donne chiesa mondo - n. 20 - febbraio 2014

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO febbraio 2014 numero 20 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo di L UCETTA S CARAFFIA F rancesca Cabrini ha lasciato una im- pronta unica e di grande originalità, sia come religiosa che come donna, proprio nell’uso del denaro. A lei serviva denaro, molto denaro, per costruire ospedali, scuole, orfanotrofi per gli emigrati che vivevano in condizioni di grave indigenza nei Paesi dell’America settentrionale e meridionale e proprio per questo si è impe- gnata a ottenerlo in ogni modo. Mentre in Italia alle donne non era ancora riconosciuta l’autonomia amministrativa, lei e le sue suore amministravano senza paura somme ingenti e decidevano investimenti importanti, fidando nelle proprie capacità imprenditoriali. Il dena- ro per lei era un mezzo da usarsi bene, con la perizia necessaria, ai fini di realizzare la vo- lontà di Dio nel mondo. Come faceva madre Cabrini a finanziare le sue audaci imprese? Le vie da lei seguite per raggiungere le somme di volta in volta richie- ste erano numerose, adatte a ogni situazione, ma la base costante su cui faceva assegnamen- to per pagare i debiti e lanciarsi in nuove ini- ziative era il lavoro gratuito delle suore, un la- voro qualificato e continuo: «Lavorate, lavora- te, figliuole mie, senza stancarvi, lavorate con generosità, lavorate con fermezza e integrità» scrive il 2 dicembre 1900 alle suore di Genova dalla nave, e in modo analogo si raccomanda in altre lettere. La modernità di Francesca Ca- brini, però, non consisteva semplicemente in un adeguamento della vita religiosa ai nuovi tempi; il suo impegno nel lavoro, impegno che chiedeva a tutte le sue suore, non aveva niente a che vedere con la smania di lavoro che assorbe la vita di tanti uomini e donne moderne, ma è solo l’obbedienza al richiamo divino, desiderava fare quel che Dio voleva. In tutte le sue iniziative — mentre si preoccu- pa che sorgano opere belle ed efficienti, non- ché economicamente fiorenti — l’obiettivo uni- co e principale è la diffusione del messaggio cristiano e non la riuscita economica di questa o quell’opera. Rimane però il fatto che non aveva paura di affrontare gli aspetti pratici di ogni proget- to, del quale, fin dal primo momento, sapeva valutare il costo e il possibile ricavo. Il capita- le iniziale per ogni fondazione veniva dalle donazioni che Francesca Cabrini riusciva a ot- tenere dalle autorità ecclesiastiche, cioè da Propaganda Fide o dalla Santa Sede, da bene- fattori privati ma anche da prestiti, possibil- mente a tasso d’interesse nullo o molto basso, che poi restituiva. Ottenere aiuto dai benefattori non era faci- le, richiedeva un lavoro attento da parte delle suore, che dovevano saper chiedere al momen- to giusto, attirare le donazioni mostrando il buon frutto che ne sapevano trarre. Lei stessa è un esempio in questo senso: «Ho lavorato un mese intorno al Sig. Capitano Pizzati — scrive da New Orleans il 27 giugno 1904 — e finalmente venne alla decisione di darmi 50 mila dollari in dieci anni, ma desiderava veder fatta subito la Casa. Io gli dissi che non pote- vo anticipare denaro, ma che sarebbe stato meglio che lui pensasse a fabbricarci la Casa, allora contento disse: Ebbene, voi preparatemi il terreno e io fabbricherò la Casa, e già ha co- mandato all’architetto un disegno di settanta- cinque mila dollari e si farà subito». I soldi potevano venire anche da specula- zioni fortunate, come quando a Chicago — portata a passeggiare fuori città per alleviare le sue difficoltà di respirazione — vide subito Il sostegno di Dio, che sente sempre accan- to a sé, la rende capace d’investire senza paura in progetti costosi e complessi, spesso senza avere al momento la copertura finanziaria, ma fidando solo nell’aiuto divino. A Buenos Ai- res, come era solita fare nelle sue iniziative, per fondare la scuola assume impegni finan- ziari molto superiori alle sue possibilità del momento: «Ma io mi sentiva nell’intimo una segreta persuasione, che non sapeva d’onde mai venisse, e così decisi di prenderla ad ogni costo. Quel coraggio però nell’assumere quell’impegno, piuttosto forte, finì col lasciare in tutti una buona impressione, e cominciaro- no le prime famiglie a venire ad iscrivere le lo- ro bambine, e continuarono poi in maniera che, alla mia partenza, già la casa era piena, e già abbiamo i piani per prenderne un’altra più capace» (agosto 1896). Il metodo più utilizzato per accumulare le somme necessarie alle nuove opere era senza dubbio il risparmio, praticato continuamente dalle suore che vivevano in grande povertà se- condo le costanti esortazioni della fondatrice, come dimostra il codicillo che questa nel 1905 aveva aggiunto al suo testamento: «Non si maltratti la povertà allargando ora da una par- te per convenienza, ora dall’altra per riguardo, ma si pensi che tutto il di più che si usa e tut- to ciò che si sciupa per incuria è rubato all’Istituto, e a far peccato mortale basta quanto può bastare a un esterno che ruba. In tutte le officine ed esercizi particolari si può rubare, attente dunque, o figliole, e siate deli- cate assai col voto di povertà come bramate di esserlo in quello di castità». Per risparmiare era abituata anche ad aguz- zare l’ingegno, come a Los Angeles, dove mancavano i soldi per l’ampliamento, ormai improrogabile, della casa. Mentre la direzione dei lavori della nuova ala veniva affidata a una suora, divenuta provetta capomastro, il materiale di costruzione venne ricavato dalla demolizione di un parco di divertimenti, che Francesca Cabrini aveva comprato a poco prezzo. L’opera di demolizione realizzata sot- to la sua direzione fu affidata anche alle bam- bine dell’orfanotrofio, felici di raccogliere in tanti secchielli chiodi, serrature e cerniere, e riuscì così bene che il legname e i mattoni avanzati furono spediti a Denver, dove le suo- re stavano costruendo un altro fabbricato. Ingegnarsi, in certi casi, può anche voler di- re sfruttare una miniera, come quando sugge- risce alle suore del Brasile di imitare l’esempio delle suore di Seattle: «Sapete che qui ci han- no regalato una mina e già le Suore stanno a farla lavorare? Bisognerà che ne troviate anche voi in Minas e farla lavorare che così avrete l’oro per fabbricare tutte le Case, come ne avete bisogno. M. Mercedes forse saprà tro- varla» (10 ottobre 1909). Questa continua lotta per rendere concreti e funzionanti tutti i progetti, per pagare i debiti, avviare nuovi finanziamenti e non farsi ingan- nare, se pure sfibrante, non dispiaceva a madre Cabrini: «Devo lavorare come una giovanotta, devo sostenere forti ragioni contro forti uomini ingannatori e si deve fare; e voi state attente, lavorate pur molto e non dite che è troppo se no non sarete mai la donna benedetta dallo Spirito Santo» (Chicago 1904). Nel denaro Francesca Cabrini vedeva una forma di energia che si poteva usare positiva- mente, un dono di Dio del quale non si dove- va avere paura se la propria vita era orientata a onorare il suo cuore. di S ILVIA G USMANO S ono l’unico caso in Italia. Sette donne di età e nazionalità diverse unite in una cooperativa di pesca, la Bio&Mare. Prima dell’imbrunire gettano le reti, al largo di Marina di Carrara, e all’alba le tirano su. Vendono quanto è possibile e trasformano gli scarti in sughi biologici. Mente e cuore di questa real- tà è Radoslava Petrova — Radi per i frequen- tatori del molo — nata a Plovdiv, in Bulgaria, nel 1974 e giunta in Toscana a 24 anni dopo il matrimonio con un italiano. A lei, come a tante altre donne arrivate da lontano, il nuo- vo Paese non offre molto all’inizio. I suoi ti- toli di studio non vengono riconosciuti e le poche possibilità di lavoro si incanalano sem- pre nelle solite strade: colf, cameriera, badan- te. La passione per il mare e un incontro for- tunato, però, danno a Radi l’occasione di co- struirsi un futuro diverso. Tramite Telethon dove fa la volontaria, la giovane conosce i pescatori della cooperativa Maestrale e inizia a fare la segretaria da loro. Poco tempo dopo l’illuminazione: usare gli scarti del pesce per fare vasetti di salse da mettere in vendita. «Prima della caduta del muro — racconta — in Bulgaria i supermercati non c’erano e si preparavano barattoli di conserve di ogni ti- po, senza buttare niente. Così, vedere tutto quel pesce sprecato mi dava fastidio. Il mio capo all’inizio era scettico, poi mi ha dato fi- ducia e abbiamo avuto un gran successo!». Nel 2011 Radi si mette in proprio e crea la Bio&Mare. Attorno a sé, raduna un gruppo di donne «da sempre nel mondo della pesca ma con ruoli secondari» e insieme diventano protagoniste di una grande sfida. Oggi nella cooperativa lavorano quattro italiane e tre straniere, «stanche morte ma orgogliose dei risultati ottenuti». Il caso di Radi, secondo gli ultimi dati del Centro Studi Cna, è tutt’altro che isolato. Gli imprenditori stranieri in Italia sono infat- ti quasi 420mila (circa l’11 per cento del tota- le). Oltre 90mila le donne, di cui poco meno della metà titolari d’impresa. È un fenomeno in continua espansione e in netta controten- denza. Il Censis ci dice, infatti, che mentre i negozi italiani dal 2009 a oggi sono diminuti del 3 per cento, quelli stranieri sono cresciuti del 21 per cento, gap che troviamo anche in altri settori, dalle costruzioni all’artigianato. Colpisce infine un dato: questi nuovi im- prenditori danno lavoro, nei calcoli di Unioncamere, a circa 3 milioni di italiani. Sono numeri sufficienti a mandare in frantu- mi tutti gli stereotipi che affollano l’immagi- nario sull’immigrazione, soprattutto femmini- le. Lungi dal subire un destino imposto dalla società o dal mercato, sempre più straniere dimostrano di avere la creatività e la grinta per seguire le proprie inclinazioni, incidendo con forza nel terreno umano ed economico in cui agiscono. Di loro tuttavia si parla poco: i media ten- dono a raccontare il fenomeno migratorio sempre dalla medesima prospettiva, secondo schemi predefiniti. Per questo la Provincia di Roma sta finanziando un progetto — Migra- zione donna: una risorsa — che mira a pro- muovere degli incontri diretti tra alcune im- prenditrici straniere e la cittadinanza. Un’ini- ziativa inedita che nell’intenzione delle idea- trici, Sarah Zuhra Lukanic e Maria Antoniet- ta Mariani, presenta all’opinione pubblica un’immagine più ricca e completa dell’immi- grazione femminile. Tra le protagoniste del primo appuntamen- to, Aida Ben Jannet, nata a Tunisi nel 1970, che ha rilevato l’azienda italiana per cui lavo- rava dopo averla salvata dal fallimento. Quando racconta la propria storia, Aida pre- mette: «È l’Italia che mi ha cercata e non vi- ceversa». Dopo la laurea in giurisprudenza, infatti, un caro amico di famiglia, Ermanno, le chiede una mano per rimettere in sesto il suo negozio di autoricambi alle porte di Ro- ma. Aida accetta e nel 1995 parte, ma in po- chi mesi la situazione precipita. Il negozio accumula un debito di 120 milioni di lire ed Ermanno si ammala. Lei non vuole abbando- narlo e decide di restare. Tira avanti per un po’ con tanti sacrifici, finché anche lei non ha una grande intuizione imprenditoriale. «Non avevamo più niente da vendere e un giorno per tenermi occupata ho aperto dei vecchi scatoloni da buttare. Erano pieni di pezzi d’auto d’epoca, messi via anni prima perché non avevano mercato. Li ho tirati fuori, puliti e sistemati sugli scaffali: erano bellissimi! Poi, ho iniziato a leggere cataloghi e manuali d’istruzione. E mi sono appassio- nata. I clienti, notata la novità, hanno indi- rizzato da noi collezionisti ed esperti del set- tore: è stata la nostra salvezza!». Oggi sul negozio campeggia una bella insegna: Autori- cambi Aida , anche se chi entra per la prima volta scambia sempre la proprietaria per la commessa: «Faticano ad accettare che una dell’Opera continuano a fissarmi come fossi un’extraterrestre!». Al contrario, ciò che tutte queste donne lamentano con forza sono gli ostacoli burocratici, le troppe tasse e le diffi- coltà a ottenere finanziamenti. Raramente, tuttavia, vogliono andarsene. Continuano a combattere nella certezza che la crisi passerà. «Come potrei dire ai miei figli che in Italia non c’è futuro?», si chiede Edith. «Non sa- rebbe giusto, questo è il loro Paese e hanno il diritto di crescere con le speranze e i sogni della loro età». Anche lei è arrivata qui dopo il matrimonio con un italiano e a un certo punto ha sommato la sua esperienza in Ma- dagascar con le esigenze del nuovo Paese. «Ho iniziato con la vaniglia, spezia che la mia famiglia coltiva da quattro generazioni. In Italia se ne usa tanta, ma quasi sempre sintetica. Sono andata in Madagascar, ne ho preso qualche chilo e l’ho venduto alle pa- sticcerie di Torino». Da lì, negli ultimi dieci anni è stata una continua escalation. Edith ha seguito un cor- so di alimentazione, ha messo su un’attività di import e commercio di spezie da tutto il mondo, ha avviato diverse piantagioni in Madagascar che in alta stagione danno lavo- ro anche a 300 persone e nel 2010 è stata no- minata Imprenditore straniero dell’anno, nell’ambito del MoneyGram Award, presti- gioso premio dedicato all’imprenditoria im- migrata in Italia. Nella categoria Innovazione, l’anno suc- cessivo, lo stesso riconoscimento è andato a Margarita Perea Sánchez, sarta colombiana che nel 2005 ha aperto la propria attività a Roma. Giunta in Italia nel 2001 con il marito e il figlio, oggi ventenne, all’inizio Margarita si è arrangiata con impieghi occasionali. Poi, ha trovato lavoro in un’importante sartoria della capitale e ha messo i soldi da parte per aprire la Clinica dei vestiti , nome che rende omaggio al sogno della sua infanzia: «Volevo fare il medico ma non potevamo permetterci l’università e mio padre ha insistito perché imparassi a cucire». Oggi Margarita oltre a creare nuovi abiti, con grande passione si prende cura di quelli vecchi: li accomoda, li ripara, dona loro una seconda vita. «Fino a poco tempo fa — spiega — la crisi giocava a mio favore. La gente preferiva aggiustare i vecchi vestiti, che comprarne di nuovi. Ora però non ci sono neanche più i soldi per le riparazioni». Margarita, tuttavia, non si dà per vinta: «Nel mio piccolo voglio dare un contributo per risolvere questa brutta crisi, sono un’otti- mista e non perdo mai la speranza. Forse — ride — fa parte dello spirito latinoamericano, basti vedere cosa è riuscito a fare Papa Fran- cesco: grazie a lui la gente ha ricominciato a credere nel futuro!». Il romanzo David Golder Quando Irène Nemirovsky scrisse il racconto breve David Golder (1929) fu accusata di antisemitismo. Il protagonista era, infatti, un vecchio ebreo che era stato venditore di stracci a New York ma che, usando ogni spregiudicatezza, si era smisuratamente arricchito. In realtà l’autrice, che era ebrea e morì in un campo di concentramento, non aveva ovviamente alcuna intenzione antisemita bensì quella di scrivere un’audace, profonda e crudele storia sul denaro. È il denaro che muove ogni azione del vecchio finanziere che al suo dio sacrifica tutto: affetti, amicizie, sentimenti, la sua stessa vita fino a ritrovarsi solo e circondato dall’odio di fronte alla morte. Per Golder i soldi non sono un mezzo per vivere e far vivere meglio, non sono uno strumento per arrivare a un futuro migliore, non sono, come nell’etica protestante, delineata da Weber, la dimostrazione del proprio valore o della benevolenza di Dio: il danaro ha un valore in sé, che quasi prescinde dall’uso che se ne fa e dalle conseguenze che quest’uso può provocare. Il libro può essere letto oggi come una metafora di quello spregiudicato mondo della finanza dove il denaro produce e riproduce se stesso annullando ogni umanità. ( @ritannaarmeni ) Il film We Want Sex Inghilterra, 1968: la fabbrica della Ford è il cuore industriale dell’Essex, con i suoi cinquantacinquemila operai. Ma mentre gli uomini lavorano nel nuovo dipartimento, 187 donne cuciono i sedili in pelle nella parte della fabbrica costruita nel 1920 che, letteralmente, cade a pezzi. E quando poi le lavoratrici si ritroveranno classificate come operaie non qualificate il vaso sarà davvero colmo: con coraggio, determinazione e una buona dose di ironia, riusciranno a farsi ascoltare da sindacati, comunità locale e governo, arrivando a porre le basi della legge inglese sulla parità di diritti e salario. Ma non sarà facile: dietro il famoso sciopero del 1968, infatti, non vi fu solo il risvolto pubblico della rivendicazione. Forse, fu proprio la dimensione personale e familiare quella più dura da gestire. Tutti aspetti questi che il film del regista britannico Nigel Cole We Want Sex ( Made in Dagenham , 2010) riesce a cogliere e raccontare — anche grazie alle interpreti Sally Hawkins, Miranda Richardson e Rosamund Pike — con grande maestria. Cinematografica e storica. ( @GiuliGaleotti ) N ASCE IN I NDIA UN NUOVO MOVIMENTO Lanciare un messaggio di emancipazione e di dignità; riscoprire il ruolo della donna nella Chiesa, uscendo dai cliché di subordinazione; ribadire l’importanza del contributo femminile nella società indiana, segnata da gravi e frequenti episodi di stupri impuniti: per questo concorrere di ragioni, nel corso di una conferenza nazionale tenutasi a Bangalore — riferisce Fides — è stato lanciato nel Paese il Movimento delle donne cristiane, che intende ripartire dalla valorizzazione della donna, promossa dal concilio Vaticano II e dalla Mulieris dignitatem , e rilanciata espressamente da Papa Francesco. L’urgenza di dare voce alle donne cristiane nella Chiesa e nella società, soprattutto alle più povere ed emarginate, per tutelare i diritti di tutte è reale: per questo centinaia di religiose e laiche di diverse confessioni cristiane hanno dato vita a un progetto che vuole «sfidare la mentalità patriarcale e promuovere pari diritti». Tra i fondatori del movimento vi è la Commissione per le donne che agisce in seno alla conferenza episcopale dell’India. Un comitato di nove membri è stato subito formato allo scopo di allargare il movimento e di elaborare le modalità della sua presenza attiva nella società indiana. E SSERE DONNE IN M ALAWI La maggior parte abbandona subito gli studi: si sposano giovanissime, diventano madri molto presto, arrivando ad avere una media di sei figli, con parti che avvengono per lo più in casa, in solitudine o con l’aiuto di personale non qualificato, per colpa della mancanza e della precarietà delle strutture ospedaliere esistenti. È una situazione drammatica quella del Malawi, il cui tasso di mortalità materna è di 460 vittime ogni centomila parti. Alla luce di tutto questo è particolarmente prezioso il lavoro svolto dai sanitari dell’ospedale di Mtendere, grande villaggio a un centinaio di chilometri a sud-est della capitale Lilongwe, con la collaborazione della ong cattolica Manos Unidas. Oggi si sta lavorando alla costruzione di un nuovo reparto di maternità dotato di sala operatoria, onde limitare i rischi per mamme e nascituri. Se lo scorso anno nel solo ospedale di Mtendere sono stati effettuati quasi un migliaio di parti, la mancanza di una sala operatoria per realizzare i cesarei obbligava il trasferimento di molte donne. Alcune nell’ospedale di Dedza, purtroppo carente di farmaci e personale qualificato, altre a Lilongwe, distante ottanta chilometri. Dove, spesso, si arriva quando è troppo tardi. R AGAZZE IN CORO A C ANTERBURY Dopo oltre mille anni, una rivoluzione è avvenuta nel coro della cattedrale di Canterbury: a quello maschile, infatti, si è affiancato per la prima volta nella storia il Canterbury Cathedral Girls’ Choir. È composto da sedici ragazze di età compresa tra 12 e 16 anni, selezionate nelle audizioni partite lo scorso novembre, che hanno visto una grande partecipazione in termini di entusiasmo e, soprattutto, di capacità vocali. In molti, tra cui il direttore del coro David Newsholme, hanno salutato l’apertura come un arricchimento per la tradizione canora della cattedrale. Eppure per ora è solo previsto che le ragazze cantino durante le funzioni in qualità di sostitute. Quando i ragazzi cioè sono impegnati altrove. S UOR C ARMEN E I DIRITTI UMANI IN P ERÚ Si è rifiutata di firmare un rapporto ufficiale pretestuoso sul tragico conflitto avvenuto nel 2010 a Bagua, nella foresta settentrionale del Perú, quando morirono una trentina di persone, e oggi prosegue imperterrita a lavorare per chiarire gli eventi e le responsabilità politiche che diedero origine a quella strage. Anche per questo, in occasione della giornata universale dei diritti umani, suor María del Carmen Gómez Calleja ha ricevuto il Premio nazionale peruviano dei Diritti umani 2013, assegnato annualmente dalla Commissione nazionale dei diritti umani del Paese sudamericano a chi si impegna nel duro lavoro di difesa dei diritti fondamentali. La missionaria spagnola, che lavora nel vicariato di San Francisco a Bagua appunto, appartiene alla Congregazione di San Giuseppe che da quasi mezzo secolo accompagna i popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana. Suor Carmen, in particolare, da sei anni si dedica alla promozione delle donne indigene Awajun. I MINORI UCCISI IN H ONDURAS Secondo la ong Casa Alianza, che tutela i minori in America Latina, tra il gennaio 2010 e il dicembre 2013 sono stati assassinati in Honduras 3.800 bambini e ragazzi con meno di 23 anni. È dal 1998 che la ong raccoglie le statistiche su questi omicidi. Nel 2013 sono state registrate 1.013 morti violente di bambine, bambini e giovani, con un aumento di 102 casi rispetto all’anno precedente. Solo nel mese di dicembre ne sono stati uccisi 87 (70 maschi e 17 femmine). L’ong ha denunciato l’impunità con la quale si commettono questi reati: la percezione diffusa tra i cittadini è che la polizia si limiti a raccogliere i corpi e, laddove richiesti, a consegnarli alle rispettive famiglie, ma nulla di più. Questi omicidi rimarrebbero solo un documento tra gli atti giudiziari. Il quadro che ne esce conferma il dato che caratterizza l’Honduras, catalogato come uno dei Paesi più violenti del mondo. F RANZ E F RANZISKA Nel 1943 un contadino cattolico austriaco, Franz Jägerstätter, fu condannato a morte dal tribunale di guerra di Berlino perché si era rifiutato di prestare servizio nella Wehrmacht. A lungo dimenticata, la vicenda di quest’uomo che scelse di seguire la sua coscienza di cristiano a scapito dell’obbedienza all’autorità politica ed ecclesiastica — la gerarchia cattolica austriaca, infatti, si era allineata alle posizioni del nazionalsocialismo — è oggi al centro del volume Una storia d’amore, di fede e di coraggio. Franz e Franziska Jägerstätter di fronte al nazismo (il Pozzo di Giacobbe, 2013). Curato da Giampiero Girardi e Lucia Togni, il libro presenta Franz attraverso le lettere che si scambiò con la moglie Franziska dal giugno 1940 fino alla vigilia della morte. Lettere nelle quali, tra l’altro, si rinviene — come scrive Daniele Menozzi nell’introduzione — «la testimonianza di una concreta pratica del cristianesimo che anticipa orientamenti rinvenibili solo decenni più tardi, allorché il mondo cattolico si mise alla ricerca di una più profonda intelligenza del Vangelo». A L FESTIVAL DI D HAKA Rappresentare con rispetto le donne nei film e, più in generale, migliorare il ruolo femminile nel mondo del grande schermo e dei media: sono queste le richieste emerse nel corso della Conferenza internazionale sulle donne nel cinema, organizzata nell’ambito del tredicesimo Dhaka International Film Festival, che si è svolto nella città del Bangladesh in gennaio. La rassegna, intitolata quest’anno «Film migliori, pubblico migliore, società migliore», ha visto alternarsi un totale di 180 pellicole, con una sezione speciale dedicata al cinema asiatico e australiano. E dal dibattito, molto partecipato, è emersa soprattutto la preoccupazione condivisa per la rappresentazione delle donne come simboli sessuali. In particolare nelle grandi produzioni di Hollywood e di Bollywood. C HRISTINA S TEPHENS E LA PROTESI DI L EGO A causa di un incidente sul lavoro, Christina Stephens — giovane terapista e ricercatrice clinica — ha subito l’amputazione di una gamba, dal ginocchio in giù. Per sdrammatizzare la protesi, nel salotto di casa, la ragazza statunitense si è costruita, mattoncino dopo mattoncino, una coloratissima gamba finta con i Lego. Nessuna pretesa scientifica, ovviamente, ma molta autoironia. Le fasi della creazione di Christina sono visibili sul suo canale YouTube, AmputeeOT. Il saggio Tre ghinee Tre ghinee a disposizione e tre richieste di denaro: è il 1938 quando Virginia Woolf, scrittrice britannica già di successo, pubblica un breve saggio che farà storia. Mentre l’Europa è sull’orlo del baratro, le chiedono aiuto un’associazione pacifista maschile che si oppone alla guerra imminente, un’associazione che si occupa di istruzione superiore femminile e una che aiuta le donne a inserirsi nel mondo del lavoro. Volendo rendere il suo denaro uno strumento di cambiamento, Woolf decide. Darà la prima ghinea all’istituto d’istruzione, a condizione però che l’istruzione impartita non sia copia di quella maschile, ma costruisca invece una cultura differente, insegnando «non l’arte di dominare», ma «l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri». La seconda ghinea sarà per l’associazione che aiuta le donne ad accedere alle professioni, a patto però che ci si impegni affinché, con l’ingresso femminile, tali professioni si trasformino. La terza ghinea all’associazione pacifista maschile perché persegue l’obiettivo comune a quello delle donne, anche se queste sceglieranno metodi e mezzi diversi per raggiungerlo. Tre ghinee da una donna per ridar valore alle donne.( @GiuliGaleotti ) I soldi erano per lei un mezzo da usare con tutta la perizia necessaria per realizzare la volontà di Dio nel mondo «Devo lavorare come una giovanotta Devo sostenere forti ragioni contro forti uomini ingannatori» Come una donna d’affari La testimonianza di suor Rachele, responsabile della clinica Columbus di Milano Titolari scambiate per commesse Inchiesta sulle donne straniere che hanno avviato imprese in Italia L’Italia offre lavori come colf, cameriera e badante Loro hanno fondato ditte di pescatrici o sono a capo di autofficine o di attività di import-export con il suo occhio attento che quelli erano ter- reni destinati a salire di prezzo con l’espansio- ne urbana e ordinò di acquistarli immediata- mente, finché il prezzo era basso. Un analogo progetto concepì per Panama, dove scrive il 5 maggio 1892: «Io vorrei che prendeste da 400 a 600 manzane di terreno, metà nel Rio S. Juan che vi sono posizioni incantevoli e una terra che rende molto, e metà a Bluefields, ma sempre sulle rive, s’intende. Ora spenderete meno di un soles alla manzana, ma fatto il ca- nale verrà un prezzo enorme». Senza paura del denaro L’attualissima lezione di santa Francesca Cabrini di R ITANNA A RMENI Suor Rachele è una donna vivace e di buon umore. E con spirito pratico, molto ottimismo e qualche audacia svolge il ruolo di responsabile della clinica Co- lumbus di Milano, 130 posti letto, cin- quemila malati l’anno, tecnologie di avanguardia, personale ultraspecializzato. La Columbus è di proprietà dell’Isti- tuto delle missionarie del Sacro cuore di Gesù di Francesca Cabrini ed è nato nel 1938 quando l’allora generale delle ca- briniane Antonietta Della Casa chiese al cardinale Schuster di costruire una chie- sa dedicata alla fondatrice. Il cardinale rispose: «Di chiese a Milano ce ne sono tante, meglio un ospedale». Così le suo- re cabriniane presero la villa Faccanoni Romeo, capolavoro dal modernista Giu- seppe Sommaruga, poi ristrutturata da Giò Ponti, e la trasformarono in una ca- sa di cura. Suor Rachele è lì da dieci anni e, an- che se gestisce milioni di euro, non si sente una donna d’affari: «Il mio compi- to principale è evitare che questa nostra creazione abbandoni il carisma dal quale è nata». Ma poi proprio come una don- na d’affari decide e rischia. «Quando do- vevamo stabilire se ristrutturare la sala operatoria avevo molti dubbi e anche qualche timore. Era un investimento grande, quattro milioni, per noi un ri- schio. Alla fine mi sono decisa. Chi do- veva fornire i macchinari ci ha proposto un patto: loro avrebbero dato le macchi- ne per un milione e mezzo di euro, noi le sale. Ho accettato, e non solo perché c’era la divisione del rischio, ma perché ho capito che l’azienda ci credeva e quindi l’operazione sarebbe andata a buon fine». Aveva visto giusto. Di denaro alla Columbus se ne gesti- sce molto, ma la responsabile non pare aver alcun timore di sporcarsi le mani. Non pensa mai che gli affari possano prendere il sopravvento sul carisma? le chiedo. Ride, ha un gran senso dell’umorismo: «Qualche volta forse, quando vedo che la clinica è piena di malati e mi sorprendo a pensare che questo è bene perché ci consentirà di andare avanti. Lo so, non dovrei pen- sarlo. Ma è un pensiero momentaneo. Per me, per noi la gestione del denaro è un modo di fare apostolato, evangeliz- zazione». La dimostrazione sta in quell’hospice costruito per i malati terminali di cancro collegato con l’ospedale Sacco di Mila- no. «Un esempio — dice — di collabora- zione fra pubblico e privato. Le rette neppure bastano a coprire le spese quo- tidiane. Il lavoro delle suore è determi- nante per mandarlo avanti». L’insegnamento di madre Cabrini ri- mane al centro del lavoro di suor Ra- chele. La formazione di cabriniana è fondamentale nel suo lavoro. «Madre Francesca apriva due scuole — ricorda — una per ricchi e una per poveri e con i soldi dei ricchi sosteneva i poveri che volevano studiare e il denaro andava da una parte all’altra. Così noi oggi reinve- stiamo nelle nostre opere e nelle opere degli altri. Il denaro dobbiamo usarlo per quello che ci serve. Fra i nostri compiti c’è quello di formare il persona- le in modo che nel suo lavoro non ci sia solo tecnica e professionalità, ma si ispi- ri anche ai principi della solidarietà, dell’aiuto, dell’abnegazione. Senza que- sta etica la professionalità è monca ed il denaro allora sì che è sporco, perché è investito male». Due lavoratrici della cooperativa Bio&Mare al lavoro (accanto) Sotto, Aida Ben Jannet nella sua autofficina (foto di Francesco Chiorazzi) donna si intenda di auto e che una straniera sia la titolare dell’attività». Con Aida lavorano suo marito, che ha la- sciato il proprio lavoro a Tunisi per sostener- la, e un dipendente italiano. A casa l’aspetta- no suo figlio, nato in Italia sette anni fa, e il vecchio amico Ermanno, preso a vivere con loro quando si è ammalato di Alzheimer. Ai- da e il marito sono musulmani, ma hanno scelto di mandare il figlio in una scuola cat- tolica «dove non ci sono differenze tra il ne- ro e il bianco, il ricco e il povero, l’italiano e lo straniero. Il migliore amico di mio figlio — racconta — è cattolico e poche settimane fa hanno condiviso l’emozione della visita della scuola al Papa». La vera integrazione passa da qui, le mamme straniere ne sono convinte. Trovarsi ogni giorno fianco a fianco con i coetanei italiani nelle aule, sugli autobus, nelle palestre aiuta le nuove generazioni ad annullare differenze e pregiudizi. Edith Eloise Jeomazawa, malgascia, titola- re di un negozio di spezie a Torino ( Atelier Madagascar ), di figli in Italia ne ha messi al mondo quattro e da qualche tempo li cresce da sola. «I più grandi — racconta — sono adolescenti e non vivono più il colore della pelle come un problema, mentre il più picco- lo ancora mi fa tante domande. Poco tempo fa, tuttavia, nella scuola dei gesuiti che fre- quenta, è venuto in visita un famoso giocato- re afroamericano di basket: per i ragazzini è diventato subito un idolo e mio figlio ora è orgoglioso di essere nero come lui!». Edith, come tante altre imprenditrici straniere, rac- conta che dopo una certa diffidenza iniziale, la gente l’ha accolta bene: «Solo al teatro

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