donne chiesa mondo - n. 10 - marzo 2013

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Un ricordo della kenyota Wangari Maathai Indomabile di M ARIA D ULCE A RAÚJO É VORA I ndomabile. Questo il titolo che Wangari Maathai ha scelto per la sua autobiografia, pubblicata sei anni prima della morte, avvenuta in Kenya il 25 settembre 2011. Prima don- na africana a ricevere il premio Nobel della Pace nel 2004, Wangari era nata nel 1940 nella pianura verdeggiante del Kenya. Sensibile sin da piccola alle bellezze dell’ambiente, dopo aver studiato in patria dalle suore benedettine (dove abbraccia la reli- gione cattolica), essersi formata in biologia negli Stati Uniti e in Germania e aver ottenuto il dottorato dall’università del Kenya, Wangari nota il progressivo degrado ambientale provocato dalla politica coloniale e post-coloniale di deforestazione, attuata per far posto a piantagioni di caffè, tè e alberi esotici per il legno. A questa constatazione si aggiungono diversi altri fattori che convergono nella sua decisione di piantare alberi in tutto il Pae- se. Tra di essi, la preoccupazione del Ncwk (il Consiglio Nazio- nale delle Donne del Kenya di cui fu presidente dal 1981 al 1987), per le donne povere delle aree rurali. In uno spirito di Harambe (“fare insieme”), riesce a coinvolgere le reti del Ncwk sparse per il Paese, chiese, scuole, agricoltori, nella piantagione di alberi. Donne e alberi: sono state queste le linee di azione e le priorità che ispirarono la sua vita. Il Gbm — il movimento Green Belt da lei lanciato nel 1977 per rendere più consapevoli non solo i kenioti della situazione ecolo- gica, della carenza di democrazia e di rispetto dei diritti umani — rimarrà legato al Ncwk fino al 1987, quando diventa una ong. Le autorità del Paese in un primo tempo collaborarono, ma le cose cambiarono quando Wangari cominciò a parlare, nei suoi semi- nari e incontri con donne e giovani, di democrazia, di diritti, dei problemi del Paese e della responsabilità del Governo e degli stessi cittadini. La lotta tra lei e il Governo diventa ancora più ardua quando, nel 1989, si oppone al progetto di costruzione, nel cuore del Par- co Uhuru, di un complesso di sessanta piani che avrebbe forte- mente danneggiato l’equilibrio ecologico del suo Paese. Riuscì a far arrivare la sua voce dentro e fuori i confini nazionali, coinvol- gendo la stampa che in genere si è sempre schierata dalla sua parte, così come l’allora arcivescovo di Nairobi e la Commissione Episcopale Giustizia e Pace. Riuscì a bloccare il progetto, succes- so incredibile in un Paese dove la popolazione era abituata a sopportare in silenzio il regime. Di lì a poco Wangari era già coinvolta in un’altra battaglia: salvare la Foresta di Karura. Vincerà anche questa volta, ma i co- sti che ha pagato nella vita per la tenacia delle sue posizioni so- no stati alti. Più volte incarcerata, Wangari Maathai ha perso il posto di docente universitario ed è stata giudicata colpevole in un divorzio subìto, in cui ebbe il coraggio di definire corrotto e incompetente il giudice. Per il marito che l’aveva lasciata con tre figli piccoli, era una donna troppo istruita, con troppo successo e Rosa uscita indenne dalla fiamma La santa del mese raccontata da Rosa Matteucci N el 1233 a Viterbo, roccaforte catara sulla via di Roma, nacque Rosa, bambina intra- prendente ma sempre cagio- nevole di salute, quasi il temperamento portato a cose più alte del- la sua natura trovasse contrasto nella ca- ducità del corpo. Afflitta da una malattia che l’aveva pri- vata dello sterno fin dalla nascita, portava in sé una minima speranza di vita, non ol- tre i tre anni e quindi la prima infanzia. Piccola come erano le femmine a quel tempo, nella complessione già modesta e fiaccata dalla menomazione, vestita pove- ramente, Rosa trovò nella preghiera la sua ragione di vita, il suo modo di essere e rendere grazie per quel che era stata volu- ta. Precocemente rapita dall’ascetismo, diafana e minuscola, Rosa voleva addirit- tura parlare con l’imperatore, Federico II , velenosamente propenso a sottomettere il Papa, contestando in nome della fede le sue pretese di asservimento del soglio di Pietro. Intanto Rosa difendeva la fede e il Santo Padre dalla deriva catara, che semi- nava il nichilismo rifiutando i doni di Dio al pari di quelli del demonio, forte delle tesi dei sapienti bizantini che parlavano d’opposizione netta e feroce tra purezza dello spirito e caducità della carne, con i pochi mezzi a sua disposizione. Poco più che adolescente, Rosa avrebbe voluto essere accolta nel convento delle clarisse, che reputava il domicilio più ido- neo al suo desiderio di assoluto, al suo anelito che la vocava alla perfezione divi- na, solo possibile rimedio alle umane manchevolezze. Si offrì loro con sponta- neità e cuore limpido, senza immaginare che la sua fragilità fisica, unita alla man- canza di un adeguato censo, mai le avreb- be aperto le porte del convento di San Damiano. In tempi difficili come quelli, i poveri tali restavano, senza speranza di affranca- mento, emarginati e ignorati, costretti a scegliere di sopravvivere piuttosto che a vivere una vita degna di questo nome. Quindi per quanto la giovane fosse since- ra, le clarisse la tennero alla larga, incon- sapevoli artefici di una difficoltà che avrebbe affinato la purezza d’animo e la determinazione della persona che decide- vano di non accogliere. Ma Rosa non si diede per vinta, chiese e ottenne di predicare come terziaria fuori dalle mura del convento che l’aveva tanto dolorosamente respinta. Cosicché inaugu- rò la sua spontanea predicazione per le vie di Viterbo, popolata da catari spalleg- giati dal potentissimo imperatore che mai come allora pretendeva la radicale ridefini- zione dei rapporti gerarchici rispetto al vi- cario di Cristo, nel segno di una sottomis- sione dell’altare al mestiere delle armi. La sua quotidiana, ardente predicazio- ne, la dichiarata insofferenza contro i cata- ri, le fecero guadagnare un fendente di spada, durante l’assedio che l’imperatore pose contro Viterbo. In seguito a questi fatti il podestà emanò per la giovane pre- dicatrice e la sua famiglia, il padre e la madre, un bando con il quale li si scaccia- va dalla città. Così la piccola Rosa dai magnetici occhi blu, poveramente vestita riparò — si era nel cuore dell’inverno — con la sua famiglia a Soriano del Cimino, quindi a Vitorchiano. Seguitò a lottare contro lo strapotere imperiale in condizioni sempre più misere, assediata dal freddo e dalla carestia, forte solo di un’arma apparentemente inane, in- vece potentissima. L’unico suo strumento era infatti la preghiera offerta in dono alla Chiesa cattolica, attività che pure mai le varrà il premio dell’ingresso nel carmelo. La giovane resta sola a condurre la sua guerra contro la deriva eretica lungo gli acciottolati e le mura spazzate dai venti. Con la morte dell’imperatore, da lei profe- tizzata, le si riaprono le porte della città. Sembrerebbe una vittoria, ma il suo carat- tere estraneo alle cose del mondo la porta- va a ragionare e argomentare in termini diversi da quelli delle vittorie e delle scon- fitte: categorie terrene, perciò viziate dalla caducità. La sua battaglia era invece per qualcosa che non poteva misurarsi con il metro delle cose mondane. Nella città, che era stata e non era stata la sua, muore nel 1251. Il suo corpo è sep- pellito fuori dalla chiesa di Santa Maria in Poggio. Nell’immediato si susseguono i prodigi, quasi che la vera vita di Rosa fosse cominciata dopo quella che ci si ostina a chiamare vita. Guarigioni dalla perdita della vista e da ogni altro male, fenomeni che chiamano e aumentano la devozione popolare di chi comincia ad appellare co- me santa la piccola e sperduta predicatri- ce, latrice di un messaggio che non è sol- tanto il suo. me è qualcosa di più di un simbolo, come tale capace di uscire indenne anche dalla fiamma, retaggio dell’incendio che nel 1357 divora tutto tranne il corpo incorrotto del- la santa. C’era nel suo passaggio qualcosa che avrebbe illuminato il mondo. Rosa Matteucci, nata a Orvieto, vive a Genova. Ha pubblicato con Adelphi Lourdes (1998; Premio Bagutta e Premio Grinzane Cavour), Libera la Karenina che è in te (2003), Cuore di mamma (2007; Premio Grinzane Cavour). Per Rizzoli India per signorine (2008). Per Bompiani Tutta mio padre (2010; Premio Brancati). Per Giunti Le donne perdonano tutto tranne il silenzio (2012). Le sue opere sono tradotte in diverse lingue. Collabora con «il Secolo XIX » e «Il Foglio». Bartolomé Esteban Murillo, «Santa Rosa da Viterbo» ( XVII secolo) Lottò da sola con l’unica arma della preghiera La sua battaglia era per qualcosa che non poteva misurarsi con il metro delle cose mondane Inaspettatamente Innocenzo IV , impe- gnato nella lotta fu- rente contro i ghi- bellini indistinguibi- li dai catari, con il rispetto che si deve a un’anima pia e al- le sue spoglie mor- tali, ordina che il corpo di Rosa ven- ga traslato dalla campagna nel con- vento di San Da- miano. Cosicché il luogo ove non ave- va potuto accedere da viva, diventò la sua dimora eterna, il convento delle clarisse. Qui il cor- po di Rosa miraco- losamente intatto, custodito in un’ur- na, ebbe l’onore di essere lasciato alla venerazione dei fe- deli. La persistenza delle sue sembianze terrene è considera- to il segno della po- tenza insita nella sua parola: una pre- dicazione capace di imporsi sia sulla de- bolezza del corpo, sia sulla transitorie- tà di ogni cosa. Il fiore che Rosa ha portato nel no- Donne e alberi Sono state queste le priorità e le linee di azione che hanno ispirato la vita della prima africana ad aver vinto il premio Nobel per la pace troppo difficile da controllare; un cattivo esempio per le donne del Paese che, secondo il Presidente Moi, dovevano rispettare gli uomini e stare zitte. Ma Wangari, prima donna a ottenere un dottorato nell’Africa orientale, continuò a lottare per una società più giusta e moderna, ma che avesse però le radici affondate nel- la tradizione. Esattamente come gli alberi, che hanno le radici in terra e crescono verso il cielo. Questo è lo spirito che cercò di infondere attraverso il movi- mento Green Belt, che fu attivo per diversi anni anche se relega- to nella sua piccola casa. Con l’ausilio di Care-Austria e di altri organismi, l’associazione riuscì successivamente ad avere una se- de propria, tutt’oggi funzionante. Nelle sue lotte Wangari ricevette l’appoggio di diversi organi- smi esterni, specialmente dal nord Europa e dall’Onu, fondi che seppe gestire con trasparenza e onestà, e che permisero al movi- mento di crescere e maturare. Il suo metodo di azione, cioè pian- tare alberi in cerchi — da qui Green Belt, “cintura verde” — fu adottato anche da altri Paesi, compresi gli Stati Uniti. Grazie a lei si prese sempre più coscienza del legame tra ecologia, svilup- po sostenibile, trasformazione sociale e pace. Festeggiò il premio Nobel piantando un albero, uno dei più di cinquanta milioni di alberi piantati fino a oggi dal movimento. Grazie al cambiamento democratico nel Paese a cui aveva for- temente contribuito, nel Governo del nuovo presidente keniota Kibaki, Wangari Maathai fu nominata vice ministro per l’Am- biente. Era il nel 2003: si dimetterà due anni dopo. Oltre al movimento Green Belt— di cui sua figlia Wanjira è l’attuale vice presidente — Wangari lascia in eredità anche l’Isti- tuto per gli studi sull’ambiente e la pace, legato all’università di Nairobi, che prosegue seguendo il suo approccio multi-discipli- nare.

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