donne chiesa mondo - n. 29 - novembre 2014

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Il centenario delle paoline Da domestiche a editrici di C AMILLA D ACREMA R icorre quest’anno il centenario della fondazione della Pia Società delle Figlie di San Paolo, conosciute come suore paoline. Fondate da don Giacomo Alberione, già fondato- re di una scuola tipografica maschile che divenne poi la Pia So- cietà San Paolo, vocata al carisma dell’apostolato della stampa. Per don Alberione, i mezzi tecnici del progresso inventati dall’uomo potevano diventare lo strumento della sua salvezza: «La macchina diviene pulpito, il locale della compositoria, delle macchine e della propaganda divengono chiesa», mentre la pre- dicazione dei paolini è sempre più legata al mezzo stampa. «Non potrete sapere a quale anima avrete portato un po’ di luce. Il no- stro apostolato è così. Un sacerdote che predica e poi va in con- fessionale sente il frutto della sua predica. Noi non abbiamo que- sta soddisfazione. La soddisfazione ci sarà il giorno del giudizio quando si vedrà l’aiuto che le nostre rappresentazioni hanno da- to alle anime». Se per la congregazione maschile il carisma fu subito chiaro, ciò non valse per la congregazione femminile: le Figlie di San Paolo nacquero da uno sparuto gruppo di ragazze guidate da Angela Boffi, che dal 1915 svolgevano i lavori femminili — ovvero i servizi di pulizia, biancheria e cucina — presso la casa della Pia Società San Paolo: l’apostolato della stampa era solo maschile, all’inizio. Peccato che la congregazione abbia cancellato la me- moria di Angela Maria Boffi, sua prima direttrice, la quale iniziò, a Susa, il lavoro di scrittura e di stampa con grande successo pri- ma di ritirarsi tra le terziarie francescane di Susa per conflitti con don Alberione, che non apprezzava l’iniziativa autonoma femmi- nile. Le Figlie di San Paolo riconoscono oggi Teresa Merlo, mae- stra Tecla, come esempio femminile del carisma paolino: fu supe- riora generale nonché stretta — e obbedientissima — collaboratri- ce di don Alberione. Le paoline iniziarono a occuparsi della stampa nel 1918, quan- do monsignor Giuseppe Castelli, vescovo di Susa, le invitò a tra- sferirsi nella sua città per occuparsi del settimanale diocesano «La Valsusa» e di alcuni fogli religiosi. Alcune di loro, però, ri- masero ad Alba per svolgere i servizi domestici presso la casa maschile e questa occupazione si mantenne lungo la storia dell’istituto. Dapprima interamente dedite ai cosiddetti lavori femminili, poi divise tra maestre stampatrici e “operaie” addette ai servizi domestici — una divisione che, nonostante le indicazio- ni contrarie della Sacra Congregazione dei religiosi, si mantenne nei fatti e al di là delle smentite ufficiali necessarie all’approva- zione pontificia — le suore nel 1943, all’ottenimento dell’approva- zione, erano ancora divise tra l’apostolato stampa e i lavori do- mestici presso la casa dell’istituto maschile. Questa divisione interna sfociò nella separazione delle Pie Di- scepole dalle Figlie di San Paolo, avvenuta nel 1947 sotto forma della creazione di un nuovo istituto: le Pie Discepole del Divin Maestro. Le Pie Discepole, menzionate per la prima volta da don Alberione in un documento del 1926, erano «Per l’adorazio- ne perpetua (notte e giorno) al Divin Maestro nel Santo Taber- nacolo per la stampa». Ed erano le addette alle pulizie presso il ramo maschile. La Sacra Congregazione dei religiosi, che nel 1928 aveva ap- provato le Figlie di San Paolo come istituto unito sotto un mede- simo nome e una medesima superiora generale, aveva anche ap- provato il carisma specifico delle Figlie di San Paolo: «La divul- gazione gratuita e popolare della dottrina cristiana oltreché con la scuola e il catechismo, in modo speciale con la stampa». In realtà le paoline non gestirono mai scuole, ma realizzarono appieno l’apostolato della stampa diventando divulgatrici attivis- sime dapprima in Italia, mediante la capillare e diffusa propa- ganda a domicilio — nell’immaginario popolare è ancora vivo il ricordo delle suore che bussavano alla porta portando sulle spal- le grandi sacchi pieni di libri — ma anche la fondazione e gestio- ne delle Librerie Paoline, aperte nel giro di pochi anni nelle principali città italiane e volte alla diffusione specialmente dei li- bri editi dalla Pia Società San Paolo. Ed è alla creatività delle Fi- glie di San Paolo che si deve il settimanale cattolico più venduto al mondo: «Famiglia Cristiana», che però passò di proprietà alla Pia Società San Paolo appena le sue possibilità di successo di- vennero evidenti. L’attività fervida delle religiose si estese presto a una dimensio- ne internazionale: furono fondate sedi in Argentina e Brasile (1931), Stati Uniti e Francia (1932), Filippine (1938), sempre sotto l’egida della Pia Società San Paolo. Anche qui l’emancipazione dell’apostolato femminile da quello maschile avvenne in una fase successiva, dopo la seconda guerra mondiale: Messico, Cile, Co- lombia e Giappone (1948), Portogallo (1950), India (1951), fino a raggiungere 54 nazioni. Innumerevoli le iniziative: in Italia, il centro Ut Unum Sint, per promuovere l’unità tra i cristiani an- che attraverso corsi teologici per corrispondenza, la fondazione di riviste come «Via», «Volontà» e «Vita» ma anche «Il Giornali- no», la fondazione del Centro Catechistico Paolino e, dal 1953, i primi cineforum, mentre risale al 1955 la fondazione del settima- nale femminile «Così». Alcune iniziative nacquero prima in altri Paesi: l’apostolato radiofonico iniziò in Brasile nel 1962, mentre la produzione cinematografica fu inaugurata da Giappone, Stati Uniti e Brasile. Quel pugno di legumi Silvia, santa del mese, raccontata da Silvia Gusmano E ra una festa quotidiana quel piccolo tonfo — il rumore sordo dell’argento posato sulla nuda pietra — che annunciava il pa- sto di mezzogiorno e un po’ di sollievo dalle pene della miseria. Lei, Sil- via, non immaginava che l’abitudine di portare un pugno di legumi al figlio per- ché non saltasse il pasto, si sarebbe tra- sformata in poco tempo in un gesto d’amore allargato e atteso da molti. E ne gioiva anche se di tanto era aumentato il suo carico giornaliero: non più solo una scodella d’argento, ma un vassoio carico di primizie dell’orto, destinato ai poveri ospitati alla tavola di Gregorio e a tutti gli affamati che lei incontrava lungo la strada da Cella Nova, la sua casa sull’Aventino Minore, al monastero di Sant’Andrea al Celio. Era qui infatti che il suo primogenito aveva deciso, al culmine della carriera po- litica, di ritirarsi e di iniziare, da monaco, una vita di dedizione a Dio, con una pic- cola comunità che fosse punto di sostegno per i fratelli più deboli. Silvia, ormai ve- dova, non aveva esitato ad assecondare il suo progetto, a lasciargli l’amata casa co- niugale e ad aiutarlo come fanno le madri: provvedendo prima di tutto ai bisogni pratici. A oltre cinquant’anni, si era trasfe- rita in una dimora più umile, divenuta su- bito familiare, grazie alla vicinanza di al- cuni monaci palestinesi, seguaci di Saba. La loro fede gioiosa e loro sventure — la fuga da Gerusalemme e il recente arrivo in una città difficile come Roma — li avevano resi cari al suo cuore, altri figli da seguire con amore e discrezione. Così, ogni mattina, dopo le preghiere con i sabaiti, quando il sole era alto nel cielo, usciva da Cella Nova con il pesante vassoio tra le braccia e costeggiava il Cir- co Massimo, diretta al Clivo di Scauro, la ripida salita che l’avrebbe portata alla sua vecchia abitazione. Quella breve passeg- giata, sempre ricca di incontri e di sorrisi, le ristorava l’anima. Tutti la conoscevano, la signora venuta dalla lontana Sicilia, che aveva sposato il senatore Gordiano, tanto imponente nell’aspetto, quanto generoso e attento agli altri. Chi poteva l’aiutava, caricando il suo vassoio per i poveri. Chi aveva biso- gno la fermava e chiedeva: un po’ di cibo, una preghiera, un abbraccio. Molti la se- guivano al monastero desiderosi di ascol- tare le parole di quel suo figlio speciale. Sorrideva Silvia, sentendo Gregorio che spiegava il Vangelo ai visitatori e le sem- brava a tratti di risentire se stessa tanti an- ni prima, madre in ginocchio accanto al letto dei piccoli: ogni sera un racconto av- venturoso, ogni sera scoperte, fiato sospe- so e colpi di scena in quelle storie dove l’eroe era sempre Gesù e il lieto fine non mancava mai. Perché amassero Gesù come lei lo amava. Gordiano a volte fingeva di rimproverarla. Le parabole, diceva, non sono favolette per intrattenere i bambini. Lei sorrideva. Lui così serio, così concen- trato nel suo fervore religioso, l’aveva scel- ta e amata per questo: Silvia era lieve, leg- gera e fantasiosa, anche quando portava carichi pesanti, anche in mezzo alle tem- peste. Tempeste violente, come il sacco di Roma a opera dei goti, l’invasione dei longobardi nelle terre d’Italia e, da ulti- mo, la peste, una sciagura, pensava Silvia con sollievo, che Gordiano non aveva fat- to in tempo a vivere. I suoi figli tuttavia sì e lei temeva per Gregorio che, a differenza del fratello le assomigliava, esile nel fisico e cagionevole di salute. Lui, come ogni figlio adulto sino a quel tempo e per tutti i tempi a venire, prote- stava contro certe premure ritenute ecces- sive, contro quel cibo quotidiano che te- meva le costasse troppa fatica e che invece per Silvia rappresentava un felice epilogo alle passate cure materne. Protestava Gre- gorio, soprattutto contro il vassoio d’ar- gento, senza capire che non di frivolezza si trattava ma di segno d’amore, laddove il buono e il bello, quando è possibile, van- no sempre a braccetto. Silvia non lo ascol- tava e il giorno che Gregorio donò per elemosina il vassoio a un povero giunto troppo tardi alla sua mensa, ne prese uno più grande. Sapeva di non sbagliare, ma non immaginava che da lì a qualche anno quel povero sarebbe tornato a bussare alla porta di Gregorio nelle vesti alate di un angelo per ringraziarlo ancora del prezio- so dono e rivelare l’identità che sempre si cela dietro il prossimo accolto e sfamato. Né immaginava — ma avrebbe fatto in tempo a vederlo — che i suoi semplici in- segnamenti di vita avrebbero portato Gre- gorio a diventar Magno, Papa amatissimo in terra e benedetto in cielo. Non immaginava infine Silvia che i luo- ghi del suo passaggio in questo mondo avrebbero continuato a generare preziosi frutti di carità. I frutti della grande abba- zia di San Saba che nelle fondamenta conserva ancora la seconda dimora della santa e che, oltre a tanto altro, ospita ogni notte decine di poveri senza casa. E i frut- ti cresciuti nel giardino al Celio, dove quasi certamente santa Silvia riposa. Qui oggi si muovono veloci e leggere le missionarie della Carità, felici di mostrare ai fedeli la stanza dove madre Teresa tra- scorreva i suoi soggiorni romani, trovando ogni volta il tempo di dar seguito alla tra- dizione iniziata con Silvia: offrire il pasto ai poveri, usando quella stessa tavola di pietra che fu di Gregorio e di quanti, con l’aiuto della madre, accolse come fratelli. Laureata in letteratura italiana e giornalista professionista, Silvia Gusmano (1979) — dopo aver collaborato con Radio Vaticana e «Ombre e Luci» — ha lavorato per diverso tempo nell’ambito degli uffici stampa. Fondatrice e curatrice del sito madamaricetta.it , collabora con «L’Osservatore Romano». Ritratto di santa Silvia ( XVII secolo) Dopo secoli i luoghi della sua vita continuano a generare frutti Oggi la grande abbazia di San Saba ospita ogni notte decine di poveri Anna Maria Parenzan con alcune consorelle filippine

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