donne chiesa mondo - n. 23 - maggio 2014

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2014 numero 23 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo A motivo degli angeli Perché le donne si dovevano coprire la testa in chiesa di S ANDRA I SETTA F orse in risposta al comportamento troppo libero dei fedeli durante le assemblee, Paolo indirizza alla gio- vane e vivace comunità di Corinto la celebre esortazione ( 1 Corinzi 11, 1-16) a non abbandonare i suoi insegnamenti: «Conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse». Quando il canone delle Scritture deve ancora formarsi, le prime normative cri- stiane, in materia di fede, di liturgia e di disci- plina, sono infatti affidate alla “tradizione”, seguita, dopo Nicea, dalle formulazioni conci- liari. Nel seguito della lettera, l’apostolo ri- chiama alcuni capisaldi della teologia della coppia: la questione del velo muliebre inizia da qui. Alle origini c’è dunque un problema di di- sciplina, come conferma la chiusura del brano: «Se poi qualcuno ha il gusto della contesta- zione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio». Paolo cerca di ri- condurre all’ordine una comunità eterogenea e problematica come quella di Corinto, in situa- zioni di tensione e di inosservanze che rendo- no conto delle sue severe istruzioni, con cui sembra collocare la donna in posizione subor- dinata all’uomo sulla base di una duplice ge- rarchia, di tipo cronologico («Non l’uomo de- riva dalla donna, ma la donna dall’uomo») e ontologico («Né l’uomo fu creato per la don- na, ma la donna per l’uomo»). E «per questo deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli», cioè il velo. La base teologica dell’enunciato è molto più complessa, coinvolge anche la pratica della profezia e non è esente da retaggi di purità ri- tuale e religiosa, che confluirono nelle usanze delle prime comunità cristiane. Paolo d’altron- de è uomo di tradizione giudaica, educato nelle scuole rabbiniche, pur essendo nato in ambiente ellenistico. Ma qui interessa la risposta esegetica di al- cuni padri della Chiesa, che hanno calcato sul tasto della subordinazione femminile, peraltro confacente all’antica società giudaico-ellenisti- ca. Il non semplice enunciato «a causa degli angeli» è spiegato dai più intransigenti con il timore di risvegliare le brame sessuali degli angeli che sarebbero caduti per essersi inna- morati delle donne, secondo il racconto di Ge- nesi 6, 4 poi sviluppato in testi apocrifi. Ulte- riore colpa da imputare alla responsabile della caduta dell’uomo, «immagine e gloria di Dio» a differenza della donna solo «gloria dell’uo- mo» ( 1 Corinzi 11, 7). Il velo della donna, nelle parole dei padri della Chiesa, diviene quindi il «fardello della sua costituzionale sottomissione» o il suo «giogo» o il «simbolo di soggezione». Le donne cristiane pertanto «dovrebbero coprire non solo il capo ma tutta la faccia», imitando «quelle d’Arabia» che a malapena vedono con un solo occhio attraverso il velo. Nell’antichità non tutte le Chiese seguono la medesima tradizione, per cui sorge il pro- blema di seguire la consuetudine più confa- cente con le norme insegnate da Dio. Per la soluzione della questione del velo, Tertulliano si appella all’autorità delle Chiese orientali: i corinzi, dopo la contestazione, hanno recepito e trasmesso l’insegnamento di Paolo, quindi le altre Chiese devono adeguarsi alla norma li- turgica paolina. Ben presto si impone opusco- lo catechetico di Tertulliano Il velo delle vergini che, pur in odore di montanismo, diviene un manuale di riferimento per le future istituzioni monastiche femminili, pur stabilendo, nono- stante il titolo, la norma del velo nella pre- ghiera non solo per le vergini, ma per tutte le donne, comprese le coniugate («donne di una pudicizia di second’ordine»). L’esigenza di conferire alla norma l’autore- volezza della Chiesa istituzionale trapela nel tardo Liber pontificalis , in cui si attribuisce a Papa Lino, su ordine proprio di san Pietro suo predecessore, la conferma dell’obbligo per le donne di partecipare alla celebrazione euca- ristica col capo coperto. È certo che l’insegnamento paolino, passato al vaglio della tradizione, è riformulato nel concilio di Gangra (324 circa), in cui il velo è definito «memoriale di sottomissione», e giun- ge con impronta attenuata al Codex iuris cano- nici del 1917 che ancora distingue tra gli uomi- ni a testa nuda e le donne con il velo e in ab- bigliamento di modestia. Dopo la riforma conciliare non sussistono più specifiche indicazioni. La consuetudine, nel rispetto della tradizione, sembra superata nella Gaudium et spes («La Chiesa non è lega- ta in modo esclusivo e indissolubile […] a nessuna consuetudine antica o recente»), che tra le forme di discriminazione condanna al primo posto quelle «in ragione del sesso», ri- conoscendo che i diritti fondamentali della persona «non sono ancora e dappertutto ga- rantiti pienamente (…) quando si nega alla donna la facoltà di scegliere liberamente il marito e di abbracciare un determinato stato di vita, oppure di accedere a un’educazione e a una cultura pari a quelle che si ammettono per l’uomo». Non c’è più spazio per quel se- gno di sottomissione, troppo frainteso, o stru- mentalizzato, nel suo significato originario. La domenica, quando ero bambina, se di- menticavo il velo a casa, per timore non osavo entrare in chiesa e perdevo la messa, aggiun- gendo peccato a peccato. Oggi quel velo lo indosserei, per rispetto. di A NNA F OA «C opriti la testa perché la presenza divina è sempre al di sopra di essa» prescrivono i testi ebraici. Per gli uomini, la prescrizione di andare con il capo coperto è mol- to più rigida e vincolante di quan- to non lo sia per le donne. Gli ebrei osservanti portano un copricapo a forma di zuccotto, la kippah . Questa è prescritta per tutti gli uomini, sposati o non sposati, e la portano anche i bam- bini molto piccoli. È considerata obbligatoria in sinagoga, quando si studiano i testi sacri e quando si mangia, ma gli ortodossi la por- tano sempre. Non è una pre- scrizione di origine biblica, anche se è già presente nei testi posterio- ri, la Mishnah e il Talmud babilo- nese. Assai diverso, come motivazio- ne, è l’obbligo per le donne di co- prirsi il capo. Infatti, se per gli uomini è un segno di rispetto per la presenza divina, per le donne è un segno di pudore, di modestia. Molte donne ebree girano libera- mente a capo scoperto, e non si coprono il capo neanche per pre- gare, com’è d’uso in molte co- munità, per esempio in quelle ita- liane. A farlo sono solo le donne or- todosse e ultraortodosse. Di solito portano un fazzoletto annodato dietro la nuca, detto in ebraico ti- chel o mitpachat , oppure dei berretti o anche dei vezzosi cap- pellini. In altri casi portano invece, so- pra i capelli tagliati cortissimi, delle parrucche, in genere accon- ciate in maniera antiquata e tali da rivelare immediatamente che di parrucche e non di capelli veri si tratta. Ne abbiamo letto, fra l’al- tro, nei racconti e nei romanzi di Singer e in tutta la narrativa che ci viene dal mondo dello shtetl , il villaggio ebraico dell’Europa orientale dove tanti ebrei vivevano prima della Shoah. Se ne vedono molte ai nostri tempi nelle comu- nità ultraortodosse americane o israeliane, a Brooklyn o a Meah Shearim. La norma esige che a coprire il capo debbano essere so- lo le donne sposate, non le ragaz- ze ancora da sposare. A partire dal giorno del matrimonio, il capo scoperto può essere consentito so- lo in famiglia o nell’intimità con il marito. All’esterno, i capelli non devono essere mai mostrati. Nessuna proibizione o nessuna usanza ha invece mai impedito, nel mondo ebraico, di mostrare il volto, sempre rimasto privo di ogni velo, in tutti i momenti stori- ci. Solo recentemente un gruppo di donne ultraortodosse ha tenta- to, senza riuscirci, di introdurre il burqa in Israele. Come per la kippah , il capo co- perto delle donne non è una pre- scrizione biblica, anche se la que- stione resta controversa, ma sem- bra far parte invece di quell’ampia normativa che la Mishnah e il Tal- mud hanno elaborato partendo dal testo biblico fino a erigere quel «muro intorno alla Torah» che nelle intenzioni dei rabbini doveva servire a preservare l’iden- tità ebraica dalle persecuzioni e dalle lusinghe dell’integrazione. Nel caso del capo femminile coperto, il Talmud prende spunto da un brano biblico ( Numeri 5, 18), in cui i sacerdoti sciolgono i capelli di una donna in segno di umiliazione e penitenza, per de- durne che le donne portavano normalmente il capo coperto. Secondo altre interpretazioni, la necessità di coprirsi il capo appar- tiene più che a vere e proprie nor- me scritte, a quell’insieme di pre- scrizioni che vanno sotto il nome di costume, in ebraico minhag , e che obbediscono all’esigenza di mantenere la modestia, la tzniut . Il concetto di tzniut è basilare nel mondo ebraico, e riguarda tan- to il comportamento che il modo di vestirsi e di acconciarsi. In ori- gine, era un termine che si applica- va tanto agli uomini che alle don- ne, a implicare modestia e umiltà. Poi è venuto a designare in parti- colare un atteggiamento e un mo- do di vestirsi tale, da parte delle donne, da scoraggiare lo sguardo e il desiderio degli uomini. Il carattere intensamente erotico dei capelli è spesso sottolineato nei testi, con frequenti riferimenti al Cantico dei Cantici , e grande importanza è data, nel mondo or- todosso, anche all’obbligo di por- tare le braccia coperte. La tzniut varia da situazione a situazione, da luogo a luogo, e appartiene all’uso di ciascuna comunità. Così in alcune comunità orientali, in particolare nello Yemen, le donne usavano coprirsi il capo con un vero e proprio velo, sotto l’in- fluenza musulmana dell’esterno, sempre lasciando però scoperto il volto. di R ITANNA A RMENI A mira siede all’aperto in un bar del centro di Milano. Jeans, ma- glietta, trucco agli occhi, scherza e ride con le sue amiche prima di tuffarsi nelle vie dello shopping. Una scena normale di un sabato pomeriggio di primavera, salvo per un particolare che an- cora stupisce qualche passante: Amira ha la testa coperta da un velo colorato, un azzurro intenso e vivace. Interrogata risponde che quel velo lo ha scelto. Sua madre, che era ar- rivata molti anni prima da Algeri, non lo aveva mai messo e si era meravigliata della decisione della figlia. A scuola qualcuno l’aveva guardata male, ma lei non aveva desi- stito. «Il velo racconta chi sono, in che cosa credo, da dove vengo. E di tutto questo non mi vergogno» dice. «Del resto — aggiunge sorridente — non trova che mi stia bene?». Qualche mese fa in Egitto al telegiornale di mezzogiorno la conduttrice è apparsa per- fettamente truccata, con una elegante giacca nera e una hijab color crema avvolta attorno alla testa. Era la prima volta che una giorna- lista velata appariva alla televisione pubblica e la cosa ha fatto scalpore. «Il velo non con- ta, finalmente anche qui il criterio non è ciò che indossi, ma le capacità» ha risposto a chi l’ha interrogata stupito. In realtà la sua immagine aveva giusta- mente colpito: molte donne lavoravano in te- levisione con il capo coperto, ma nessuna di loro fino ad allora era mai apparsa in video. Il velo non era accettato nell’immagine uffi- ciale di un Egitto che ci teneva ad affermare uno Stato e un governo laico anche se in molte zone del Paese e nelle stesse periferie del Cairo la tradizione era forte e seguita. Il velo lo ritroviamo ancora in Tunisia. Mentre fino a qualche anno era indossato dalle ragazze delle campagne e dei paesi, adesso è sempre più frequente nelle grandi città e nelle università dove proprio le giova- ni donne moderne, emancipate, desiderose di lavorare, preferiscono apparire in pubblico con la testa coperta. Il fenomeno, nato già da qualche anno, ha sollevato non pochi pro- blemi. Mentre alcuni, per esempio l’Association tunisienne des femmes démocratiques, lo avevano giudicato «inquietante», la Lega dei diritti umani aveva denunciato l’aggressione alle donne velate da parte della polizia. Co- munque negli ultimi tempi si è così diffuso che il Governo ha ritenuto opportuno allen- tare le restrizioni previste dalla legge. Se guardiamo a ciò che è avvenuto in que- sti ultimi anni nel mondo islamico possiamo parlare di ritorno — alcuni parlano addirittu- ra di rivoluzione — del velo. Non che la tra- dizione religiosa e culturale di coprirsi il ca- po fosse mai scomparsa. Ci sono Paesi, come Arabia, Afghanistan o Iran, che non l’hanno mai abbandonata, in cui, anzi, la copertura non solo del capo ma anche del corpo è ob- bligatoria. Paesi in cui tutte indossano la ni- qab o il burqa; in cui una donna non ade- guatamente coperta è pesantemente persegui- tata dalle leggi e dalla riprovazione sociale. Il ritorno di cui parliamo è piuttosto quel- lo della hijab, del foulard o del velo nei Paesi dove il loro uso era stato messo da parte; parliamo della loro riapparizione nelle città e negli ambienti che si usano definire moderni, colti ed evoluti, nei Paesi in cui la somiglian- za con l’occidente era, fino a qualche tempo fa, un valore sostenuto e propugnato dai go- verni. Il velo non è più relegato nelle campagne fra le donne che stanno a casa o lavorano i campi. Anche quelle che lavorano e studiano, le donne che occupano, sia pure in poche, posti di prestigio, anche alcune di quelle che si dichiarano femministe, hanno ripreso a in- dossarlo. E con loro lo portano le emigrate che vivono in Paesi in cui cultura e tradizioni dovrebbero spingere a una veloce omologa- zione e, persino, le loro figlie nate dopo l’emigrazione. La domanda che oggi ci si pone — e che molti si pongono — è se questo ritorno sia frutto di una libera scelta delle donne o se invece sia imposto dai governi e dagli Stati in cui si fanno sentire con forza movimenti tradizionalisti o addirittura integralisti. Un quesito importante che ne sottintende altri: se è una scelta delle donne, che tipo di scelta è? Un semplice ritorno alla tradizione o l’af- fermazione di un modo diverso di manifesta- re la propria fede? Se è una scelta imposta dai governi, deve essere contrastata? E come si devono comportare i Paesi occidentali che vedono nelle loro strade donne velate o ma- gari completamente coperte dal burqa e dalla niqab? Devono accettare l’uso del velo o, considerandolo manifestazione di subordina- zione e di schiavitù femminile, devono con- trastarlo? Come si sa, il dibattito nei Paesi occiden- tali su questi temi è stato ampio e anche aspro. Decine di esperti hanno studiato il fe- nomeno. Renata Pepicelli, studiosa del mon- do islamico contemporaneo, nel suo Il velo nell’islam (Carocci 2012) ci dà la più impor- tante delle informazioni: il ritorno al velo co- mincia negli anni Settanta e coincide con una straordinaria ripresa della religiosità. Le donne si sono coperte la testa mentre si co- struivano più moschee e queste venivano maggiormente frequentate. Il fenomeno ha costituito una sorpresa. Il Novecento era agli occhi dei più il tempo della secolarizzazione e del ridimensionamento delle religioni. «L’uso del termine rivoluzione per parlare della rinascita del velo — spiega Pepicelli — è giustificato dal fatto che si è trattato di un fenomeno che ha colto di sorpresa molti os- servatori, sia laici che religiosi, perché è ini- ziato verso la fine di un secolo, il Novecento, che, come si è visto, è stato segnato da una tendenza di segno opposto». Secondo Pepi- celli l’inversione di tendenza è stata ed è troppo vasta per coincidere con la ripresa dell’“Islam politico”: è indicativa di qualcosa di più importante e di più profondo. Il velo è così diventato il simbolo del mondo islamico. Ma anche delle difficoltà e delle contraddizioni nei rapporti con l’occi- dente (c’è chi ha parlato di scontro di civil- tà). «Mai — scrive Pepicelli — un indumento è stato così tanto discusso». E non a caso. Attraverso la discussione sulla hijab, infatti, si affrontano alcuni dei problemi più impor- tanti del ventunesimo secolo: la rinascita dell’islam, i suoi rapporti con l’occidente, la sua concezione della donna, l’idea di cambia- mento. Nello stesso tempo, il velo è diventa- to una sorta di barometro dei Paesi in cui viene indossato: il colore, il modo di metter- lo, la sua negazione o la convinta accettazio- ne dicono su quei Paesi di più di tanti di- scorsi. Molte le studiose che scorgono nel ritorno al velo il segno di un’adesione ad alcuni ideali comunitari, di una ripresa spirituale, che si è nutrita anche dell’opposizione all’oc- cidente e alla mercificazione del corpo fem- minile. Altre notano come la hijab venga vis- suta da molte donne come un deterrente al desiderio maschile, se non addirittura una protezione dalla violenza a cui spesso sono sottoposte. Per altre ancora nel velo c’è la manifestazione di una fede femminile auto- noma che si riallaccia al rapporto con Dio e alla sura XXIV del Corano: «E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro orna- menti ad altri che ai loro mariti, ai loro pa- dri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai fi- gli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le par- ti nascoste delle donne». Infine, in molti no- tano che oggi esso non assume solo il signifi- cato di un atto di fede individuale, ma indica il ritorno della religione nella sfera pubblica anche in Paesi in cui si era affermata una se- parazione. Non è quindi un ritorno indietro, ma esattamente l’opposto. Naturalmente la questione rimane contro- versa. Non sono pochi e poche coloro che vedono nel ritorno al velo l’affermazione di un conservatorismo di molti Paesi di religio- ne islamica e di un nuovo autoritarismo dei loro governi che, spaventati dalla diffusione dei modelli e delle libertà della civiltà occi- dentale, tentano in questo modo di mantene- re un dominio sulla popolazione femminile. Il ritorno al velo avrebbe ragioni molto terre- ne che hanno poco a che fare con la religio- ne e con la fede. E poi l’11 settembre ha in- fluenzato il modo di leggere questo fenome- no. In nome della riaffermazione della laicità in Francia si è approvata una legge che, ben- ché ufficialmente affermi il divieto di ostenta- zione di tutti i segni religiosi, nella realtà è rivolta soprattutto contro il velo. Per altri Paesi il problema non si è posto per la hijab, ma per il burqa e per la niqab che, coprendo il corpo e il viso della donna, pongono — a parere di molti — problemi di sicurezza. In Italia la legge è stata tentata, ma è stata bloc- cata. L’Europa è divisa tra Paesi che non am- mettono alcuna copertura integrale del capo come Francia, Belgio e, in parte, Germania (la scelta spetta ai singoli Länder) e altri che non hanno affrontato il problema per via le- gislativa. Gli Stati Uniti non hanno mai vie- tato l’uso del velo integrale neppure dopo l’11 settembre. Il romanzo Non dirmi che hai paura Ha la corsa nel sangue, Samia. Insieme con l’amico Ali, confidente e primo allenatore, corre per le strade di Mogadiscio. Si allungano i suoi muscoli e crescono i suoi sogni, ma anche la guerra civile e l’irrigidimento politico della Somalia. Le gambe magrissime e veloci di Samia continuano a correre, mentre l’odore della polvere da sparo diventa presenza quotidiana in una città travolta dall’odio. Vuole correre per sé, per le donne somale, per i suoi genitori (bellissima la figura del padre, che rischia, sa di rischiare e cadrà perché convinto che le sue figlie debbano scegliere il loro destino). Si allena di notte, Samia, si allena senza scarpe e senza mezzi: riuscirà così a farsi notare, fino a volare alle Olimpiadi di Pechino, pur senza vincere. Samia è sicura della sua meta: Londra 2012. Ma mentre la data si avvicina, tutto si sgretola attorno a lei: corre ormai chiusa nel burqa, il padre viene assassinato, la sorella fugge in Europa e Ali diventa un terrorista. Samia, che aveva giurato che mai avrebbe abbandonato il suo Paese, capitola: prima ad Addis Abeba da clandestina, poi il terribile viaggio dei migranti verso l’Europa, passando per Sudan, Sahara e Libia. Umiliazioni, violenze, stenti, terrore: la ragazza — la cui storia è raccontata da Giuseppe Catozzella ( Non dirmi che hai paura , Feltrinelli, 2014) — si concentra su dettagli e ricordi per non impazzire. Ma alla fine cederà, richiamata dal canto delle sirene del mare vicino a Lampedusa. ( @GiuliGaleotti ) Il film Millefeuille Zaineb e Aicha — protagoniste di Millefeuille (2012) di Nouri Bouzid — sono due giovani donne, amiche e cugine, che vivono nella Tunisia della rivoluzione. Entrambe vogliono la libertà e l’indipendenza, ma Aicha porta il velo, Zeineb invece lo rifiuta. Entrambe si scontrano con una società che non accetta la loro scelta. Aicha, che per mantenere le sorelle e il nonno, lavora in una pasticceria, subisce ogni genere di pressioni perché si liberi del suo foulard che lei non indossa per tradizionalismo, ma come prova di fede e per proteggersi dagli uomini che la insidiano. Se vuole una promozione sul lavoro — le dicono — deve scoprire i capelli. Zeineb, che fa la cameriera nella stessa pasticceria in cui lavora Aicha, viene prima pregata poi obbligata dal fidanzato e da una famiglia, desiderosa di un buon matrimonio, a indossare il velo e a rinunciare al lavoro. Le due giovani rimangono solidali e complici e iniziano una lotta personale per la propria libertà che si inserisce, ma non coincide completamente, con la rivoluzione tunisina. L’affermazione della loro differenza esige un impegno in più. ( @ritannaarmeni ) G EDDA , CITTÀ DELLE DONNE IN VIOLA È dalle abitanti di Gedda con la loro abaya viola, invece della tradizionale nera, che si sta irradiando un percorso di affermazione femminile in Arabia Saudita, Paese complicato per le donne, nonostante il re Abdullah stia, piano piano, limitando le restrizioni che le riguardano. Qualche settimana fa, proprio nella città sul Mar Rosso si è tenuta una conferenza sull’economia nel mondo arabo che ha visto tante donne mescolarsi agli uomini, altro passo verso una riforma delle libertà sociali e delle opportunità di lavoro che potrebbe riflettersi sull’intero mondo arabo. «Vi è un consenso quasi universale — ha detto Fahad Nazer, una analista politica che vive a Vienna, dopo aver lavorato all’ambasciata saudita di Washington — sul fatto che la vicinanza di Gedda alla Mecca e al Mar Rosso la esponga a molteplici influenze culturali», rendendola «più cosmopolita rispetto ad altre aree del regno». I fatti sono lì a dimostrarlo: la città è stata la prima ad autorizzare le donne a lavorare in negozi di vendita al dettaglio e nei centri commerciali, dove vendono profumi e lingerie in negozi per sole famiglie. E sempre a Gedda, in marzo la Banca commerciale nazionale ha nominato Sarah Al-Suhaimi direttore esecutivo della sezione dedicata agli investimenti; Somayya Jabarti, in febbraio, è diventata la prima direttrice di un giornale nella storia saudita, la «Saudi Gazette», mentre nell’ottobre scorso Bayan Zahran è stata la prima donna a essere abilitata alla pratica legale. L AS P ATRONAS E GLI IMMIGRATI Da quindici anni un gruppo di contadine messicane dà da mangiare agli immigrati aggrappati ai treni merci che passano dinnanzi ai loro campi. Ogni volta che ne transita uno, Las Patronas — questo il nome del gruppo che deriva da quello della frazione La Patrona, la Vergine Guadalupana, del comune di Amatlán de los Reyes, in Veracruz — lanciano sacchi di plastica con viveri e bottiglie d’acqua agli immigrati, che molto spesso, svenuti per la disidratazione, vengono travolti e mutilati dai vagoni. Il gesto di queste donne — che devono combattere non solo l’opposizione dei trafficanti, ma anche quella delle loro famiglie e dei loro vicini — rappresenta il loro modo concreto di mettere in pratica la fede cattolica e di servire Gesù nei fratelli. A loro è dedicato un incontro alla Pontificia università gregoriana a Roma il 13 maggio 2014. Fortunatamente, però, Las Patronas — che nel 2013 hanno ricevuto il Premio Nazionale Messicano per i Diritti Umani — non sono le sole: lungo il percorso di questo treno, soprannominato La Bestia, è nata infatti una rete di centri di assistenza, fondati da religiosi, sacerdoti diocesani, laici e laiche, per aiutare gli immigrati, per lo più honduregni, adolescenti sfiniti dal viaggio, donne stuprate, adulti accoltellati dai trafficanti o mutilati dal treno. Sono circa 400.000 le persone che ogni anno transitano per il Messico alla ricerca di un lavoro o per ricongiungersi con i familiari negli Stati Uniti o nel nord del Paese. Tra questi, più di 20.000 vengono sequestrati dai trafficanti, torturati e stuprati perché le mafie vogliono obbligare tutti a usare i loro “servizi”, invece di viaggiare “gratis” sui treni merci. Il Messico, che continua a concepirsi come Paese d’emigrazione, fatica ad accogliere l’immigrato. Per fortuna, però, dal 2011 non è più reato l’assistenza umanitaria ai clandestini. B IANCA , CHEERLEADER IN SEDIA A RUOTE Completino bianco e azzurro, fiocco in testa e pon pon coordinati: così scendono in campo le cheerleader dei Warriors Bologna, squadra italiana di football americano di serie A. Tra loro — racconta Ambra Notari sul mensile «Superabile» — anche Bianca Maria Cocchi, ventitreenne affetta da una rara forma di disautonomia familiare, una malattia rara (caratterizzata da disfunzioni nel sistema nervoso autonomo) che impedisce di avvertire il dolore e il calore. Il cheerleading è uno sport, riconosciuto dal Coni, che richiede una grande preparazione: come le compagne, Bianca ha fatto prima esperienza con le più piccole e ora è passata alle senior. Lei è al centro delle coreografie, a cui partecipa seduta sulla sua sedia a ruote. «È molto meglio essere in una squadra: puoi condividere tutto, nel bene e nel male. Soprattutto, è una questione di responsabilità: se sbagli tu, ne risentono tutti. La mia filosofia? Non giudicare mai. Se hai una testa usala: perché in qualsiasi condizione ti possa trovare, sei uguale agli altri» conclude la ragazza che lavora in una mediateca. L A SCIENZIATA ATEA CHE HA ACCERTATO IL MIRACOLO «La Chiesa voleva prove scientifiche per una guarigione e io gliele ho date. Non credo in Dio, ma non posso escludere che sia stato Lui»: così ha detto, nel corso dell’intervista al settimanale «Tempi», la sessantaquattrenne canadese Jacalyn Duffin, ematologa atea che ha avuto un ruolo decisivo nella canonizzazione di Marie-Marguerite d’Youville, primo santo del Paese nordamericano. «Secondo la scienza una remissione dalla leucemia è possibile, due no. Invece, dopo otto anni, la paziente era ancora viva»: poteva trattarsi solo di un miracolo. «Il Vaticano quindi aveva chiesto il suo consulto per la canonizzazione?» le chiede Leone Grotti. «Niente affatto. Gli esperti del Vaticano avevano già rifiutato il caso: per loro non si poteva parlare di miracolo perché, leggendo i vetrini, non avevano riscontrato la prima remissione ma solo la seconda. I postulanti in Canada si sono infuriati, hanno fatto appello e raggiunto questo accordo: affidare i vetrini a un testimone cieco, cioè io. Una volta consegnati i miei risultati sono andata in Vaticano al processo a testimoniare con una pila di documenti e di prove. Per me era una questione di principio, di scienza». E pur affermando di essere rimasta atea, Duffin conclude: «La medicina è colpevole di ignorare la Chiesa e di avere eretto un muro artificiale per dividerla dalla scienza. La mia identità è cambiata, sono più umile e sono migliore anche nel lavoro: ho imparato ad ascoltare di più i miei pazienti, ci sono cose che mi dicono che prima non ascoltavo perché pensavo solo alla malattia e a nient’altro». L A R IVISTA DELLA B ADANTE Si nasce sempre meno, la famiglia è sempre più rarefatta, l’età media si allunga, la crisi incombe, il servizio sanitario nazionale taglia sempre più: è per l’insieme di questi elementi che la figura della badante sta crescendo di importanza nelle società occidentali. In Italia, ad esempio, sono oggi 1 milione e 655 mila, ma si calcola che nel 2030 saranno 2 milioni e 155 mila, mentre sono oltre 12 milioni gli ultrasessantacinquenni, un milione dei quali malati di Alzheimer, 250 mila di Parkinson e due milioni non autosufficienti. Per cercare di capire e affrontare il fenomeno, è uscita «La Rivista della Badante», il primo free press bimestrale italiano dedicato alle badanti e alle famiglie che necessitano del loro aiuto. Con il contributo di geriatri, psicologi, nutrizionisti, avvocati e commercialisti, si parla di psicologia, medicina, alimentazione, fisioterapia, economia domestica, fisco e previdenza. L’intento è quello di sostenere sia le famiglie nel momento in cui decidono di ricorrere a una badante, trovandosi ad affrontare la difficile scelta di inserire una persona “estranea” nella casa di un congiunto non più autosufficiente, sia di fornire una guida per le badanti stesse. I problemi sono tanti: dalla selezione della persona più adatta, al rispetto di chi si assume. D ONNE DI PACE A G ERUSALEMME Raccontare la propria esperienza di dialogo e riconciliazione: questo il senso dell’incontro intitolato «Women of Faith for Peace» che si è svolto qualche settimana fa a Gerusalemme. Otto donne leader di cinque religioni della Terra santa hanno infatti testimoniato il proprio impegno in direzione della pace. Tra le altre, sono intervenute Adina Bar-Shalom, ebrea ortodossa; Faten Zenaty, musulmana, Nuha Farran, cristiana; Suha Ibrahim, impegnata per le donne beduine; Basema Halabi, drusa; Thehilabila Barshalom, ebrea; Dganit Fachima, haredi. «Il dialogo non è un’utopia, ma una realtà»: questo il filo conduttore dello scambio. Al termine della tavola rotonda, è stato presentato Aurora Network — nato dall’incontro tra la comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante e Lia G. Beltrami — che, nella città santa, si impegna in particolare per il dialogo interreligioso partendo proprio dalle donne. Il saggio Visages de Marie A volte è un pesante ma caldo drappo marrone (come in un’icona russa dedicata alla Vergine della tenerezza), a volte un succinto velo quasi trasparente che le illumina il volto (Sandro Botticelli). A volte diventa un mantello tanto lungo da cingerla completamente dal capo ai piedi, un mantello che varia dal rosso vivo (Rogier van der Weyden) al rosa perla (Beato Angelico), dal bianco candido (miniatura dell’ XI secolo) al classico azzurro (Simone Martini). A volte, si estende ancora a incorniciare anche il figlio neonato (Melchiorre Broederlam) o il corpo di Gesù deposto dalla croce (Jean Fouquet). Ma il velo di Maria si rivela, per l’eternità, tessuto capace di trasformarsi in corona (Enguerrand Quarton). Sono questi solo alcuni dei tanti volti della Madonna raccontata da Jean Vanier nel libro iconografico Visages de Marie (Mame, 2001), in cui la storia della Vergine è rappresentata nei suoi tempi. Il tempo dell’attesa, il tempo della gioia, il tempo della separazione, il tempo della gloria: tra arte e letteratura, il canto di Vanier saluta Maria. E la grazia del suo velo. ( @GiuliGaleotti ) Si vede dalla prima ai Corinzi che alle origini della regola c’è un problema di disciplina per una comunità eterogenea e problematica Come quella cui si rivolge Paolo Oggi non c’è più spazio per questo segno di sottomissione Che è stato troppo frainteso nel suo significato originario O troppo strumentalizzato Wilhelm Leibl, «Tre donne in chiesa» (1882) Kippot e parrucche Motivazioni diverse per uomini e donne nel mondo ebraico Come i maschi anche per le femmine coprire il capo non è una prescrizione biblica Anche se la questione resta controversa Il ritorno del velo Inchiesta sui cambiamenti in corso tra le nuove generazioni islamiche È stata una rivoluzione che ha colto tutti di sorpresa Perché è avvenuta nel secolo segnato dal ridimensionamento delle religioni Denis Dailleux, Le Caire

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