Vi saluta la Chiesa che è in Babilonia - n. 2 - aprile 1975

mellificatis, apes » diventa l'insegna della sua indagine sugli stati universali, oltre che il titolo di un capitolo succoso. Tutto questo rni pare metta in evidenza come la libertà, che non va con– fusa - avverte Baget - con le garanzie giuridiche per non farla scomparire, ma che è « il segno dello Spirito di Dio», può essere sperimentata attraverso la politica e il potere, come attraverso altre forme di « impiego » e di vita. A questo punto, secondo me, da tutto quello che si è visto prima, derivano alcune conseguenze. Se la lotta tra bene e male è destinata a durare fino alla fine dei secoli, e se essa si accende fuori, rna anche dentro di noi, chi la fa deve cogliere sempre il rigore della posizione teorica, morale, culturale e po– litica, ma nello stesso tempo la contraddittorietà, la caducità, in una parola la storicità delle varie parti in azione. Non c'è quindi nessuna verità, ma solo una « suggestione letteraria» nella concezione manichea di Dostojevski che viene fuori dal colloquio tra Cristo e il Grande Inquisitore. Si potrebbe ag– giungere che queste storie orientali sono del tutto storicamente spiegabili: se il potere è immenso, assoluto, lontano, è facile essere tentati sulla strada della sua incomunicabilità con la vita. Altro discorso, quando il potere è vicino, arti– colato, frazionato, come dimostra la tradizione occidentale in forme diverse ma convergenti. Se la lotta è continua, e finirà con il mondo, non si può avvicinare nes– sun traguardo. La lotta non permette illusioni; non è possibile nessun « rove– sciamento di • lenti » che illuda sulla vicinanza di ciò che invece resta irrime– diabilmente lontano, e che il messaggio ci ha detto soprattutto essere fuori da questo mondo. Quindi nessun millenarisrll,O, nessuna « rennovazione » savo– naroliana, nessuna città terrena sarà la nuova Gerusalemme, eletta a preparare il regno di Dio. Nessuna capitale di Impero, nessuna Firenze popolata da « cle– ricali aperti » ( poi, storicamente, solo esangui amanti di una dinastia lorenese); nemmeno nessuna Roma, che resta il punto centrale della Cristianità, ma come urbe, non la sua ispirazione. Nessun millenarismo, e quindi nessuna « reductio ad unum » della storia e del suo movimento; quindi nessun clericalismo, e la lotta combattuta in uno spirito di tolleranza. Infine un ultimo problema che resta aperto, ed è più che una conseguenza; quello di una giusta comprensione di Machiavelli, una volta rifiutato il « chi– liasmo ». La « virtù » comprende una norma di comportamento, cioè una morale. Nasce di qui quella che è stata chiamata la moralità machiavelliana: che è ba– sata su due punti, l'assunzione di responsabilità (Principe 3, 21, 24) e il ri– fiesso delle proprie azioni nella considerazione dei sudditi. E qui la moralità collettiva, tradizionale, consueta, si lega alla moralità, del Principe. « Dove è da considerare ... quanto qualche volta possa più negli animi degli uomini un atto umano e pieno di carità, che un atto feroce e violento » (Discorsi III-20); ma dice anche che il Principe è « spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione » ( Il Principe, 18). La scelta tra l'uno e l'altro comportamento è opera della coscienza morale, biblio 34 Jinobianco

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