donne chiesa mondo - n. 13 - giugno 2013

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO giugno 2013 numero 13 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo La semplicità del martirio materno Nelle omelie dell’arcivescovo salvadoregno Óscar Romero di V INCENZO P AGLIA I n una celebrazione eucaristica a cui partecipavano le madri che avevano avuti i figli desaparecidos , l’arcivescovo Romero presenta Maria come loro mo- dello: «Sin dall’inizio — dice loro — da quando cioè presenta il suo figlio al tempio, Maria si sente dire che una spada le trafiggerà l’anima». E continua: «Nessuna di voi ha udi- to agli inizi della vita dei propri figli un profe- ta che vi annunciava la fine terribile e sangui- nosa di vostro figlio. Se una madre, come ac- cadde a Maria, sapesse fin dall’inizio che il fi- glio sarebbe morto tragicamente e che il suo cuore sarebbe stato trafitto da una spada, tut- ta la sua vita sarebbe stata un calvario e una sofferenza indicibile. Maria, pertanto, è il mo- dello delle madri che soffrono». L’arcivescovo, a questo punto, allarga l’oriz- zonte e interpreta il dolore di quelle madri an- che come una testimonianza contro l’ingiusti- zia: «Come Maria ai piedi della croce, ogni madre che soffre per la fine tragica del suo fi- glio, è anche una denuncia. Maria, madre do- lorosa, di fronte al potere di Pilato che gli ha ammazzato ingiustamente il figlio, diviene es- sa stessa un grido di giustizia, un grido di amore, un grido di pace, un grido per dire al mondo ciò che Dio vuole che si faccia e ciò che Dio non vuole che accada». E verso la fine dell’omelia, si rivolge a tutti i partecipanti alla messa, e identifica Maria con il popolo che soffre. «Qui sta il segreto: il dolore è inutile quando si soffre senza Cristo. Ma quando il dolore umano continua quello di Cristo, diviene un dolore che salva il mon- do. È come il dolore di Maria: un dolore sere- no e pieno di speranza. Anche quando tutti erano disperati di fronte alla morte di Gesù in croce, Maria stava serena aspettando l’ora del- la risurrezione. Maria è il simbolo del popolo che soffre per l’oppressione e per l’ingiustizia. Il suo dolore è sereno perché aspetta l’ora del- la risurrezione. Questo è il dolore cristiano, questo è il dolore della Chiesa che mai va d’accordo con le ingiustizie. Maria, senza ri- sentimenti, aspetta l’ora in cui il risorto torne- rà per darci la redenzione che aspettiamo» (omelia, 1 dicembre 1977). Una ragazza di diciassette anni, G. Mirna García scrive questa lettera all’arcivescovo rin- graziandolo per le omelie che continua con coraggio a rivolgere al suo popolo: «Monsi- gnore, mai prima d’ora mi ero rivolto a lei ma ora ho necessità di farlo per ringraziarla pro- fondamente di tutti gli sforzi che sta facendo perché i diritti e i doveri di tutti noi siano ri- spettati. Da quell’umile contadino tanto pieno di bontà, di dolore, tanto crudelmente mal- trattato fino a quelli che da vicino sentono il suo costante lavoro le dico un eterno grazie. Ho diciassette anni, con pochissima esperien- za nella vita ma sufficiente per esprimere a lei questo dolore che sento nel veder soffrire la mia patria e i miei fratelli (...) Dobbiamo con- vincerci che la ricchezza materiale non dà nes- sun beneficio se è ottenuta egoisticamente co- me sembra essere nel nostro Paese. Leggendo o ascoltando le sue omelie riconosco che lei ci mostra il cammino aperto per la nostra salvez- za (...) Penso che la Vergine sta lavorando molto per noi, però credo che ciò che deve cambiare sono i nostri atteggiamenti (...) Spe- ro fermamente che i bambini possano ricevere un esempio più puro, che puntino a mete no- bili e che possano realizzarle. Credo che un anziano ha diritto a raggiungere il suo ultimo giorno in piena tranquillità. Spero che lei sen- ta che sono al suo fianco (...) Lei sta con i po- veri e so che essi e noi giovani siamo una grande speranza. (...) Verranno giorni più dif- ficili, e in essi dovrà sostenere la fede, la cer- tezza che Dio è con noi, e se lui sta con noi nulla potrà essere contro di noi». Ed è quanto mai significativo questo pas- saggio dell’omelia che l’arcivescovo monsignor Romero tenne — era maggio del 1977 — al fu- nerale di un suo prete assassinato: «Non tutti, dice il concilio Vaticano II , avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che cre- dono in lui lo spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la no- stra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che, quando arriva la nostra ora di ren- der conto, possiamo dire “Signore, io ero di- sposto a dare la mia vita per te. E l’ho data”. Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel si- lenzio della vita quotidiana; dare la vita a po- co a poco? Sì, Come la dà una madre, che senza timore, con la semplicità del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudi- sce con affetto. È dare la vita. È martirio». di G IULIA G ALEOTTI Nel completare la scheda di ac- compagnamento all’intervista a Sara Butler della Commissione teologica internazionale («donne chiesa mondo» n. 10), incontrai i nomi di due gruppi di lavoro di cui la teologa statunitense aveva fatto parte: la Commissione inter- nazionale anglicana-cattolica e la Conversazione internazionale tra cattolici e battisti. La differenza mi incuriosì non poco, e fu solo una telefonata al Pontificio Consi- glio per il Dialogo Interreligioso a svelarmi l’enigma. Tempo qualche mese, e avrei conosciuto più da vicino la questione per merito di un ricco e denso manuale dedica- to all’ecumenismo. È da un passaggio della secon- da lettera di san Paolo ai Corinzi — «Noi però abbiamo questo te- soro in vasi di creta» (2 Corinzi, 4, 7) — che Teresa Francesca Rossi, docente di teologia ecumenica presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino e il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, prende le mosse per introdurre tema e spiri- to del suo Manuale di ecumenismo (Editrice Queriniana, 2012). «Un versetto biblico che cattura in mo- do vigoroso il dinamismo divino- umano dell’annuncio di salvezza. Il tesoro è la realtà dell’incarna- zione, morte e risurrezione di Cri- sto, che apre alla riconciliazione con il Padre; i vasi sono quanti desiderano annunciare questa lieta notizia al mondo; sono i seguaci di Cristo nei secoli, i cristiani, og- gi separati. I vasi sono di creta: plasmabili, capaci di prendere la forma che meglio si attagli all’an- nuncio (...) ma allo stesso tempo sono fragili, possono rompersi, la- sciando il tesoro, pur intatto nella sua preziosità, tuttavia in terra, mescolato con i cocci». Nella convinzione che ciò che unisce sia più di ciò che divide, le quasi cinquecento pagine del ma- nuale (arricchite da un cd, oltre che da brani delle Scritture e do- cumenti noti e meno noti della Chiesa cattolica) si articolano in quattro parti: metodo, spiritualità, storia e sistematica. Dal suo ango- lo prospettico, ciascuna di esse conferma quello che, forse, è il tratto che maggiormente colpisce: se l’unità è un dono di Dio, come tantissimi altri doni, essa è anche però qualcosa che va coltivato con dedizione tenace, seria e pro- fonda. Invitando a una preparazione al contempo teologica, sociologica, psicologica, filosofica, antropolo- gica, canonica e umana, il testo introduce a un ecumenismo inteso non solo come sistema di pensie- ro, ma anche come preghiera e sti- le di vita cristiana. Il manuale diventa così stru- mento di informazione e di for- mazione: informazione perché so- no ancora troppi i pregiudizi da correggere e superare, formazione perché è necessaria una prepara- zione sistematica per operare in campo ecumenico, onde passare davvero dalla conversazione al dialogo. Tra Chiesa cattolica e an- glicani, luterani, metodisti, rifor- mati, pentecostali, evangelici, or- todossi, discepoli di Cristo, batti- sti, assiri d’Oriente, mennoniti, ortodossi orientali e veterocatto- lici. Tre le fasi del metodo ecumeni- co capaci di scandire la relazione fra gli interlocutori, delineando una crescente reciproca apertura: conoscenza, condivisione e comu- nione. Gradatamente, infatti, ciò che è stato appreso viene vagliato e valorizzato sottolineando somi- glianze e diversità. Solo così è possibile incamminarsi verso la costruzione dell’unità, verso, cioè, il ristabilimento della comunione mattone dopo mattone. Un pro- cesso delicato che cresce con il crescere della conoscenza e della condivisione, e che sempre può essere ulteriormente approfondito e radicato. La meta del movimento ecume- nico è infatti quella di far crescere tra le Chiese una comunione così reale da essere visibile senza ambi- guità; così plasmata dalla carità da essere pienamente segno di ri- conciliazione; così variegata e ar- ricchita dalla diversità, da testimo- niare il soffio impalpabile dello Spirito di Dio. Addentrandosi pagina dopo pa- gina nel libro, il lettore percepisce chiaramente quella che potremmo definire la quotidianità ecumenica, concreta e teorica insieme, di Te- resa Francesca Rossi. Familiarità che le viene perché membro del Gruppo misto di lavoro fra Chie- sa cattolica e Consiglio ecumenico delle Chiese, del Dialogo teologi- co internazionale cattolico-pente- costale e di quello cattolico-batti- sta, ma anche dal suo lavoro al Centro Pro Unione di Roma, di cui è Associate Director. Luogo ecumenico di ricerca e di azione, il Centro Pro Unione venne fondato nel 1968 dai frati francescani dell’Atonement, con il fine di perseguire il dialogo, lo studio e la formazione dell’ecume- nismo teologico, spirituale, pasto- rale e sociale. Le radici risalivano a settant’anni prima: nel 1898, in- fatti, madre Lurana White e padre Paul Wattson fondarono la Socie- ty of the Atonement (“redenzio- ne”), una congregazione religiosa dedicata all’unità dei cristiani e al- la riconciliazione nello spirito di san Francesco. Giacché i fondatori erano episcopaliani, dapprincipio le radici della società furono poste in quella comunità ecclesiale. Le cose mutarono però nel 1909 quando le sorelle e i fratelli dell’Atonement entrarono in piena comunione con la Chiesa cattoli- ca: era la prima volta che una co- sa del genere succedeva dai tempi della Riforma. Da allora, con sede a New York, la società si è avviata in un cammino di impegno per l’unità della Chiesa e la riconcilia- zione, agendo in diversi Paesi tra cui Stati Uniti, Canada, Giappo- ne, Inghilterra, Irlanda, Brasile, Filippine e Italia. L’innovativo manuale di Teresa Francesca Ros- si è uno dei tanti frutti del percor- so intrapreso. di A LBERTO F ABIO A MBROSIO T utto nasce con una donna dell’at- tuale Iraq meridionale: Râbi’a, che significa quarta. È la quarta figlia di una famiglia numerosa, che finisce venduta come schiava. Poi è riscattata e si dedica all’amore appas- sionato di Dio. Rab’ia va annoverata tra le prime figure della mistica musulmana ad applicare il ter- mine di amore appassionato ( ‘ishq che in gre- co tradurremmo con èros) per l’Amato. Non si può citare Râbi’a senza riportare questo preziosissimo racconto della sua missione: un giorno la donna si mise a correre attraverso Baghdad con in mano una torcia infuocata e con l’altra un secchio ricolmo d’acqua. Gli abitanti allora le domandano cosa sta facen- do, e lei, che sembra invasata, risponde: «Sto andando in cielo per gettare il fuoco in Para- diso e per versare l’acqua nell’Inferno, in mo- do che nessuno dei due rimanga. Allora sarà manifesto il mio scopo: che i fedeli guardino a Dio senza speranza né paura. Poiché, se non ci fosse la speranza del Paradiso o la paura dell’Inferno, forse che non adorerebbe- ro Lui solo, il Reale, e non obbedirebbero ai suoi ordini?». Questo testo è fondamentale tanto per i musulmani e soprattutto i sufi, quanto anche per i cristiani: per tutti questa donna è di- ventata il simbolo del puro amore nei con- fronti di Dio. Jean-Pierre Camus, vescovo della diocesi di Mans nel XVII secolo scrive un’opera dal titolo Caritea o dell’amore perfet- to . Chi è questa caritea? Ebbene è proprio Râbi’a, la donna sufi del nostro racconto e tutta l’opera del vescovo è finalizzata a com- mentare l’esempio e illustrare cosa sia il puro amore (cristiano). I primi secoli dell’islam sono anche i primi secoli dei grandi mistici sufi, che iniziano a formare una dottrina, delle scuole e in un’ul- tima analisi degli Ordini “religiosi”. Fino al XII secolo circa, parlare di sufi vuol dire par- lare di veri e propri mistici e, specialmente, di figure maschili. Il sufismo infatti si può definire come la trasmissione interiore (ma anche esoterica e mistica) del messaggio co- ranico comunicato direttamente da Dio al Profeta Muhammad e, da questi, ai maestri spirituali. La successione “apostolica” è quin- di una trasmissione fondamentalmente ma- schile, da maestro a maestro e tutte le filia- zioni si originano a partire dal Profeta. Que- sto però non significa che durante la storia non vi siano state delle grandi figure e dei che maestre spirituali. Invece, è meno certa l’esistenza di gruppi femminili di dervisci danzanti. Al di là della questione della legit- timità dell’insegnamento femminile e della possibilità di poter riunire attorno a una donna un gruppo di discepoli di ambo i ses- si, il vero dato è che la donna nel sufismo raggiunge un livello di raffinatezza spirituale più alto di quello maschile. Nel XIX secolo ottomano numerose sono le donne poetesse e affiliate all’Ordine dei der- visci danzanti, come Leyla Hanım, Tevhide Hanım e Şeref Hanım. Di quest’ultima, mi piace ricordare alcuni versi che hanno un sa- pore davvero cristico: «Benvenuto oh Messia della ronda (cerchio) / Alla risurrezione di questo cuore colmo di angoscia». Ancora oggi, tra i discendenti in linea di- retta di Rûmî, il fondatore dei mevlevî, vi è una donna di grande qualità spirituale: Esin Celebi, che ama ricordare di avere studiato ad Aleppo nelle scuole dei Fratelli delle scuole cristiane. I suoi racconti sono intrisi di senso religioso profondo e di un’apertura alla diversità, proprio come il suo antenato. Non potrò mai dimenticare il racconto ben detta- gliato della sua devozione speciale alla Vergi- ne Maria, figura che tanta parte ha nel Cora- no stesso. Esin gode la considerazione di tut- ti in Turchia e l’attività a favore della diffu- sione della spiritualità mevlevî è diventata uno degli obiettivi della sua vita. Lei stessa afferma che nell’Ordine dei dervisci danzanti «vediamo che sin dall’epoca della fondazio- ne, è stata data tanta importanza alle donne. Ad esempio, a Konya, Şeref Hatun, la figlia di Sultan Veled — figlio di Rûmî e vero legi- slatore dell’Ordine — aveva numerosi disce- poli uomini». Esin non è l’unica erede spirituale del sufi- smo nell’attuale Turchia contemporanea. Vi- cino a questa spiritualità è un’altra donna, Nur Artiran. Alla domanda su cosa significa il sufismo, risponde senza esitazione: «Il mio sforzo è di commentare il Mesnevî di Rûmî, con la mia voce che viene dal cuore orientan- dola al mio mondo e la mia vita interiore». Il suo ultimo libro di grande successo porta per titolo una frase di Rûmî, L’amore è simile a un processo . In lei si scorge nitido il desiderio e la passione divina, tipica del sufismo. Mi confida anche che «se è difficile per un uo- mo essere sapiente anche per una donna non è da meno il suo sforzo di servizio all’umani- tà». Quel che mi ha impressionato maggior- mente di questa donna, discepola di uno de- gli ultimi commentatori ufficiali del Mesnevî di Rûmî, è la sua esperienza che narra pub- blicamente. Della sua guida, mi offre questa bella testimonianza di fede e di vita: «Şefik Can, questo è il suo nome, è stato il mio maestro, e attraverso Rûmî, mi ha aperto le porte della vita interiore religiosa». Una delle prime volte che ho incontrato Cemalnur Sargut è stato in occasione della celebrazione annuale per la nascita del Profe- ta dell’islam. Quella sera, Cemalnur accoglie- va le autorità religiose cristiane. Non dimen- ticherò mai il momento in cui mi vide, per- ché mi chiamò con un’espressione così dolce e profonda: «Figlio mio» ( evladim ). Certo, in turco, una donna può sempre chiamare un ragazzo tramite questa espressione — la può utilizzare anche una donna mendicante in strada — ma io l’ho percepita come un richia- mo affettuoso. Cemalnur è una vera leader spirituale, atti- ra a sé folle numerose di giovani turchi, in- terviene a dibattiti internazionali e si fa por- tavoce di un islam al contempo tradizionale e aperto alla modernità. Quando incontro le sue discepole mi sorprende l’apertura e la tolleranza che Cemalnur pratica e insegna. Le accoglie così come sono, senza pretendere una conversione radicale: non impone il velo (che lei stessa non porta se non in occasione delle preghiere), non impone una trasforma- zione radicale, ma conduce i propri adepti a un riorientamento della propria vita verso Dio, verso il bene divino. Anche lei, è radica- ta nella tradizione sufi. Accanto a un’attività strettamente spirituale, la sua assocazione or- ganizza regolarmente convegni sul sufismo. Ciò che attira in questa figura dai tratti esili, ma dalla personalità interiore imponente, è la capacità di accoglienza. Riesce a essere una vera madre spirituale che accoglie tutti. Alla domanda cosa sia il sufismo, Cemalnur ri- sponde: «Trovare la felicità e la pace nei mo- menti di angoscia e di crisi». Tante altre donne e sotto tutte le latitudini del mondo musulmano potrebbero illustrare ulteriormente questo fuoco d’amore per Dio. Penso ancora a Nayla, in Libano e a Hela e sua mamma Nelly in Tunisia e Sema in Paki- stan e chissà quante altre ancora. Certo il su- fismo continua ufficialmente la trasmissione da maestro a discepolo di sesso maschile, ma la diffusione femminile del sufismo ha assun- to uno stile particolare, unico. Il senso d’amore per Dio e per l’uomo è così umano nel corpo di una donna che, per il fatto stes- so di essere, emana un profumo divino. Il romanzo La mia unica amica Una compagna di banco — molto diversa per estrazione sociale, indole e doti naturali — può segnare la vita di una bambina se nasce fra le due un sentimento di amicizia vero, che insegna a entrambe a superare le proprie differenze, a intuire moti ancora inespressi nell’animo dell’altra. La separazione, improvvisa e dolorosa, che si impone alla fine dell’anno scolastico, coglie così due bambine ormai diverse, che si porteranno per la vita i frutti di un incontro così importante. In La mia unica amica (Bollati Boringhieri, 2013), con una scrittura essenziale e profonda, senza sentimentalismi ma con grande capacità di cogliere pensieri e impulsi dei bambini di una scuola periferica, di introdurre il lettore nel paesaggio grigio e piovoso del paese montano, e di descrivere con amorevole attenzione il ruolo chiarificatore e educatore in senso pieno della maestra, Eliana Bouchard dà una prova narrativa ottima, che conferma il successo ottenuto con il primo romanzo, Louise , pur tanto diverso come tema e tempo storico. ( @LuceScaraffia ) Il film Il figlio dell’altra Un muro, due figli, due famiglie e due nascite in contemporanea nel medesimo ospedale. Cosa succede quando a distanza di anni (diciotto per la precisione) si scopre che un errore umano ha attribuito alla famiglia del lato est del muro il nato della famiglia del lato ovest, e viceversa? È questa la trama dello splendido film Il figlio dell’altra (2012) della regista francese di origine ebraica Lorraine Levy. Joseph Silberg, ebreo di Tel Aviv, e Yacine Al Bezaaz, palestinese della Cisgiordania: il dramma che dilania Israele e i Territori palestinesi è visto attraverso l’avvicinamento doloroso e forzato di due famiglie che mai si sarebbero volute incontrare, ma che, nonostante tutto, riescono a uscire arricchite e più felici da un incontro che inizialmente pare solo tragico. Il merito è delle madri di Joseph e Yacine. Due donne diversissime che però hanno l’amore, la forza e il coraggio di cogliere l’opportunità della condizione paradossale in cui si sono venute a trovare. Perché nel loro cuore, nella loro famiglia e nella loro terra c’è anche posto per il figlio dell’altra. ( @GiuliGaleotti ) M ARÍA G UADALUPE G ARCÍA Z AVALA «Toccarono la carne di Cristo». Così Papa Francesco ha presentato María Guadalupe García Zavala (1878-1963, cofondatrice della congregazione delle serve di Santa Margherita Maria e dei Poveri) e Laura Montoya y Upegui (1874-1949, fondatrice della congregazione religiosa delle missionarie di Maria Immacolata e Santa Caterina da Siena), proclamate sante il 12 maggio scorso. María Guadalupe García Zavala, madre Lupita come veniva affettuosamente chiamata, fu una suora messicana che si distinse, in particolare, per il suo coraggio durante il periodo della feroce persecuzione anticattolica (1926- 1929): insieme alle consorelle, protesse sacerdoti e laici dalla furia omicida dei rivoluzionari e curò i feriti di ogni genere, inclusi gli stessi rivoluzionari, senza discriminazione. «Rinunciando a una vita comoda per seguire Gesù — ha spiegato il Papa — insegnava ad amare la povertà, per poter amare di più i poveri e gli infermi. Madre Lupita si inginocchiava sul pavimento dell’ospedale davanti agli ammalati per servirli con tenerezza e compassione. Anche oggi le sue figlie spirituali cercano di riflettere l’amore di Dio nelle opere di carità, senza risparmiare sacrifici e affrontando con mitezza, perseveranza apostolica e coraggio qualunque ostacolo». L AURA M ONTOYA Y U PEGUI Santa Laura Montoya y Upegui, «prima santa nata nella bella terra colombiana, ci insegna — sono sempre le parole del Papa — a essere generosi con Dio, a non vivere la fede da soli, come se fosse possibile vivere la fede in modo isolato, ma a comunicarla, a portare la gioia del Vangelo con la parola e la testimonianza di vita in ogni ambiente in cui ci troviamo». Questa religiosa vissuta con gli indios ci invita «a vedere il volto di Gesù riflesso nell’altro, a vincere indifferenza e individualismo, accogliendo tutti con amore, donando loro il meglio di noi stessi e soprattutto condividendo con loro ciò che abbiamo di più prezioso: Cristo e il suo Vangelo». Strumento di evangelizzazione prima come insegnante e poi come madre spirituale degli indigeni, infuse loro la speranza «accogliendoli con l’amore appreso da Dio e portandoli a Lui con una efficacia pedagogica che rispettava la loro cultura e non si contrapponeva a essa. Nella sua opera di evangelizzazione madre Laura si fece veramente tutta a tutti, secondo l’espressione di san Paolo. Anche oggi le sue figlie spirituali vivono e portano il Vangelo nei luoghi più reconditi e bisognosi, come una sorta di avanguardia della Chiesa». Grandi i festeggiamenti nel Paese di origine della nuova santa. «Vi sono troppi personaggi malvagi entrati nella memoria collettiva dei colombiani» ha detto ad esempio monsignor Omar Alberto Sánchez Cubillos, vescovo di Tibú e «la canonizzazione di suor Laura ricorda al Paese che ci sono anche altre persone piene di virtù, di generosità e servizio». Del resto, ha scritto in una nota la Conferenza episcopale colombiana, «la vita di madre Laura non è una utopia, ma un programma concreto che può essere raggiunto con l’aiuto di Dio e la generosa risposta dell’uomo». F RANCISCA DE P AULA D E J ESUS Figlia naturale di una schiava ed ex schiava ella stessa, venerata in tutto il Brasile come la madre dei poveri: è Francisca de Paula De Jesus (1808-1895), beatificata lo scorso 4 maggio a Baependi dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nata a São João del Rey, imparò dalla madre preghiere e devozioni, sebbene — essendo femmina e schiava — non ricette alcuna istruzione. Trasferitasi a Baependi, città in pieno sviluppo, rimase orfana. In punto di morte la madre le raccomandò di condurre una vita ritirata onde praticare meglio la carità e conservare la fede. Da allora, Francisca visse sola in una casetta su una collina ai limiti della città, dedicandosi alla preghiera e alla cura dei bisognosi, scegliendo così, sin da giovanissima, una vita di povertà e di lode, povera tra i poveri. La sua fama di umile madre si diffuse rapidamente tra gli ultimi: chiunque la avvicinasse, riceveva preghiere, cibo, consolazione e conforto. C HITARRA , COLORI E RISPETTO La foto pubblicata a mezza pagina su «L’Eco di Bergamo» è un tripudio di sorrisi e colori. L’immagine ritrae la cinquantenne suor Sonia Rusconi delle Poverelle, con tanto di chitarra al braccio, mentre cammina con un gruppo di bambini in una strada di Chancay, in Perú. Nel corso dell’intervista, suor Sonia racconta la sua missione nei sobborghi di Lima tra poveri e disperati, attirati nella capitale a migliaia dall’illusione della ricchezza. Non è un compito facile quello delle religiose che tentano quotidianamente di porsi in maniera equilibrata dinnanzi a una situazione fatta di povertà, assetti sociali scricchiolanti e gravi problemi all’interno delle famiglie. Il tutto, rispettando sempre «la Chiesa locale, che comunque è ben presente. Ci guida l’idea fondamentale: evangelizzare con la carità, con l’esempio. Suscitare speranza, coltivare la relazione». L E CONTADINE MESSICANE Oltre un milione e duecentomila madri messicane di origini contadine sono diventate capifamiglia in seguito all’emigrazione dei rispettivi mariti partiti, spesso assieme ai figli maggiori, alla ricerca di lavoro nelle città. Una volta rimaste sole, la vita è durissima per queste donne, sfruttate nelle fabbriche e private dei loro diritti fondamentali. Secondo la Confederazione nazionale contadina (Cnc), tra i più colpiti da disoccupazione, povertà e aumento dei prezzi vi sono circa 13 milioni di donne che vivono nelle comunità rurali. Sempre in base ai dati della Cnc, solo a 610mila di costoro vengono riconosciuti i diritti legittimamente spettanti sulla terra. Molto preoccupanti sono anche le cifre relative alla povertà alimentare: nelle zone rurali ne soffre il 37,7 per cento delle donne con meno di 24 anni, il 34,8 di quelle tra 25 e 44 anni, il 31,1 tra 45 a 64 anni, il 32,2 dai 65 in su. Stando poi alle stime della Commissione economica per l’America latina e i Caraibi riportate da Fides, una madre messicana che vive nelle zone rurali lavora il 53 per cento in più rispetto agli uomini e quattro ore in più rispetto a quelle che vivono nelle aree urbane. Nonostante ciò, i loro stipendi sono minimi e insufficienti a causa degli aumenti dei prezzi dei generi di prima necessità, cresciuti fino al 400 per cento rispetto al 2012. L A ONG CRISTIANA A WAM IN P AKISTAN Nel corso della campagna elettorale che ha preceduto le elezioni pakistane dello scorso 11 maggio, la ong Association of Women for Awareness & Motivation (Awam), di ispirazione cristiana e guidata da Nazia Sardar, ha promosso una campagna di sensibilizzazione per i diritti e la dignità delle donne. Durata cinque mesi e portata avanti in modo capillare nel territorio di 42 sezioni elettorali femminili in quattro circoscrizioni di Faisalabad (nella provincia del Punjab), la campagna ha anche invitato le donne a partecipare al voto. Gruppi di cittadini, per ogni seggio elettorale, hanno visitato le comunità locali, associazioni, comitati e famiglie, condannando il voto di scambio e la compravendita di voti. Tutto questo ha però dato molto fastidio. In particolare due attiviste di Awam, Qurat-ul-Ain e Shabana Bashir, sono state pesantemente apostrofate per il loro «comportamento sbagliato» e minacciate di «terribili conseguenze» da esponenti della Pakistan Muslim League-N. K IM D ANIELS E IL CARDINALE D OLAN A spokeperson at the Usccb informa il profilo twitter di Kim Daniels, nuova portavoce del presidente della Conferenza episcopale statunitense. Avvocato formatosi a Princeton, già consulente di Sarah Palin, 45 anni e madre di sei figli, Daniels è stata scelta dal cardinale Dolan per svolgere un ruolo prima inesistente. Attiva in molte campagne legali (tra cui quella per il diritto di obiezione dei farmacisti alla pillola del giorno dopo), Daniels è stata anche direttore di Catholic Voices, associazione nata per portare «il messaggio positivo della Chiesa sulla pubblica piazza. Credo — ha detto Daniels all’indomani della nomina — che il cardinale Dolan e gli altri vescovi abbiano apprezzato molto l’approccio di Catholic Voices, che vuole spargere luce e non invece arroventare i problemi. Spesso le persone affrontano le controversie come se fossero marines, sbarcando e andando in battaglia. Catholic Voices ha invece un approccio più simile a quello dei Peace Corps: tentiamo di capire gli altri e di stabilire un contatto». Il saggio Hannah e le altre Nel libro Hannah e le altre (Einaudi, 2013) Nadia Fusini scrive di donne che scrivono. Le donne sono tre e anche se molto diverse si prestano a essere accomunate in una storia avvincente, donne del Novecento che si formarono e si definirono, non si adeguarono ai tempi bui nei quali capitò loro di vivere, diedero nomi nuovi a vicende vecchie, illuminarono e scomposero, con irruzioni di lucidi giudizi, neri depositi di preconcetti, di superstizioni. Simone Weil muore a 34 anni nel 1943; Rachel Bespaloff nel 1949 si uccide a 54 anni; Hannah Arendt se ne va dopo un attacco cardiaco a 69 anni nel 1975. Vissero l’esperienza di essere profughe perché ebree, e forse in quanto tali svilupparono quella freschezza di giudizio non completamente allineato al sistema in cui vivevano, ma soprattutto, sembra suggerire l’autrice, perché donne ebree e la loro originalità sorgeva da questo composto antropologicoculturale. L’autrice individua una struttura comune sotto i destini diversi: il coraggio di cercare parole vere, il considerare l’arte come possibile salvezza, di nutrire una speranza, un atteggiamento etico. ( isabella ducrot ). Di fronte al potere di Pilato che ingiustamente gli ha ammazzato il figlio Maria diviene essa stessa un grido di giustizia Un grido di amore, un grido di pace Un dipinto murale ricorda l’arcivescovo di San Salvador, ucciso mentre stava celebrando la messa da un cecchino il 24 marzo 1980, a causa del suo impegno nel denunciare le violenze perpetrate dalla dittatura nel suo Paese Questo tesoro in vasi di creta L’innovativo manuale di ecumenismo di Teresa Francesca Rossi Pagina dopo pagina il lettore evince chiaramente come per l’autrice l’incontro sia pratica quotidiana Protagoniste di una tradizione musulmana Inchiesta sul sufismo femminile «Trovare la felicità e la pace nei momenti di angoscia e di crisi» Questa è la definizione di sufismo secondo Cemalnur «Se è difficile per un uomo essere sapiente — dice Nur — anche per una donna non è da meno il suo sforzo di servizio all’umanità» Da sinistra, Nur Artiran, Alberto Fabio Ambrosio e altre visitatrici nella casa della Fondazione Şefik Can a Istanbul gruppi femminili. Nell’Anatolia me- dievale, esisteva un gruppo di cosiddette donne del paese di Rum (l’Anatolia), o Baciyan-i Rum, eredi femminili della tradi- zione risalente a un mistico dell’Asia cen- trale Ahmet Yesevî. Infatti il ruolo della donna nel sufismo ot- tomano, benché non istituzionalizzato, è stato sempre stato operativo ed efficace. Gli studi e le ricerche attuali mostrano sem- pre di più il numero elevato di personalità femminili che hanno lasciato un segno in- delebile. Per quanto riguarda i cosiddetti dervisci danzanti o mevlevî, in casi rari, ma ben attestati, le donne sono state an- Il gruppo di Cemalnur Sargut a fine del convegno organizzato a Istanbul dall'Associazione Turkkad

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