ma non che una donna facesse ruotare intorno a sé una simile cerchia di santità! Alla fine, con il tuo stile intelli- gente e discreto, catturasti anche me. Mi convinsero la serietà della tua prepa- razione — conoscevi perfettamente il greco e l’ebraico — e l’acume delle tue interpre- tazioni bibliche. Allora godevo d’una certa reputazione come esegeta della Scrittura e tu non venivi mai da me senza interrogar- mi su qualche passo scritturistico, mi po- nevi sempre nuove questioni, non per il gusto di discutere ma per imparare pro- prio attraverso le domande. Ho capito in seguito, quando iniziò la nostra corrispon- denza dopo che mi trasferii a Betlemme, che il tuo era un modo per stimolarmi, eri tu a insegnare a me. Quando ti ho conosciuto eri vedova da molto tempo. Discendevi dalla insigne fa- miglia dei Marcelli, ma non voglio ricor- darti per il nobile casato, ti ricorderò per doti ben più grandi, per la povertà e l’umiltà con cui hai manifestato al mondo il valore della vedovanza cristiana. Eri an- cora tanto giovane, di una bellezza fuori dal comune e per giunta di purezza di co- stumi. Come prevedibile, si fecero avanti pretendenti, che tu rifiutasti. Certo, il tuo era un carattere risoluto. Non riuscivi mai a tacere il tuo disappun- to, anche perché ti si leggeva in viso, in quel tuo tenero vezzo di corrugare la fron- te. Anche da Betlemme ti immaginavo corrucciata nell’atto di scuotere la testa, mentre leggevi le mie polemiche, forse un po’ troppo veementi, contro chi mi accu- sava di avere modificato i vangeli! Ti scri- vevo: «Sono certo che mentre leggi queste cose corrughi la fronte in segno di disap- provazione: temi che questa franchezza sia motivo di nuove dispute, è vero? E so che, se fossi qui, mi metteresti le dita sulle lab- bra per farmi chiudere la bocca e non far- mi dire queste cose». Eh sì! Mettevi sog- gezione, Marcella! Occupato com’ero nelle letture delle opere ebraiche, una volta mi sentii in do- vere di giustificarmi con te se il mio latino era un po’ arrugginito, io, che lo conosce- vo bene, se ho tradotto la Scrittura! D’al- tronde, dopo la mia partenza da Roma, se sorgeva qualche disputa a proposito di un passo biblico, si ricorreva al tuo giudizio, tanto tu ti eri impadronita, quasi abbeve- randoti, di tutto quel sapere che ho potu- to accumulare e che ho trasformato quasi in una seconda natura grazie a una inces- sante meditazione. Hai scelto la castità. Più tardi molte al- tre hanno imitato il tuo stile di vita. Della tua amicizia ha beneficiato la venerabile Paola e nella tua stanza è stata allevata Eustochio, gemma delle vergini: è facile giudicare le qualità della maestra, quando tali sono le discepole! Praticavi l’ascesi, ma con equilibrio, una delle tue doti che più ho amato. Di rado uscivi in pubblico e comunque cercavi di evitare le case delle nobili romane, per non ritrovarti nella vita che avevi disprezzato. Le tue mete preferi- te erano le basiliche degli apostoli e dei martiri, dove pregavi in segreto, lo so, lon- tano dalla gente. Avresti voluto donare i tuoi beni ai poveri, che amavi, ma per non scontentare tua madre Albina, lascia- sti che fossero trasferiti ai figli di tuo fra- tello. Eri molto prudente, attenta a quello che i filosofi chiamano tò prépon , ossia la con- venienza delle azioni. Ti ho ancora davan- ti agli occhi: mentre venivi interrogata ri- spondevi in modo da non presentare una tua opinione come personale, ma come mia o di qualcun altro, per professarti di- scepola anche mentre insegnavi. Conosce- vi bene le parole dell’apostolo: «Alle don- ne non permetto d’insegnare», e non vole- vi dare l’impressione di umiliare gli uomi- ni — talvolta anche i sacerdoti — che t’in- terpellavano su punti oscuri e ambigui. Hai trascorso gli ultimi anni nel tuo po- dere, alla periferia di Roma, dove vivevi come in un monastero, o in un deserto, con la giovane vergine Principia. Fino a quando il vincitore assetato di sangue ha invaso il tuo palazzo. Non sei crollata di fronte alle aggressioni, non hai tremato. Ti hanno percossa, Marcella, ti hanno fu- stigata, tu volevi proteggere Principia e il Signore ha esaudito la sua serva, suscitan- do la pietà nell’animo dei barbari. Eravate in salvo, alla basilica dell’apostolo Paolo. Dopo pochi mesi ti sei addormentata nel Signore. Sandra Isetta insegna letteratura cristiana antica all’università di Genova. Autrice di molti studi, tra cui Il mito delle origini in La grande meretrice. Un decalogo di luoghi comuni sulla storia della Chiesa (2013), ha curato di recente L’eleganza delle donne (2010) di Tertulliano e per «donne chiesa mondo» ha scritto santa Clotilde (giugno 2013). Una volta mi sentii in dovere di giustificarmi con te se il mio latino era un po’ arrugginito Io, Girolamo, autore della Vulgata! Francisco de Zurbarán, «Paola con la figlia Eustochio a colloquio con Girolamo» ( XVII secolo)

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