Vi saluta la Chiesa che è in Babilonia - n. 4 - giugno 1976

bibli carne (11, 19) e secondo quella di Geremia, avrebbe scritto la legge nei cuori (31, 33), come si poteva considerare adempiuto in Cristo tale vaticinio, se ne derivava in concreto una maggiore gravità del peccato, rimasto possibile? Il problema è affrontato! in riferimento a Israele, da Paolo in uno dei suoi momenti teologici più densi: i capitoli nove- undici della lettera ai Ro– mani. Il capitolo è strutturato come una ricerca, la ricerca di un principio uni– versale solutivo del problema che Paolo si è posto. Israele ha nel suo insieme rifiutato il Cristo: il popolo scelto per la salvezza l'ha rifiutata. Paolo consi– dera il problema non moralmente, cioè dal punto di vista delle responsabilità di Israele, ma teologicamente, dal punto di vista della Parola di Dio. Nel pri– mo caso, il problema non esisterebbe: l'esperienza mostra che colpevolmente Israele ha rifiutato la salvezza. Ma se lo si considera teologicamente, allora diviene un problema grave. E Paolo non si lascia alcuna scappatoia, ponendolo radicalmente: « non è possibile che la Parola di Dio sia stata trovata senza effetto » (9, 6): letteral– mente « ekpéptoken >, che sia caduta. Così ora la « contraddizione » è nel pieno del suo gioco: Israele ha rifiutato la salvezza, dunque la parola di Dio, che la aveva assicurata, è caduta, non si è realizzata. È accaduto alla parola di Dio quello che accade alla parola umana, Dio non è Dio in questo mondo. Paolo cerca dapprima una via di facilità, in chiave parzialmente allego– rica. Isacco è il figlio della promessa, « solo i figli della promessa costituiscono la sua posteriorità» (9, 8). Isacco diviene allora, come nella lettera ai Galati, l'archetipo di coloro a cui Dio fa grazia. Ogni legame con l'« Israele carnale> sembra così spezzato. I figli di Isacco sono i gentili credenti. La risposta che Paolo si dà, è calcata sulla risposta di Elihu a Giobbe: « O uomo, chi sei tu, per disputare con Dio? >. Viene subito dopo il paragone del vaso, che non può contestare l'opera del vasaio, il testo classico per la dottrina della predesti– nazione. Ma Paolo non è contento della allegorizzazione integrale della Scrittura che così ne segue: la Scrittura non può essere soltanto una profezia, un gioco fatto da Dio sull'argilla di Israele per comunicare con i credenti in Cristo. Dio ha compiuto realmente qualcosa in Israele: che cosa? Egli trova una nuo– va risorsa teologica nel tema del resto di Israele. E cita Isaia, 1, 9: « Se il Si– gnore non ci avesse lasciato un seme, noi saremmo divenuti come Sodoma, simili a Gomorra». Ma il problema resta egualmente e Paolo cerca di giun– gere rapidamente a una soluzione. La soluzione è così formulata, omogenea– mente alla teologia paolina della fede. I giudei volevano fondare la loro giu– stizia sulle opere, e non vedevano che essa dipende dalla fede. Le opere dei giudei hanno nuociuto ai giudei, mentre l'ignoranza dei pagani non ha nuociuto ai pagani. I pagani che non cercavano la giustizia secondo le opere erano aperti alla giustizia secondo la fede. Fondendo due testi di Isaia, egli vede il Cristo annunciato nella Scrittura come il principio della salvezza per la fede, che esclude il principio della salvezza nelle opere. Nel c. 10, Paolo sembra accontentarsi di questa soluzione: Dio ha promesso la salvezza secondo la fede, 4 vaginobianco

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