donne chiesa mondo - n. 21 - marzo 2014

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Guardare con occhi nuovi la Pietà di Michelangelo Simbolo per il nostro mondo di L UC T EMPLIER L a Pietà di Michelangelo non ha ancora svelato tutti i suoi misteri. Tutt’altro. I capolavori ne sono ricchi e li si può interrogare all’infinito. È proprio la loro natura. Un giorno mi è apparso un dettaglio che ha cambiato la mia visione dell’opera. È lì, nei dettagli, che l’essenziale sopravvive sempre. Al momento sto spiegando in un libro questa scoperta, e qui ve ne offro un assaggio. Siamo nel 1499, alla vigilia del passaggio a un nuovo secolo; pe- riodo di transizione, teso, propizio alle urgenze e alle folgorazioni. In meno di un anno, un giovane ventiquattrenne, in un solo bloc- co di marmo bianco di Carrara scolpisce un capolavoro immortale. Ciò basterà, in effetti, a convincerci del carattere eccezionale di una simile impresa, chiaramente ispirata alle mani dello scultore abbandonato all’estasi creatrice. È in questa specie di ebbrezza, necessaria, che Michelangelo scolpisce. Vi si butta e si accontenta, dice lui, di liberare dal blocco la meraviglia che vi ha visto. Una Pietà. Il tema è noto. È stato già trattato molte volte: la Vergine, Maria, tiene tra le braccia Cristo morto, deposto dalla Croce. Notiamo che la scultura s’iscrive in un triangolo, simbolo dell’elevazione, della perfezione e della stabilità; uno sgabello a tre piedi non è sempre stabile? La prima cosa a sorprenderci è l’età di Maria. È giovane, trop- po giovane, addirittura più giovane di Cristo. Il suo viso è di un’impenetrabile perfezione; i suoi tratti sono magnificati, ange- lici. Nessuna emozione turba quel viso giovanile, liscio e ine- spressivo, esaltato dal contrasto con l’esuberanza dei drappeggi. Nient’altro qui che la bellezza ideale di una giovane donna, ar- chetipo della femminilità. A prevalere è l’accoglienza, necessaria- mente silenziosa: impressione accentuata dal gesto della mano si- nistra, aperta, che sembra dire: «Così è». Cristo è abbandonato. Sembra più vecchio di Maria, più pic- colo della madre, della donna, della sposa, nelle cui braccia sci- vola e si lascia scivolare. Di fatto quel corpo giovane e bello non mostra alcun segno di rigidità. Al contrario, a forma di S, è fles- suoso, sensuale, languido. Le sue dita accarezzano il tessuto, il piede è in equilibrio su una pietra, nel braccio e nel collo le vene irrorate di sangue pulsano al ritmo lento dell’incanto. Nel 1964 la Pietà parte per New York. Primo e ultimo esilio. Robert Hupka, un fotografo, la segue nel viaggio. Scatta più di duemila foto dell’opera, da angolature impossibili, nascoste allo sguardo da secoli, in un allestimento a contrasto — su sfondo ne- ro — ben diverso da quello di San Pietro. È a partire da quelle foto eccezionali che vi invito a cambiare visione. Di fatto non ve- diamo più solo la Vergine e Cristo morto, ma una giovane donna e un giovane uomo volontariamente offerto alle sue braccia. Una coppia insomma. E i due sono vivi. Ma quale immagine potreb- be provare ciò che ho appena detto? A New York Robert Hupka pratica un foro sul soffitto per co- gliere il volto di Cristo, sempre celato al nostro sguardo, e che solo l’artista, prima di lui, aveva contemplato. È sorprendente! Perché il viso è vivo; di una straordinaria serenità. Sorride, fidu- cioso, beata beatitudine. Mai un volto umano era nato dal miste- ro divino dell’Arte con tanta forza consolatrice. Allora, oltre a una Pietà, capiamo ciò che Michelangelo ha sug- gerito in questa sublime parabola: la capitolazione consenziente del maschile al principio femminile. Giusta esaltazione dei valori femminili a lungo calpestati, eppur vicini anche ai valori dei Van- geli. Magnifico simbolo per il nostro mondo, governato da una ma- schile trionfante, orgoglioso, che lancia e rilancia continuamente i suoi profitti, le sue competizioni, i suoi eserciti. Sublime mes- saggio per la nostra umanità, che ci invita a privilegiare, e ad af- fidarci, ai valori di accoglienza, apertura, accettazione, che il principio femminile rappresenta qui. La Pietà, in questa prospet- tiva, potrebbe trovare posto su qualsiasi altare del mondo. Nel silenzio dell’accoglienza, la frenesia si ritrova sospesa. Ma perché, mi direte, questa allegoria non era mai stata com- mentata? Perché le rivelazioni importanti, sacre, non possono mai essere fatte subito. Esse sono sempre velate: nella poesia, nelle favole, nelle parabole. Nel marmo. Là aspettano, a volte per lungo tempo, che qualche traghettatore (o passante) o qual- che risvegliatore le colga. Perché senza una distanza, un velo, l’essenziale suona come una sciocchezza. Libera di essere quella che ero La santa del mese raccontata da Francesca Romana de’ Angelis R oma, 9 marzo 1440. La notte scende lentissima, questa sera. Seduta accanto alla finestra guardo l’ultima luce di questo giorno dolce che porta con sé la promessa di una primavera vicina. Una tela tessuta di fili d’oro mi mostrò il mio angelo custode. Da allora non ho tenuto il conto del tempo, ma questa mattina ho capito che la mia tela è compiuta. Dopo aver trascorso qualche giorno accanto a mio figlio malato mi preparavo a far ritor- no a Tor de’ Specchi, la piccola comunità religiosa che ho fondato e dove vivo ormai da qualche anno, quando padre Giovanni, la mia preziosa guida spirituale, mi ha detto: siete stanca, fermatevi qui. Ho ac- colto il suo invito e sono rimasta perché le sue parole mi sono suonate come un se- gno. In questa casa di Trastevere, la mia casa coniugale, ho trascorso gran parte della vita e forse è giusto che l’ultimo no- do si sciolga proprio tra queste mura. Non ho paura della fine perché spero di rag- giungere la pienezza di quel bene che ho avuto il dono di vedere nelle mie estasi: un mare d’infinita luce, gli angeli come fiocchi di neve in cielo, Maria che mi pro- teggeva con il suo mantello e poneva il Bambino tra le mie braccia. Non ho pau- ra, ma il distacco è comunque difficile. Oltre al figlio che portai in grembo ne la- scio tanti altri, perché ho sentito figli tutti quelli che ho amato. Non poterli soccorre- re quando avranno bisogno di conforto, è solo questo pensiero a darmi malinconia. In alto, tra le stelle, porterò qualche rimpianto — le parole non dette, i gesti non fatti, il molto che era troppo poco — e tanti ricordi. Il rosa del cielo di Roma con il verde dei pini; la voce di mia madre che mi leggeva i Vangeli e la Divina Com- media; il cuore generoso di mio marito Lorenzo; le risate di allegria dei miei tre figli bambini; il profumo della mentuccia che fiorisce tra pietra e pietra lungo la via Sacra che percorrevo fino a Santa Maria Nova, la mia chiesa prediletta; l’asinello che carico di viveri e di legna mi è stato fedele compagno per le strade della città. Di tutte le parole del mondo ne porterò una sola, mitezza, perché è di quelle che ne contengono infinite altre: amore, con- solazione, tenerezza. Come la parola fame, che non è solo fame, ma sofferenza, umi- liazione, solitudine, paura. Ho vissuto in tempi tristissimi. Papi, antipapi, Roma invasa da stranieri o in balia di famiglie potenti decise a conqui- stare il potere. E lutti, violenze, carestie, l’ombra maligna della peste. Ho vissuto anche molti dolori. Su tutti la perdita di due figli, Giovanni e Agnese, una ferita crudele di quelle che niente al mondo rie- sce a guarire. Eppure se penso alla mia vi- ta vedo il dono di tanta grazia. I miei pri- mi anni furono un tempo felice e protetto, uno scrigno prezioso di forze intatte a cui attingere quando la vita rischiava di por- tarsi via la limpidezza dei sogni. Ancora non avevo lasciato l’infanzia e già immagi- navo un futuro di solitudine e preghiera, quando il mio destino prese un’altra stra- da. Troppo bella per essere monaca, disse mio padre. Provai a protestare, ma inutil- mente. Infine dissi sì, solo per amore fi- liale. Fu durante il corteo nuziale verso pa- lazzo Ponziani che qualcosa cambiò per sempre nella mia vita. Ricordo che passa- to ponte Santa Maria — ho sempre amato i ponti, quelle strisce sospese di terra che uniscono riva a riva e gli uomini agli uo- mini — pensai che quella che attraversavo era una Roma che non conoscevo, una cit- tà desolata e poverissima che aveva consu- mato tanto passato e tanta bellezza. Mo- numenti in rovina, misere casupole, strade strette e fangose, bambini laceri e poche dimore nobili, chiuse e protette come for- tezze. Qualche mese dopo, guarita da una malattia che forse era solo lo smarrimento di una sposa adolescente, quel modo nuo- vo di guardare il mondo divenne un’idea. Qualcosa dovevo fare. E qualcosa riuscii a fare grazie al cuore amorevole di mia co- gnata Vannozza, all’infaticabile ancella Clara, ma soprattutto a Lorenzo. Dopo le perplessità dei primi tempi mio marito comprese e mi lasciò libera di essere quel- lo che ero. Tutti quelli che bussavano alla nostra porta erano i benvenuti al mio cuo- re. Cominciai a distribuire farina, olio, vi- no, denari e la divina provvidenza tornava sempre a riempire quello che io svuotavo. Granai colmi e botti piene perché altre bocche venissero sfamate. Col tempo ven- detti i gioielli e gli abiti scoprendo la gioia di trasformare il superfluo in necessario: pietre e stoffe preziose diventavano cibo, panni, medicamenti. Imparai che si può pregare impastando il pane, raccogliendo frutta e verdura nell’orto, tagliando legna da ardere nelle vigne fuori le mura, inven- tando unguenti che curano i mali del cor- po, e parole e gesti che curano quelli dell’anima. E imparai anche che non basta dare. Accogliere, proteggere, amare, cer- cando di portare gioia dove gioia non c’è. Perché il cuore degli uomini — aveva ra- gione il poeta che ho amato fin dall’infan- zia — è come quei piccoli fiori che, chinati e chiusi dal notturno gelo, ritrovano vita solo al tepore del sole. Ormai anche l’ultima luce è andata via. Dalla finestra accostata arriva il brusio dei tanti che sono venuti a salutarmi. Racco- gliere il coraggio dove si può. Quello che ho ripetuto agli altri infinite volte, questa sera lo dico a me stessa. Tenuisti manum dexteram meam recita il Salmo. La mano destra stretta nella tua, Signo- re, sarà più facile congedarmi da chi ho amato. Francesca Romana de’ Angelis è nata a Roma, dove vive e lavora. Dopo la laurea in lettere, ha insegnato in un liceo classico. Studiosa di letteratura italiana del Cinquecento, ha pubblicato saggi ed edizioni di testi. Per anni ha collaborato a programmi culturali e scritto sceneggiature per la Rai. Tra le sue opere, ricordiamo la splendida biografia di Torquato Tasso, Solo per vedere il mare (2005, Premio Massarosa), Storie del Premio Viareggio (2008), Con amorosa voce (2008). Per noi, ha scritto la storia di santa Martina (gennaio 2013). Orazio Gentileschi, «Visione di santa Francesca Romana» (1615) Nel 1964 quando l’opera è in mostra a New York Hupka le scatta oltre duemila foto da singolari angolature Per farlo pratica anche un foro nel soffitto per cogliere il volto di Cristo, da sempre nascosto

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