donne chiesa mondo - n. 20 - febbraio 2014

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne L’università aperta in India dei poveri per i poveri Le donne di Bunker di M ARIA P ACE O TTIERI T ilonia, un piccolo villaggio sonnolento e dimen- ticato nell’India nord-occidentale, è il luogo scelto nei primi anni Settanta da Bunker Roy, giovane laureato di Delhi, ispirato dal desiderio di la- vorare con i poveri dei poveri, coloro che non sempre riescono a mangiare due volte al giorno. Milioni di contadini nelle campagne indiane vivono in stato di paura e insicurezza, subiscono ingiustizie quotidiane, sopravvivono ben al di sotto della soglia ufficiale di povertà, eppure sono perfettamente in gra- do di pensare in modo collettivo alla loro vita in mo- do più pratico e competente di qualunque esperto ve- nuto dalla città. Il governo non sembra realizzare che i contadini hanno alle spalle secoli di tradizioni e che, d’altra parte, miliardi di aiuti e anni di consulenze di esperti cittadini non sono riusciti ad alleviare minima- mente la povertà. Miliardi di dollari sono stati spesi negli ultimi cinquant’anni da governi, agenzie interna- zionali e donatori per cercare di risolvere senza risul- tati il problema della disoccupazione. Il primo degli obiettivi era ridare fiducia agli abitanti delle campagne, indurli a scoprire le loro risorse prezio- se, aiutarli ad affidarsi alla loro radicata esperienza per trovare il modo di restare al villaggio invece di emigra- re nelle grandi città. Nei quarant’anni di esistenza il Barefoot College, la sola università al mondo fatta da poveri per i poveri, ha addestrato a una professione centinaia di migliaia di uomini e donne che nessuno avrebbe impiegato. I criteri per la selezione sono sem- plici: devono essere poveri e analfabeti o semianalfabe- ti. Le donne sono state fin dagli inizi l’elemento chiave della comunità. Aruna Roy, moglie di Bunker, diventata più tardi una notissima attivista politica in India, fu la prima a spronare le donne dei villaggi a incontrarsi. Nel terro- re di essere scoperte da mariti e figli, dicevano di an- dare al gabinetto in aperta campagna per poter allon- tanarsi da casa. E in quelle riunioni clandestine senti- rono per la prima volta pronunciare la parola diritto: il diritto di andare a scuola, di avere un buon lavoro, di guadagnare, di portare acqua e luce nelle loro case. Nessuna però immaginava quanto radicalmente sareb- be cambiata la sua vita. Ogni incontro dava loro più forza, ne faceva emergere la personalità: contadine Ecco, Agata La santa del mese raccontata da Pietrangelo Buttafuoco Giornalista e scrittore, Pietrangelo Buttafuoco (Catania, 1963) scrive per «Il Foglio» e «la Repubblica». Tra i suoi libri, Le uova del drago (2005), L’ultima del diavolo (2008), Il lupo e la luna (2011), Fuochi (2012), Il dolore pazzo dell’amore (2013). B uttati giù dal letto tutti corrono per strada. Ancora è notte fonda. Indossano la sola ca- micia e la papalina. Uomini e donne, bam- bini e vecchine, stanno col cero in mano e sciamano ovunque. Anche il vescovo è con loro. E poi il sindaco. Ecco, Agata. Sacra ancor prima che santa. Catania la venera e il presagio delle sue virtù comincia già dal 246, anno della sua nascita, imperante Decio, al tempo di Quinziano. Proconsole di Roma, Quinziano fu l’uo- mo che le rivolse — mai ricambiato — l’amore e il desi- derio carnale fino ad affidarla alla lascivia di due gran dame e di Afrodisia, una cortigiana, affinché ne cor- rompessero le virtù, ma invano. Questo amore mai cor- risposto lo raccontò in una tragedia Antonio Aniante. Quinziano , appunto. Un’opera degli anni Trenta, un in- nesto d’avanguardia nel solido ceppo dell’agiografia af- fidata a Turi Giordano, un attore. Ecco, Agata. Ragazza di grande educazione, coltiva- ta secondo i costumi dell’aristocrazia che la seguì fin tra le braci della tortura per sostenerne il respiro e farle proclamare, al modo di un hidalgo , «io non sono solo libera di nascita ma provengo da alto lignaggio». Vestita di solida ricchezza parlò innanzi alle autorità del palazzo pretorio. E, con la consapevolezza del pro- prio rango, aggiunse: «Così come a tutti voi è noto es- sendo qui presente tutta la mia nobile parentela». Agata il cui nome è tra i più antichi nel martirologio della Chiesa ortodossa e di Santa Romana Chiesa ebbe a patire il tormento mentre una mano, pietosa, ne pro- tesse il pudore coprendola con un velo che ancora oggi — nel 2014 — riesce a placare la fornace di Etna, sempre pronta a inghiottire la città. Nel 252, un anno dopo la morte (che avvenne il 5 febbraio, la data in cui la cele- briamo), dal cratere del vulcano traboccò la lava fino a farsi largo tra le case. Fu quel velo a fermarne la corsa. Lo stesso miracolo si ripetè nel 1886. Si aprì nel cono una nuova bocca e lava precipitò cercando facile via nella discesa. Era il 24 maggio e il cardinale Dusmet saliva da Ca- tania in processione, lungo la stessa traiettoria. Aveva con sé il velo e tutta quella morte rovente ebbe a fer- marsi contro ogni legge di gravità e lì si spense. Un al- tare, ancora oggi, lo ricorda. Condotto in processione, il velo protesse il popolo dal tremendo terremoto del 1169. E così dalla peste, dalla furia saracena che solo nella costa catanese — temendo di offendere Agata — fermò le stragi e i saccheggi; Federico II di Svevia, pronto a mettere a ferro e fuoco Catania, acconsentì che venisse celebrata un’ultima messa in onore di Aga- ta, presenziò egli stesso ma — leggenda vuole — sul suo breviario ebbe a leggere un monito e la risparmiò. Noli offendere patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est . Non si è mai dato un istante in cui Catania sia stata orba di Agata e quando gli americani, dalle loro fortez- ze aeree, nel luglio del 1943 bombardarono minuziosa- mente ogni angolo, perfino gli ospedali, ebbero a tro- vare come unico scudo, messo a far da contraerea, quel velo. E fu quel velo che seppe poi tenerli lontani e fu così che le sacre, più che sante, reliquie non diventaro- no allora maceria tra le macerie. Agata il cui segnacolo è un’autorità regale chiama a sé gli angeli e il blu dei cieli per attestare l’unicità di Dio. Santa protettrice di Palermo che la onora ai Quat- tro Canti, il vertice dei quattro quartieri della felicissi- ma caput regni et sedes regis , dunque accanto ai quattro re e alle altre sante — Cristina, Ninfa e Oliva — Agata è patrona di Catania che diventa magma ai suoi piedi. Tutti sono buttati giù dal letto e tutto quello squa- gliare di fuoco — ciascuno con la candela — trasforma le strade, da nere che sono, scure di pietra lavica, in un impasto di chiarore e devozione. Più sacra che santa, Agata di Catania fa propri gli attributi di Iside, la divi- nità remota del Mediterraneo sacro. La religione è pro- priamente re-ligere , il legare insieme il tempo e i luoghi, le anime e l’eterno. Ecco, Agata. È vergine e martire. Bella di ogni bellez- za — nel culto tributatole ancora quale patrona etnea, di Galatea, di Gallipoli, di Malta e della libera Repubblica di San Marino — Agata conferma tutto ciò che la dea votata alla fede in Horus, il Rinato, ha già profuso nei millenni: fare uguale il potere delle donne e degli uomi- ni. E fare della luna un vivo sole, fare dell’affanno una consolazione e così trasformare la tomba in un infinito sublime dove l’ex voto di un bambino scampato a un cancro fulminante convive col bisogno — per un padre di famiglia — di vedere stabilizzato il proprio contratto di precario presso la Regione siciliana. Tutto uno scambio di preghiera e misericordia tangi- bile già agli angoli, di fronte al mare, dove tutti — ve- stiti nel sacco della notte, con il cappelluccio nero in testa — nella edificazione delle edicole votive e poi nell’uscire per strada, invocandone la presenza, replica- no la chiamata del 17 agosto 1126 quando Gilberto e Goselmo, due soldati, riuscirono a riportare le carni di Agata trafugate a Costantinopoli nel 1040. Tutto si ripete e l’intera municipalità è in pigiama, insomma: i cittadini tutti accorrono alla notizia. Pure i mafiosi. Ma questi l’aspettano per farsene vanto, co- stringono il fercolo a una sosta sotto il balcone della loro casa. Accade che la notte del 4 febbraio 1993, nei pressi di via Plebiscito, un malacarne volle fermare per proprio orgoglio una delle dodici candelore e così ma- gnificare l’istante di presenza di Agata. Solo che padre Alfio Spampinato, cappellano militare della Folgore, nell’amministrare una benedizione con tanto di segno di croce assestò un ceffone sul volto del prepotente per farlo inginocchiare e lasciare camminare i devoti, liberi finalmente di pagare pegno alla prepotenza e prosegui- re, tra ceri e cori, nella festa agatina. Tutto uno scambio di mondi e di epoche, ancora og- gi. Nel trionfo del suo simulacro, florido di vita, nell’or- goglio del seno Iside portava conforto alle genti. Dalle sabbie d’Egitto fino al tempio eretto in suo onore dalle vergini di Benevento, sotto Diocleziano, Iside — condot- ta in trionfo — faceva pappa del suo stesso corpo mistico nel segno della dolcezza di un seno moltiplicato nella fe- licità di dare vita. Come dà vita quell’idea di gastrono- mia diventata poi, con Giuseppina Torregrossa, Il Cunto delle Minne : i pasticcini di Catania, fatti a forma di seni, con i capezzoli di marzapane. Quelli che vengono rega- lati dalle nonne alle ragazze. E sempre due di due. Iside abitò il culto di Demetra, quindi ebbe trasfigurazione nella Vergine — ebbe l’infante tra le braccia — e così Agata, come l’archetipo, è resa sovrana da san Pietro che la visitò in carcere per recarle conforto prima che le venissero estirpate le mammelle. Incoronata, Agata è assisa nella gloria della fede in Cristo, il Risorto, e perciò procuratrice per i devoti di copiose benedizioni e intercessioni presso Iddio, il ter- mine ultimo di un dominio dove quelle stesse maree, i sommovimenti della crosta terrestre e, non ultimi, gli incubi, vengono capovolti in sogni; in declivi sovrab- bondanti di ginestre — quella terra, come quando le piante bucano la pietra — e poi ancora in fragrante schiuma il cui rumoreggiare, nelle onde, ripete la pre- ghiera di Agata. Contadine analfabete sono così state in grado di guidare le lotte per i diritti al salario, all’informazione e contro la corruzione analfabete hanno guidato le lotte per i diritti al sala- rio, all’informazione, contro la corruzione. La prima battaglia comune è stata contro un proprietario terriero che aveva fatto dirottare il canale d’irrigazione dello stagno a cui tutti attingevano per irrigare. Cinquemila donne sono andate a Jaipur e hanno protestato con un sit in di un giorno e una notte di fronte all’ufficio del funzionario del distretto. Naurti è stata all’origine del primo sciopero di donne per rivendicare il diritto al sa- lario minimo durante i lavori per la carestia. Nel suo villaggio Harmara, dopo essere stata eletta nell’organo di amministrazione locale e al campus del Barefoot College, si occupa della postazione internet e insegna l’uso del computer alle più giovani. Ha imparato a orientarsi sulla tastiera ancora prima di saper leggere e scrivere. Un grande avvenimento nella storia di Tilonia è sta- to il Mahila Mela, la fiera organizzata nel 1985 con tre- mila donne venute da sedici Stati indiani, a seguito dell’invito di Aruna Roy a partecipare alla conferenza delle donne di Nairobi. Proprio in quei giorni un uo- mo del villaggio di Ganespura venne a denunciare lo stupro della figlia undicenne mentre portava al pascolo gli animali. Le donne, che tra discussioni e canti si era- no nel frattempo affiatate tra loro, decisero di andare a Kishangarh, stipate sui trattori. Per giorni sono rimaste sedute davanti al tribunale, senza mangiare: non si sa- rebbero mosse finché il ragazzo non fosse stato arresta- to. Finalmente una sera lo stupratore fu arrestato: solo dopo averlo visto in faccia le donne accettarono di tor- nare a Tilonia. Il giorno dopo, nel vecchio campus, si parlò del problema degli stupri, di cui mai avrebbero osato parlare prima, soprattutto in pubblico. L’elenco di donne coraggiose che si sono impegnate a migliorare la vita di centinaia di contadini è infinito: Naurti, Galkuma, Rajan, Sau Bua, Rukma Bai… Negli ultimi anni, Bunker Roy e il Barefoot College si sono dedicati in particolare ad addestrare donne che proven- gono da villaggi africani, asiatici e sudamericani ad as- semblare, installare e riparare sistemi di illuminazione fotovoltaica. Tornate a casa dopo sei mesi di training a Tilonia, hanno portato la luce nei loro villaggi, riuscen- do a rendersi credibili agli occhi delle famiglie che pa- gano tutti i mesi una quota per il funzionamento del sistema. Infondere fiducia nei contadini analfabeti è la sola strategia capace di dare frutti. Donne sudanesi al Barefoot College Piero della Francesca, «Sant’Agata» ( XV secolo)

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