donne chiesa mondo - n. 21 - marzo 2014

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO marzo 2014 numero 21 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Come una preghiera Isabella Ducrot racconta il tema della ripetizione nelle sue “bende sacre” di C ATHERINE A UBIN Lei è pittrice, con un nome francese, ma è italia- na; quali sono le sue fonti d’ispirazione? Sono italiana, ma sono soprattutto napole- tana, il che fa una bella differenza. Per me si- gnifica dare grande importanza al destino. Si- gnifica anche che le cose avvengono natural- mente e non dipendono dalle proprie forze come in un programma preciso. Quindi, se devo parlare d’ispirazione, non l’ho avuta. Per me le cose sono accadute in modo naturale: non ho seguito corsi di disegno e non ho stu- diato belle arti. Non sapevo di saper disegna- re. La cosa più straordinaria è che me ne sono resa conto dopo i cinquant’anni. Prima, non pensavo veramente di essere fatta per la pittu- ra e ancor meno che qualcuno potesse apprez- zare le mie opere. Era impensabile per me che un giorno avrei potuto pubblicare dei libri e soprattutto che avrei potuto esporre i miei quadri in una galleria d’arte. Tutto ciò era completamente inaudito, inatteso, incredibile! Ricorda un episodio o un clic che potrebbe aver dato avvio al suo nuovo percorso? Il clic è stata semplicemente la vita. Dopo aver compiuto cinquant’anni la concomitanza di diversi eventi ha fatto sì che le cose avvenis- sero in modo naturale. Il fatto più straordina- rio è che quando ho iniziato a dipingere i miei quadri le persone li hanno apprezzati e me lo hanno detto, il che mi sembrava incredibile! Quali sono stati i temi dei suoi primi quadri? Ho utilizzato molto presto dei tessuti per- ché per anni avevo collezionato stoffe e mi ap- passionavano. All’inizio m’interessavano i loro colori, poi mi sono rapidamente resa conto che era la struttura dei tessuti ad affascinarmi. In effetti nel tessuto è contenuto lo «spirito nascosto». Cosa vuol dire lo «spirito nascosto»? Tutti noi indossiamo abiti fatti di tessuti e non pensiamo mai alla loro struttura. La stof- fa stessa la nasconde. Ad esempio nel caso del velluto o del raso, o anche della seta, la strut- tura non si vede, ma se non esistesse non ci sarebbe neanche il tessuto. Pian piano ho quindi capito il simbolismo del tessuto, come un’opera umana, molto antica e primitiva. E ho messo insieme il simbolismo del tessuto e la vita, il pensiero, perché diventassero una cosa sola. Ho compreso tutto ciò senza voler- lo, e ancora oggi ne sono sorpresa e meravi- gliata. Lei ha viaggiato molto, in Oriente e in Estremo Oriente, e alcuni dicono che la sua arte è una forma di religione: me lo può spiegare? Per la mia nuova mostra ho utilizzato “tes- suti buddisti”; sono stoffe che i pellegrini ac- quistano per metterli su statue sacre, sono dunque oggetti religiosi, come una preghiera. In Tibet ci sono meno fiori che in India, per questo i tibetani offrono alle divinità una ma- nifattura umana piuttosto che dei fiori. Questi tessuti racchiudono in sé il pensiero religioso delle persone che li offrono. Ho quindi utiliz- zato questa percezione delle cose collegandola a una rappresentazione che considero una pre- ghiera, ossia la ripetizione. In effetti penso che in tutte le religioni del mondo ci sia la ri- petizione: nelle litanie, nelle suppliche. Dun- que, sul tessuto tibetano, che in un certo sen- so è sacro, ho cercato di tradurre in disegno queste ripetizioni che sono parte integrante di tutte le preghiere nel mondo. Che cosa evoca la ripetizione per la sua arte? La bellezza. Quando ero in Oriente, ho ca- pito che quei motivi ripetitivi non erano una mera decorazione come per noi in Occidente, ma l’ho percepita come un inno sacro, come una musica che risuona. Sono stata completa- mente sedotta dalla ripetizione dei motivi su quei tessuti. Ed è così che ho cominciato a di- segnare sfere rosse, in modo ripetitivo, e ciò mi ha procurato grande gioia, perché questa maniera di dipingere non è un discorso logico. Si può dire che la ripetizione concepita in questo modo assomiglia a una forma di pre- ghiera. È a partire dalla ripetizione che ha scoperto la preghiera? Sì, assolutamente sì, perché l’ho associata a ciò che la preghiera è nel mondo. Di fatto molte preghiere non sono dialettiche. Ho cer- cato di riflettere e d’immaginare come gli uo- mini della preistoria avevano cominciato a uti- lizzare i loro tessuti, quale era stato il motivo principale e fondamentale per elaborare una tecnica di fabbricazione dei loro tessuti così complicata quando hanno incominciato a di- ventare stanziali. E mi sono detta che ciò an- dava al di là del semplice fatto di proteggersi e che aveva a che vedere con la religione. In effetti, man mano che un tessuto “sale” e si realizza sul telaio, si può dire che trascina con sé lo spirito. Qui spirito significa qualcosa che esiste grazie al tessuto, ed è questa la differen- za rispetto alla carta. La carta accetta lo spiri- to quando una persona scrive su di essa una poesia o qualcos’altro, mentre il tessuto tra- sforma la materia, la fibra, la consistenza: si può dire che il tessuto ha una sorta di anima. In Tibet ho trovato una vera preghiera: è una preghiera di ringraziamento, che proviene da una famiglia indubbiamente molto ricca per- ché è in seta, meravigliosa a vedersi. E lì c’era una collaborazione, un intreccio, tra la realiz- zazione del tessuto che per così dire “saliva” sul telaio e la preghiera che a sua volta sale. Entrambi si componevano nello stesso mo- mento: ho visto un legame vero tra la parola e il tessuto. In un certo senso il tessuto è quel che c’è di più vicino a ciò che noi siamo come esseri umani: carne e spirito. di M ARCELLO F ILOTEI I n Unione Sovietica, per fortu- na, un compositore poteva es- sere minacciato di morte per lo stile utilizzato nella scrittura musicale. Nel 1936 ebbe luogo la rappresentazione dell’opera Lady Macbeth del distretto di Mtsensk di Dmitrij Shostakovich. Un mese dopo, la «Pravda» stroncò il lavo- ro definendolo «caos anziché mu- sica» in un articolo anonimo, da alcuni attribuito allo stesso Stalin che era presente alla rappresenta- zione. Non che si possa essere no- stalgici di episodi del genere, ma un capo di Governo che va a un concerto oggi sarebbe già una no- tizia. Allora non lo era perché la musica era considerata una cosa seria. Il compositore aveva un ruolo sociale, come qualsiasi altro artista o intellettuale. E il potere, quindi, lo controllava. Questo è l’ambiente in cui na- sce nel 1931 a Čistopol’, nella re- pubblica russa del Tatarstan, Sofia Gubaidulina. Una grande compo- sitrice, che non è mai stata una brava ragazza. Anzi ha perseguito con determinazione l’intento di camminare sulla “cattiva strada”. Del resto il consiglio le era stato dato proprio da Shostakovich, un altro genio che magari scriveva la Quinta Sinfonia semplificando molto il linguaggio per far credere a Stalin di essere tornato ai mo- delli del Realismo Socialista, ma incontrando un talento come quello di Gubaidulina non si so- gnava nemmeno di consigliarle di limitare la propria creatività, anzi la spingeva nella direzione op- posta. Per paradosso, quindi, proprio in un ambiente culturalmente an- gusto, che l’aveva etichettata come «irresponsabile» per le sue esplorazioni alternative, si svilup- pa l’arte originale e corrosiva di una delle compositrici più innova- tive e rappresentative del XX se- colo. «Sono una persona religiosa, russa ortodossa, e considero la re- ligione, nel senso letterale del ter- mine, come qualcosa che lega, che ristabilisce un legame nella vita. La musica non ha compito più grave di questo». Gubaidulina si autodefinisce così, e definisce così anche il suo percorso artistico ed esistenziale. Ma per farlo in musi- ca bisogna scegliere dei criteri precisi, chiari per chi ascolta. Lei ha fatto leva principalmente sull’aspetto simbolico. «Cosa vuol dire simbolo? Secondo me la mas- sima concentrazione di significati, la rappresentazione di tante idee che esistono anche fuori della no- stra coscienza. Le molteplici radici che si trovano al di là della co- scienza umana si manifestano an- che attraverso un solo gesto». Ma Gubaidulina fa di più e ri- legge il suono stesso in chiave simbolica. Per esempio il primo movimento della sonata per violi- no e violoncello Gioisci è basato in gran parte sul passaggio dal suo- no reale al suono armonico (dalla concretezza alla leggerezza). Que- sto effetto si ottiene riducendo la pressione del dito sulla corda. Più il dito sale — «ascende», si fa leg- gero — più il suono diventa ete- reo, il timbro si trasfigura. Più chiaro di così. Ma ancora non basta e allora compositrice compie un ulteriore passo in avanti: poggia questo suo mondo simbolico su inusuali com- binazioni strumentali, utilizzando un quartetto di sassofoni e percus- sioni (in Erwartung ), oppure acco- stando il koto (strumento caratteri- stico della musica giapponese) all’orchestra. A volte richiama indirettamente la musica popolare russa, come nei casi in cui utilizza il bayan , una fisarmonica cromatica a bot- toni che raramente prima era en- trata nella produzione colta. Gu- baidulina ne intuisce l’estrema forza espressiva e la usa spesso, in particolare in un brano ritenuto da molti un capolavoro: Sette Pa- role , del 1982, per violoncello, fi- sarmonica e archi. Già la scelta di evocare le ulti- me sette parole di Cristo sulla cro- ce senza utilizzare un testo dà la misura del grado di astrazione simbolica di un lavoro nel quale il violoncello rappresenta la vittima, il Dio-Figlio, la fisarmonica è il Dio-Padre e gli archi lo Spirito Santo. Ma la simbologia è soprat- tutto nei gesti, nei suoni. A volte chiara, altre più nascosta, ma sem- pre presente sino al finale, dove il violoncello sposta gradualmente l’archetto verso il basso fino ad arrivare sul ponticello nel momen- to della morte. Qui il suono si fa violento, sgraziato, ruvido. Ma il procedimento non è ancora finito, l’arco passa al di là del ponticello, in una regione in cui le corde pro- ducono un suono acutissimo, lon- tano, poco intonato. È la trasfigu- razione, il passaggio da uno stato all’altro. Gubaidulina è una donna che non ha avuto paura di attraversare il ponticello. Più chiaro di così. di R ITANNA A RMENI I mmaginate il paesaggio toscano di un dipinto del Rinascimento. Lo sfondo di un quadro di Piero della Francesca o di Leonardo da Vinci. Immaginate le colline, i cipressi, la campagna or- dinata dall’uomo, le viti, i prati digradanti. E poi pensate a un manto, un grande manto, che viene calato dal cielo su uno di questi prati. Lo sfiora, quasi lo tocca, ma rimane a qualche metro da terra, qualcosa in alto pare trattenerlo e rimane sospeso fra cielo e terra, fra l’azzurro e il verde. Così si presenta al primo sguardo del visi- tatore la chiesa dedicata a Maria Theotokos (Madre di Dio) a Loppiano, una piccola lo- calità situata in quel luogo già magico che è la Val d'Arno. «Quel manto è grande, ma anche dolcemente digradante per raccontare — spiega il gruppo di architette, scultrici e pittrici che lo ha realizzato — una chiesa ac- cogliente come il manto di Maria, una chiesa che collega il cielo alla terra, il Creatore alle sue creature». Sono andata a Loppiano per incontrare le donne del centro Ave Arte nato all’interno del movimento dei Focolarini. Quel centro lo ha voluto Chiara Lubich, la fondatrice del movimento, per saziare «la sete di bellezza diffusa nel mondo». Quando la chiesa è stata costruita, la comunità dei Focolarini a Lop- piano c’era già da un pezzo. Le case nella campagna toscana erano state ristrutturate, l’antica fattoria era stata rimessa in funzione, c’erano le cooperative, una sede universitaria, un laboratorio di ceramica, una vita comuni- taria, ma mancava qualcosa che a tutto que- sto desse un senso più alto, che mandasse il segnale inequivocabile di una missione e di una presenza. Ed ecco la decisione di affida- re all’architetta Ave Cerquetti la costruzione della chiesa «come suggello, come punto cul- mine della cittadella». Erika Ivacson scultrice di origine unghere- se, Elena Di Taranto, architetta, Dina Figue- rido, pittrice di origine portoghese, Patrizia Taranto, architetta e Vita Zanolini, coordina- trice del gruppo, sono le cinque donne che hanno eseguito il progetto. Ora mi mostrano il loro lavoro compiuto in tempo di record, solo quattro anni dal 2004 al 2008. Uno sforzo eccezionale e pienamente riuscito. Il manto di Maria è lì, sfiora il prato e sotto il manto c’è la chiesa, circolare, moderna, in cui le linee curve si inseguono e si incontra- no. «Ave mi ha chiamata una mattina per spiegarmi la sua idea, aveva già tutto nella sua testa e in un pezzo di carta: la forma cir- colare, il tabernacolo, le vetrate. Voleva un progetto che esprimesse Maria, la comunità e l’apertura al mondo», racconta Elena Di Ta- ranto. C’è una rottura in questa chiesa dedicata a Maria, Madre di Dio, rispetto alla tradizione dell’arte sacra. Ed è nella linea curva che le architette, le scultrici, le pittrici hanno scelto come elemento architettonico caratterizzante. Nulla in quell’edificio, che oltre la chiesa contiene sale di incontro, centri per conve- gni, è diritto, squadrato, rigido. All’opposto tutto è curvo, arcuato. È circolare la chiesa, sono circolari i banchi di legno chiaro, si cur- vano le grandi finestre colorate, avanza dall’alto in basso il tetto bianco diviso da tra- vi che si inarcano. Non c’è bisogno che me lo spieghino, è del tutto evidente: la linea curva è il mezzo architettonico che riesce a realizzare meglio l’idea dell’accoglienza. In quella circolarità dei banchi attorno all’altare si celebra una comunione e una comunica- zione immediata fra i fedeli e i sacerdoti. Consente, mi spiegano, «una particolare pre- senza corale attorno all’altare». In quel sof- fitto che si inclina si esprime un’idea di pro- tezione, di accettazione di chiunque voglia entrare nella casa di Dio. E le vetrate enormi e colorate «creano un dialogo continuo tra interno ed esterno, fra vita che si vive e si ce- lebra». Non ci sono fiori, non ci sono piante, ra- rissime e discrete le immagini sacre. La scelta delle architette, delle scultrici e delle pittrici del centro Ave è quello della semplicità disa- dorna, del vuoto che diventa bellezza. Non si rinuncia alla grandezza, alla magnificenza del sacro, ma non lo si esprime in modo tra- dizionale. È la fede, non altro, evidentemen- te, che deve riempire quello spazio, la fede portata dagli uomini e dalle donne che si ri- fugiano sotto quel manto. L’edificio è fatto per accoglierla. Colpiscono le grandi vetrate colorate opera di Dina Figuerido. «La luce — mi spiega — scivola, è preponderante rispetto alle figure che appena si intravedono. Da una parte la passione di Cristo, dall’altra la vita di Ma- ria». E, ancora una volta, quella luce è acco- gliente, come è accogliente, più di qualunque marmo ricco, ornato e decorato, quella gran- de enorme pietra di Trani bianca, rettangola- re, appena incisa, che Erika Ivacson ha scelto come altare. «L’ho voluto così, disadorno, bianco, grezzo, semplice perché tutti potesse- ro riconoscerlo come loro, potessero vedere in esso il sacrificio di Cristo per l’umanità». Dietro l’altare un’altra vetrata e, dietro questa, il tabernacolo, posto alla base del campanile, con due enormi trasparenti fessu- re che vanno verso l’alto. Ancora una volta l’interno e l’esterno si fondono, il verde dei prati, della campagna lavorata dagli uomini entrano nella casa di Dio. Sono tutte donne coloro che hanno lavora- to a quest’opera, è femminile il gruppo che ha progettato e ha creato la chiesa di Loppia- no anche se hanno collaborato, naturalmen- te, molti uomini. Un gruppo che poi ha pro- seguito il suo lavoro in molti altri luoghi sa- cri. «Crediamo in un’arte in cui ci sia la pre- senza di Gesù» mi spiega Vita Zanolini, la coordinatrice del gruppo delle architette. Il gruppo Ave è di sole donne solo per ca- so (e anche per tradizione visto che il movi- mento dei Focolarini è sempre stato diretto da una donna), ma in questi anni di lavoro si è accorto che esiste un’arte sacra, un modo di costruire luoghi per la fede che solo le donne riescono a creare. Si è reso conto di avere un compito educativo e di quanto sia importante che un’arte sacra femminile entri in contatto con un sacerdozio maschile. Sarebbe stato immaginabile un gruppo di uomini così attento a rendere attraverso la curva, la circolarità, gli spazi aperti, le tra- sparenze, la potenza e la imprescindibilità dell’incontro fra l’umanità e Dio? Non posso fare a meno di chiederlo anche se loro, quan- do mi hanno mostrato e illustrato la loro opera, non hanno mai fatto accenno al fem- minile. Sorridono e ammettono che sarebbe stato abbastanza improbabile per un gruppo di uomini scegliere di usare quelle modalità morbide, luminose e accoglienti. Avrebbe preferito probabilmente una chiesa più dirit- ta, squadrata. Avrebbe suggerito un’idea di- versa del rapporto fra Dio e l’umanità. Forse, addirittura un’idea diversa della fede. Ag- giungono che, con loro grande stupore, il so- vrintendente alle Belle arti di Firenze quando era venuto a visitare la chiesa di Loppiano — lui uomo — aveva detto che in quell’opera era evidente la presenza di una capacità arti- stica tutta femminile. Mi raccontano di aver scoperto in questi anni che, in effetti, il loro modo di lavorare è diverso da quello di altre équipe. «Siamo davvero un gruppo, lavoria- mo d’intesa, ci correggiamo. In questi anni ho capito che le idee dell’altra non mi esclu- dono, non mi schiacciano, se mai mi conten- gono» dice Erika Ivacson. E Patrizia Taranto racconta: «Andiamo sempre nei luoghi che dobbiamo costruire o ristrutturare, non riu- sciamo a progettare asetticamente, a tavolino. Dobbiamo conoscere chi ci dà una commis- sione, dobbiamo capire che cosa vuole vera- mente da noi». Loro — di questo sono davvero, senza pre- sunzione, convinte — hanno molto da inse- gnare ai loro committenti che sono sacerdoti, vescovi, comunità e movimenti cattolici in cui la componente maschile è preponderante e che, spesso, non sanno che cosa fare. Di fronte a stupendi monasteri, chiostri, chiese, conventi non riescono a immaginare spazi di- versi, a rispettare quel che deve essere salva- to, a comprendere come si può innovare un luogo sacro. «Un monastero — spiegano — oggi non può essere quello di cinquecento anni fa, va salvato nella bellezza che possie- de, ma va fa riprogettato per i nuovi compiti e per le nuove comunità. C’è nelle chiese, nelle diocesi, nei monasteri un modo di vive- re, da soli o con gli altri che deve essere in- novato anche negli spazi». Loro ne sono convinte. E lavorano, fiduciose nella loro creatività, nella loro capacità di contribuire a cambiare l’ambiente di vita di una comunità di fede, di introdurre una modernità acco- gliente quanto la tradizione. Oggi sono un gruppo molto richiesto, che ha cancellato, quando ci sono stati, anche antichi muri ver- so un’équipe tutta femminile. «Sai quando nel committente cadono le diffidenze?» mi racconta alla fine sorridendo Vita Zanolini: «Quando vedono che ascoltiamo e prendia- mo appunti. A quanto pare non tutti lo fan- no». Il romanzo Artemisia «Giochiamo a rincorrerci, Artemisia ed io. E a fermarci, non senza trabocchetti, dai più materiali e scoperti, ai più nascosti»: era il 1947 quando la scrittrice italiana Anna Banti dava alle stampe il suo secondo romanzo, Artemisia , in cui racconta la storia della pittrice italiana vissuta nella prima metà del Seicento. Scritto tra verità e fantasia ricorrendo a documenti di archivio e, soprattutto, ai quadri di Artemisia Gentileschi, il romanzo è un suggestivo dialogo a distanza tra due donne accomunate dall’arte, e dalla difficoltà di emergere in un mondo maschile. La prosa colta, sofferta e poetica dell’Anna Banti del secondo dopoguerra, incontra la pittura vibrante, sofferta e coraggiosa dell’Artemisia Gentileschi del XVII secolo: chi legge si trova avvinto tra due donne e due secoli che, pur diversi, si intrecciano. Banti si assume il compito di ridare vita e voce a quella donna che, superando l’ostilità del suo tempo e attraversando anche un umiliante processo per stupro (quelli in cui la vittima finisce per essere considerata colpevole), è comunque riuscita a entrare nella storia dell’arte. Una biografia capace di farsi autobiografia che molto dice sull’arte. E sulle donne. ( @GiuliGaleotti ) La serie tv Madre, aiutami! Madre, aiutami! è il titolo di una serie televisiva italiana che, dopo tanti filmati che hanno avuto come protagonisti dei sacerdoti, ha finalmente scelto di dare a una suora questo ruolo. Un intreccio che prevedeva suspence e pericoli, affrontati da Virna Lisi, che interpretava madre Germana, con grande compostezza e insieme forte coinvolgimento emotivo. Madre Germana combatte contro tutti per difendere la bambina africana che è stata accolta in convento, e che è in pericolo, e soprattutto la consorella Maria che, nella missione in Congo, è stata violentata dai ribelli e poi rapita. Scoprendo a poco a poco un traffico di armi che coinvolge perfino il Vaticano. Anche fra le suore alligna l’invidia e l’indisciplina, ma chi fa la figura peggiore è comunque la gerarchia ecclesiastica che tradisce costantemente diffidenza verso le donne, incredulità e indifferenza verso la violenza sessuale, e che alla fine è costretta alle scuse. Ben rappresentati il coraggio femminile e la dura vita nelle missioni africane. ( @lucescaraffia ) L A SIGNORA ANZIANA E L ’ AUTOBUS DI LINEA «Il simbolo del fallimento della città»: con queste parole un lettore ha inviato al «Corriere della Sera» la sequenza di fotografie che pubblichiamo qui accanto. Roma è sconquassata dalla pioggia, il traffico bloccato, una signora anziana aspetta per quaranta minuti l’autobus che dovrebbe riportarla a casa, dopo aver fatto la fila per pagare una bolletta. Finalmente il mezzo arriva: gli aspiranti passeggeri — ha raccontato Ester Palma sull’edizione romana del quotidiano del 2 febbraio scorso — chiudono gli ombrelli per salire a bordo. È quello che fa anche l’anziana signora, ma i suoi movimenti sono rallentati dall’età. Una passante si avvicina per aiutarla, un passeggero già a bordo chiede all’autista di attenderla, ma quando la donna sta per farcela, il conducente sbuffa e riparte, lasciando l’anziana sul marciapiede. L’Atac ha avviato un’inchiesta interna. Ma restano, indelebili, questi tre fotogrammi a dimostrare l’inumanità quotidiana a cui ci stiamo abituando. D ONNA CAPO DEL C ONSIGLIO ECUMENICO DELLE C HIESE «Essere una voce profetica è un compito vitale per l’ecumenismo del XXI secolo e per la Chiesa nel mondo di oggi»: così Agnes Abuom, anglicana del Kenya (madre protestante e padre cattolico, e madre a sua volta di due figli), ha commentato la sua elezione a moderatore del Consiglio ecumenico delle Chiese, ovvero la figura che affianca il segretario generale (attualmente il luterano norvegese Olav Fykse Tveit) nella guida del Consiglio. È la prima volta che l’organo principale che riunisce le diverse confessioni cristiane del mondo — 345 in rappresentanza di circa 560 milioni di fedeli — elegge una donna. La votazione è avvenuta a Busan, in Corea, nel corso della decima assemblea del Consiglio che, ancora per la prima volta, ha scelto di mettere al centro la questione della responsabilità dei cristiani nella costruzione della pace. Sebbene la Chiesa cattolica non faccia parte del Consiglio, essa ha partecipato ai lavori con una propria delegazione guidata dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. I L SEGNO DI S TELLA K IM SUL GHIACCIO C’è una pattinatrice sudcoreana (vincitrice dell’argento a Sochi) che, dalle Olimpiadi invernali di Vancouver (2010) in poi, prima di scendere in gara si fa silenziosamente il segno della croce: è così che Stella Kim Yu-na è divenuta, senza volerlo, un simbolo della Chiesa cattolica sudcoreana. Nata nel 1990, ha iniziato a pattinare a 5 anni, quasi per scherzo. Dopo aver vinto a 12 anni i campionati sudcoreani di pattinaggio artistico, ha debuttato sul palcoscenico internazionale, classificandosi seconda in diverse competizioni mondiali. Nel 2005, la duplice svolta: seri problemi a ginocchia e piedi prima, e alla schiena poi, la tengono forzosamente lontana dal ghiaccio per lunghissimi mesi, al punto che la sua carriera sembra irrimediabilmente compromessa. Ma proprio allora, attraverso Cho, un cattolico che guida la clinica privata a Seoul dove è seguita, Yu-na entra in contatto con alcune suore, iniziando — con la madre — il suo cammino di conversione. Nel 2007 finalmente le cure sembrano funzionare, e la ragazza torna sul ghiaccio: arriva al terzo posto nazionale. Attaccata alla divisa c’è la medaglia benedetta della Madonna donatale dalle suore. Per questo la giovane ha voluto come nome di battesimo Stella, per onorare la Vergine, Stella mattutina. Al dito porta un anello con i grani del Rosario. Stella ha raccontato che la fede le ha donato una nuova pace: «Al momento del battesimo ho sentito un’enorme consolazione nel mio cuore. Ho capito che era l’amore di Dio e gli ho promesso che avrei continuato sempre a pregarlo». P ROTOCOLLO TRA SUORE E CARABINIERI IN S ARDEGNA Aiutare le vittime dei reati di riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi extracomunitari ed europei; dare speranza a quanti vogliono sottrarsi alle condizioni di sfruttamento: questi gli obiettivi del protocollo d’intesa firmato e rinnovato ormai per il quinto anno consecutivo da suor Ignazia Mercede Miscali, responsabile della congregazione delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, e dal comandante della legione sarda dei carabinieri, generale Luigi Robusto. Dopo la firma del patto, siglato nella caserma Zuddas e inviato a tutti i presidi dell’Arma che conta 277 stazioni nell’isola, suor Ignazia ha espresso piena soddisfazione per il concreto lavoro svolto insieme fin qui. B IMBE E DONNE ACCUSATE DI STREGONERIA IN I NDIA In diverse zone dell’India, soprattutto nei villaggi rurali isolati in cui si vive senza possibilità di accedere ai servizi di base, ricevere un’istruzione o integrarsi nella società, la povertà spinge molte persone ad affidarsi alla superstizione e a santoni e guaritori che praticano riti legati alle tradizioni tribali e alla magia nera. Il tutto con conseguenze talvolta mostruose. È il caso dei sacrifici umani, ancora praticati come suprema forma di offerta alla divinità. A farne le spese sono sempre le persone più deboli: bambine e donne. Secondo quanto riferito dalla Fondazione Fratelli Dimenticati onlus, una bimba di 4 anni è stata sacrificata dai suoi stessi genitori, mentre una piccola di 7 è stata uccisa da due contadini che le hanno asportato il fegato per effettuare riti propiziatori. Del resto, cadaveri di bambini sono stati ritrovati sepolti vicino agli altari di qualche stregone, circondati da oggetti sacri. Le donne, considerate inferiori rispetto all’uomo, in alcuni villaggi vengono accusate di stregoneria e, per questo, punite anche con la morte: secondo alcune ong indiane, sarebbero circa duecento le donne uccise ogni anno perché ritenute streghe. Una credenza frutto di quell’ignoranza contro cui si batte la Fondazione Fratelli Dimenticati onlus: grazie alle loro iniziative tanti bambini possono studiare per diventare domani adulti responsabili. La fondazione è oggi presente, oltre che in India, in Nepal, Messico, Guatemala e Nicaragua. S ETTIMANA DELLE SUORE CATTOLICHE STATUNITENSI Si svolge dall’8 al 14 marzo 2014 la prima settimana nazionale delle suore cattoliche presso l’università cattolica femminile St. Catherine a St. Paul in Minnesota. Inserito all’interno del mese dedicato alla storia delle donne, l’appuntamento intende ricordare le suore delle più diverse congregazioni che hanno segnato la storia del Paese. La settimana di incontri vuole però, al contempo, indicare vie per possibili cammini futuri, riflettendo sul significato e le prospettive della vita religiosa. L’università si appresta ad avviare un sito internet che raccolga materiale proveniente dalle congregazioni femminili di tutti gli Stati Uniti. Il saggio L’umanità dietro le mura Ci sono patrie che restano assolutamente uniche, nella loro rarità. È il caso di quelle poche decine di persone nate nella Città del Vaticano, lo Stato sorto nel 1929 i cui cittadini sono per lo più di passaggio dai rispettivi Paesi di origine. Ebbene, una donna, Matilde Gaddi, nata all’interno delle mura vaticane nel 1943, ha raccontato la sua “singolarissima” storia nel volume L’umanità dietro le mura (La Caravella, 2013): tra aneddoti e curiosità, colpisce la prospettiva, del tutto inedita. Quinta figlia di un gendarme, Matilde è nata e vissuta per 23 anni — i suoi primi 23 anni — in Vaticano con la famiglia. Gli episodi della «guerra non dichiarata tra gendarmi e bambini, che fatalmente finiva quasi sempre senza prigionieri», sono deliziosi. Se gioco e gusto del proibito, spensieratezza e incoscienza, segnano l’infanzia di tutti, quando si muovono tra le mura vaticane degli anni Cinquanta, acquistano un sapore molto divertente. Come le regole imposte alle donne che, ad esempio, se proprio volevano usare la bicicletta, dovevano rigorosamente spingerla a mano. ( @GiuliGaleotti ) Man mano che un tessuto “sale” e si realizza sul telaio trascina con sé lo spirito Qui spirito significa qualcosa che esiste grazie al tessuto È la differenza rispetto alla carta Mai stata una brava ragazza In ascolto della compositrice russa ortodossa Sofia Gubaidulina Considero la religione qualcosa che ristabilisce un legame nella vita La musica non ha compito più grave di questo Solo donne Tra le architette, scultrici e pittrici che hanno fatto la chiesa Maria Theotokos di Loppiano Quel manto è grande ma anche dolcemente digradante per raccontare una chiesa accogliente che collega cielo e terra Creatore e creatura Per un gruppo di uomini scegliere di usare le modalità morbide, luminose e accoglienti scelte da cinque donne sarebbe stato improbabile In mostra a Roma «Bende sacre»: questo il titolo della mostra di Isabella Ducrot che si inaugura il 3 marzo 2014 alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea (Gnam) a Roma. Curata da Marcella Cossu e Silvana Freddo con Nora Iosia, la mostra resterà aperta fino al prossimo 18 maggio. Nel catalogo, edito da Gangemi, sono presenti scritti di Maria Vittoria Marini Clarelli, John Eskenazi, Stefano Velotti, Massimiliano Alessandro Polichetti, Luciano Trina e Marcella Cossu. A sinistra, la vetrata interna della chiesa Maria Theotokos di Loppiano Sotto: l’edificio visto dall’alto L’artista nella locandina della mostra

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==