Carlo Gide - Della abolizione del profitto

BIBLIOTECAMENSILE N C dellaCooperazione e dellaPrevidenza ILU = 1914 Olugno : : .:.......-..- .................................................................................. , . . , CARLO GIDE EDITO A CURA DKLLA LEGA NAZIONALI!: DELL& COOPERATIVI!: E DEI.LA FEDERAZIONE ITALIANA DELLE Soc1ETÀ DI M. S. MILANO • Via Pac<>, 10

BIBLIOTECA MENSILE dellaCooperazione e d llaPrevidenza DI CARLO GIDE EDITO A CURA = 1914 Oiugno : : DELLA LEGA NAZIONALE DELLE COOPERATIVE E DELLA FEDERAZIONE ITALIANA DELLE SOCIETÀ DI 1\1. S, MILANO - Via Pace, 10

'fIPOORAFJA COOPERATIVA COMENSE « AillSTIDE BARi ».

L'abolizionedel Profitto Se vi si domandasse qual'è il modo di fare fortuna? quale è la carriera che si <leve scegliere? - voi rispondereste: - Anzitutto non bisogna fare il professore, il soldato, il magistrato, il funzionari·o. N è bisogna fare l'uomo politico, almeno quando si ha l'intenzione di restare onesti; nè l'artista, salvo il caso di eccezionali doni di natura, per quanto generalmente anche in questi casi la fortuna non arriva che molto tempo dopo la morte. Neppure si deve - e questo è superfluo di dire - fare l'operaio. Ed allora quale carriera si deve scegliere? .... Bisogna entrare negU affari, vale a dire nell'industria o nel commercio. Ecco la sola via, salvo rare eccezioni, nella quale un uomo, ancorchè di modesta capacità, può diventare milionario, e se dotato di quello che si chiama « il bernocolo dell'affare», diventare addirittura miliar.- dario. Vediamo pertanto- che cosa si debba intendere per questa espressione « fare degli affari~- Essa è un po' vaga. Si capisce d'altronde che si tratta di commercio, ma i giureconsulti hanno una formula più precisa: l'atto di commercio, per essi, è l'operazione che consiste nell'acquistare per rivendere. Si rivende ad un prezzo più caro di quello che è stato pagato - o per lo

4 meno si cerca che sia così - e la -differenza costituisce il beneficio o il profitto. Praticata sopra un piccolo numero di oggetti - come fanno i piccoli rivenditori - dato anche che la differenza fra il prezzo di acquisto e quello di rivendita sia consiùerevole, questa operazione non conduce alla fortuna. Ma se essa è moltiplicata per migliaia e milioni di articoli, allora, per quanto la differenza fra il prezzo di acquisto e quello di rivendita possa ridursi al minimo, la somma dei benefici può diventare enorme. Questo procedimento, così semplice - i11teoria, in pratica è più difficile - è stato conosciuto dagli uomini di tutti i tempi. E' d'esso che ha glorificato il motto che fu trovato scritto in mosaico. sulla soglia di una casa di Pompei: Salve litcro ! - Salve o profitto! Così si è fatta in ogni tempo la fortuna dei mercanti, di quei grandi mercanti che hanno sostenuto nella storia della civiltà una parte di primissimo ordine. Ma, oggi la potenza del mercante tende ad essere un po' offuscata da quella del fabbricante. l trust, dei quali voi sentite tanto parlare, non sono precisamente delle società di mercanti - come in altri tempi, ad ,esempio, fu la Lega Anseatica - ma delle Associazioni di fabbricanti. Fabbricare, è dunque un mezzo di fare degli affari e d~ diventare ricchi? Senza dubbio, ma questo mezzo non dilf erisce esenzialmente dal precedente. E' vero che a prima vista non sì vede il fabbricante fare come il mercante - vale a dire comperare per vendere; ma guardando più attentamente, si scorge - al contrario - che egli fa precisamente la stessa cosa. Egli acquista delle materie prime, del carbone, delle macchine, e sopratutto, ciò che si chiama la mano d'opera; egli mesco,la e unisce insieme tutto ciò e rivende il prodotto: ed è la differ.enza fra il prezzo di vendita di questo prodotto e quello che ha pagato per tutti gli ingredienti che hanno servito alla produzione che costituisce il suo profitto. La sola dilferenza col commer-ciante consiste in ciò che quest'ultimo non si occupa generalmente di qu·este

5 operazioni di trasformazione: egli rivende i prodotti come li riceve. Ma non è che una differenza di grado. Vi sono infatti dei commercianti che fanno subire· ai loro generi certe trasformazioni. Guardate ad esempio il piccolo droghiere davanti alla porta della sua bottega occupato a macinar,e il suo caffè e a girare il manubrio del suo macinino. E il prestinaio? ! Viceversa vi sono fabbricanti, o sedicenti fabbricanti, che non fanno subire alcuna trasformaii.one a-gli artico•li che essi vendono. I così· detti fabbricanti di seterie di Lione, ad esempio, ricevono la seta tessuta dall'o.peraio sul suo telaio, comp-iuta, tagliata, nella sua forma: definitiva: essi dunque non differenziano in nulla dai· commercianti. Conseguentemente :non è diverso neppure il loro profitto, che consiste nella eccedenza ·del prezzo di vendita su quello di costo della mano d'opera, poichè, in effetto, tutte le spese di produzione possono .essere ritenute più o meno come spese di mano d'opera, ·e ·per una certa quantità di lavoro pagato - come pure il prezzo della materia prima e dei mezzi di lavo-ro, si riduce alla fine al costo del lavoro occorso per le operazioni di ricerche, estrazioni, trasporti, ecc., ecc. E questo meccanismo del profitto, che Cairlo Marx ha veduto molto bene, mi· è stato rivelato - sono trascorsi non pochi anni - in una forma molto semplice e suggestiva da un bottaio di Beaucaire. Egli aveva mandato a lavorare in casa mia alcuni operai. Domandai loro quanto guadagnassero; essi mi risposero : 4 franchi. Quando qualche mese dopo il padrone mi inviò la sua fattura, vidi che egli mi conteggiava le giornate degli operai in ragione di 5 franchi. Gli feci notare - in quell'epoca ero già prnfessore di economia politica - che egli non pagava i suoi operai che 4 lire! Mi rispose: Veramente sì, ma varrebbe la pena d'essere padroni, e sobbarcarsi ad un co,sl buffo mestiere se non facessi pagare a' miei clienti il lavoro de' miei operai che al prezzo che mi costa I >.

6 Fu una rivelazione. Gli fui grato di questa inattesa, risposta, e riconobbi che in effetto egli non poteva guadagnare la vita che vendendomi a 5 franchi il lavoro de' suoi operai che egli aveva pagato a 4 franchi. Noi comprendiamo così come il mestiere di fabbricante s,ia più lucrativo e come la sua potenza possa diventare quasi illimitata. Ciò dipende dal fatto che essa si moltiplica pel numero degli operai impiegati. Il mio bottaio, che guadagna va un franco per ogni giornata di operaio, non aveva che un piccolo numero di dipendenti, per modo che il suo profitto, per quanto considerevole (zo %) non lo condusse alla fortuna, ma se egli avesse potuto impiegare IOO, rnoo, IO,ooo operai, allora - pure guadagnando molto meno di un franco p,er operaio e per giorno - egli avrebbe potuto diventare miliardario. Vi sono delle officine e degli stabilimenti che impiegano - come quelle di Krupp a Essen - fino a trenta mila operai. E vi sono degli impr:enditori, come gli organizzatori dì triist, che, senza impiegare direttamente alcun operaio, e non avendo forse che qualche segretario nei loro uffici, con un telefono esercitano il loro controllo sopra centinaia di migliaia di lavoratori. Probabilmente Pierpont Morgan - il famoso creatore del triist dell'acciaio e di quello dell'oceano, senza contare molti altri - rivendeva il lavoro di forse due o trecento mila operai, ripartiti sopra centinaia di migliaia di 1eghe, nelle ferrovie, nelle miniere, nelle fer•• riere e sopra i piroscafi che incrociavano sull'Atlantico. Ecco (lunque definito il profitto: è l'eccedenza del prezzo ,di vendita su quello di acquisto.

7 § 1. - O' onde viene il profitto ? Ma di dove scaturisce questa eccedenza? Per qua.le virtù misteriosa il commerciante o il fabbricante può farsi pagare un oggetto più di quanto a lui costa? In altri termini quale è la causa del profitto? Ecco qui una delle più difficili questioni dell'economia politica. La prima spiegazione che si presenta (ed è quella data dagli economisti) si è che questo profitto, questa eccedenza di valore, rappresenta il supplemento di valore aggiunto effettivamente alla cosa dal lavoro del commerciante o dell'industriale. Il mio bottaio, per restare nell'esempio dato, non può forse dire: Senza dubbio, io vi ho fatto pagare un quarto di più il lavoro dei miei operai, ma ciò è dovuto al fatto che io ho aggiunto al lavoro de' miei operai un lavoro supplementare? Io ho fornito loro gli strumenti di lavoro, li ho preparati col.l'alunnato, li ho cercati e trattenuti per averli in ogni occasione sotto mano e pronti ad inviarveli il giorno in cui voi, od altri, ne aveste bisogno. Ho anticipato il salario per il lavoro eseguito presso di voi, poichè io lo pago ogni settimana, o ogni quindicina, mentre invece non ho inviato a voi il mio conto che dopo s·ei mesi. Tutto ciò non si fa gratis e non è retribuito troppo coll'aumento cli prezzo che vi ho fotto subire. E' molto ben detto. E' incontesta,bile che, ogni volta che il padrone fornisce un lavoro personale, sia pure un lavoro di direzione, che non è certamente il minore, ha diritto ad una rimunerazione. E non solo sarebbe iniquo negargliela, ma ·sarebbe impossibile. Egli è il direttore d'orchestra, e, per quanto non

8 suoni alcun istrumento, senza di lui non si può fare, e per conseguenza lo si deve pagare (I). Ma per quanto accada generalmente che il padrone sia anche il dir,ettore dell'azienda, in teoria le due qualità devono essere diligentemente separate, · il che avviene spesso anche nella realtà. Il manager, come lo chiamano gli americani non è il padrone. Per conseguenza il salario o il giusto compenso del manager - gerente-amministratore - non è il profitto: esso entra nelle spese di produzione. E qua·l'è il costo della produzione? E' il costo della materia prima, poi della mano <l'opera (vale a dìre del lavoro di trasformazione di questa materia); è l'interesse, l'ammortamento, l'assicurazione del capitale investito, ma è anche il costo del lavoro di direzione. La prova è che in tutte le Società, non solamente le Cooperative, ma anche quelle per azio·ni, le compàgnie ferroviarie, di miniere, ecc., i salarii o le indennità pagate agli amministratori, ingegneri, e direttori - compreso in ciò, per esempio·, il direttore generale della Paris-Lyon-Mediterranée o della Nord - figurano nelle spese di produzione (o nelle spese generali, che è la stessa cosa) esattamente come il salario del meccanico o degli operai di squadra. Nè si calcolano i dividendi da distribuire, vale a dire il profitto se, non dopo di aver dedotti tutti i compensi pagati. Nel trust del1'acciaio, il direttore, il manager Schwab riceve 800 mila dollari (quattro milioni di fran,chi) come suo onorario: ma è conteggiato nelle spese generali ciel triist. (1) Questa spiegazione può rivestire una forma tutt' affatto aristocratica, insegnando che l'imprenditore o il padrone essendo il, solo creatore del prodotto, tutto il valore del prodotto gli dovrebbe appartenere e éhe le parti che egli abbandona agli operai non sono che una parte del suo legittimo guadagno. Sono - come dice il Dè Cùrel in una produzione teatrale intitolata • li Pasto del, Leone ,, - i resti del leone, il superfluo della preda catturata che il leone sazio abbandona agli sciacalli. Questi debbono ritenersi ancora troppo fortunati poichè, senza l' ardimentoso caccia• tore ..non· avreooero niente ·da mangiare.

9 Anche nelle imprese individuali, è frequente il caso che il padrone sui suoi libri si accrediti di una certa somma rappresentante il compenso del suo lavoro: vale a dire, l'equivalente di ciò che egli darebbe a un gerente che lo sostituisse; egli lo inscrive nelle spese di produzione e non conta quale profitto propriamente detto che ciò che egli guadagna in più del salario del suo lavoro. Lo stesso lavoro d'invenzione sul quale si è cercato qualche volta di basare il profitto non si può confondere con questo. Esso entra nel costo della produzione: la provc1Jsta in ciò che l'imp-resa a·cquista il brevetto dell'inventore, o paga annualmente ingegneri,· chimici, e disegnatori, incaricati di fare queste invenzioni. Tutto ciò appare più chiaramente in quello che si chiama il dividendo. 11 dividendo è una delle forme del profitto; è il profitto allo stato chimicamente puro. E' il profitto realizzato dalle imprese costituite sotto forma di società per azioni. Ora ci si mostri quale è il genere di lavoro che viene rimunerato dal dividendo? ... A meno che 11011 sia quel1o di staccare i coupons colle forbici. Il profitto non può dunque essere confuso col salario di un lavoro qualsiasi, di direzione o d'altro, poichè, va ripetuto, ogni sorta di lavoro fa parte dell.e spese di produzione, mentre il profitto è, per defini'zione, il di più, l'eccedenza sulle spese di produzione. Perfettamente; ma ecco un'altra spiegazione. Il padrone non fornisce solamente un lavoro di direzione, ma generalmente tutto o in parte il. capitale dell'impresa. Il profitto è il compenso, la retribuzione di que·- sto capitale. In questo caso H profitto si confonderebbe coll'interesse che, come si sa, è la rimunerazione del capitale? Eppure tutti coloro che sono negli affari e anche senza essere negli affari, sanno che il profitto non è la stessa cosa dell'inter,esse. E la prova è questa che diamo subito-: l' interesse, vale a dire il prezzo della locazione del ca.pitale (poichè,

IO non si tratta d'altro), entra nelle spese di produzione esattamente come l'affitto dell'immobile: che l'immobile sia del padrone o semplicemente in affitto, ciò non importa; si conta l'affitto nelle spese generali. Nelio stesso modo si fa figurare l'interesse del capitale sia esso preso a prestito o sia di proprietà del padrone non importa. Un industriale o un commerciante che non ricavasse dalla sua azienda che il solo interesse del suo capitale non riterrebbe di avere realizzato un profitto. Egli riterrebbe giustamente di aver fattò meglio il suo interesse investendo il suo capitale in rendita dello Stato o in obbligazioni ferroviarie o non importa iin qual altro modo e vivendo così di rendita. Non conta come profitto che quello che si realizza in più - in eccedenza - dell'interesse. Gli economisti cercano un'altra spiegazione del profitto dicendo che esso è il compenso dei rischi. Ma noi non possiamo ripetere qui che ciò che abbiamo osservato per le precedenti spiegazioni. Il compenso e la previsione dei rischi contano nelle spese di produzione: essi costituiscono ciò che si chiama 1'ass-icuraz-ione. Salta subito agli occhi che il premio di assicurazione non fa parte del profitto ma del costo cli produzione. E' evidente che un imprenditore che non ritirasse dalla sua industria che la somma necessaria per pagare l'assicurazione contro i rischi, riterebbe di non avere realizzato alcun profitto. Ed egli avrebbe completamente ragione. E allora se il profitto propriamente detto non è nè il salario di un lavoro, nè l'interesse del capitale, nè il premio cli assicurazione, che cosa è dunque? Esso è il risultato di un monopolio, o, se questa parola vi urta, di una situazione privilegiata, cli una fortunata combinazione che permette all'imprenditore di vendere i suoi prodotti al disopra del prezzo di costo e di guadagnare la differenza. Ma guardate che la parola monopolio non svegli

II nella vostra mente l'i,dea di una specie di privilegio conferito dalla legge in perpetuo o per una durata di tempo più o meno lunga; quali appunto sarebbero il mo11opolio delle Compagnie di strade ferrate; del f erro o degli agenti di cambio. Il monopouo che crea il profitto dell'industriale o del commerciante non è della stessa natura. Esso non è conferito dalla legge ma da una situazione di fatto, - il fatto cli avere una marca conosciuta e da lungo tempo, il fatto cli trovarsi sotto mano una miniera dalla quale si estrae carbo•ne a buon costo, o a,i piedi cli una cascata d'acqua ,delle Alpi che permette di utilizzare il carbone bianco, il fatto semplicissimo di essere ·« quello all'angolo della via», invece che quell"altro vicino. Sono infinite le combinazioni che pos- :;0110 creare un monopolio. li monopolio non è una maestà chiusa in un palazzo. Egli è da per tutto. Non \'i è quasi nessuno che a un <lato momento o 111 un dato luogo non possa vedersi investito di un monopolio, grande o piccolo. Lo strillone che va gridando « Il ,lfattino » o « La Sera», gode di un monopolio se egli è solo nella strada: monopolio che dura fino a che un concorrente non viene su' suoi passi. E se voi lo vedete correre così in fretta è precisamente al solo scopo di restare per un po' più cli tempo in possesso del suo monopolio. Ora, dal piccolo al grande, la cosa è la stessa. Realizza un profitto solo colui che corre più in fretta per prendere il posto buono che gli conf eri,rà per un tempo più o meno lungo il mo,nopolio. Il monopolio è spesso e semplicemente il fatto d'una idea che uno ha avuto pel primo. Avere una buona idea e averla avuta prima degli altri; tutto sta qui negli affari. Non è neppure necessario che sia un'idea di genio. Al contrario queste generalmente non rendono nulla. Bisogna che essa sia una buona, piccola idea, pratica che faccia dire a tutti: « To ! non capisco perchè non ci avessi pensato! » - per esempio, il sistema di

12 chiusura delle bottiglie da birra, a mezzo di una molla in filo di ferro, la spilla per nutrici, che procurò milioni - dicono - al suo invento,re (veramente non si trattava di una invenzione, ma di un'idea trovata negli scavi di Pompei) le stringhe <la scarpe ideate da Harry Kennedy, meglio ancora, i pattini a rotelle, il piccolo pallone rosso gonfio di gaz, il paracadute di carta che lo precedette, senza parlare della prolifica famiglia degli aperitifs. Quale fortuna avrebbe potuto fare l'inventore della cartolina illustrata, se avesse potuto prendere un brevetto, per quanto ben lontano dall'acciaio di Bessemer o dal telegrafo senza fili Marconi! Ecco perchè tutte le volte che per una causa qualsiasi un impresario, un produttore si trova investito di un monopolio, si trova per ciò •in condizione di realizzare un profitto; poichè la caratteristica del monopolio ( e la stessa sua definizione ,economica) è di permettere a colui che lo gode di vendere ad un prezzo superiore alle spese di produzione (1). Debbo dire che vi è un'altra spiegazione del profitto che riempie tutto un volume, uno dei più celebri del XIX secolo, sempre citato, raramente letto, più raramente compreso, il «Capitale» di Carlo Marx, che cos~ituisce la base del sistema collettivista. Senza volerlo esporre qui in dettaglio- il che sarebbe difficileio mi permetterò di dire che la tesi di Marx è in certo modo l'inversa di quella che vi ho esposta. Secondo la tesi di Marx l'impresario, il padrone, il commerciante non aumenta il prezzo: egli vende la merce al prezzo normale. Solamente questa merce egli l'ha acquistata, sotto forma di mano d'opera, a un prezzo inferiore al suo valore di produzione. Il profitto è dunque lavoro non, pagato, e per conseguenz,a è sull'operaio, sul sa- (r) Ciò che d'altronde può realizzarsi in due maniere diverse: sia perchè il monopolizzatore può aumentare il suo prezzo di vendita pii1 de' suoi concorrenti ; sià perchè può ridurre le sue spese di produzione più di quanto non possono fare i suoi concorrenti.

lario, che viene prelevato. E il tasso del profitto varia in senso inverso di quello dei salari. Nella dottrina che vi ho esposto, noi abbiamo supposto, al contrario, che l'imprenditore avesse acquistato la mano d'opera al suo vero prezzo ( salvo eccezioni assai frequenti, Io riconosco) (r), ma che rivendendola abbia aumentato il prezzo. Il profitto è il ricavato in più e per conseguenza è sul consumatore che è prelevato. Risulta da ciò che, in caso di abolizione del profitto, è il consumatore, più che l'operaio che è chiamato a goderne i benefici. Ed ecco perchè noi siamo cooperatisti e non collettivisti. E' perchè il consumatore a noi sembra essere, più ancora del salariato, vittima dell'organizzazione economica ed è perchè noi riteniamo che da lui debba cocominciare l'emancipazione socia!~. Ma bisogna aggiungere che la più grande parte dei co11sumatori essendo precisamente costituita cli operai salariati ed il tributo prelevato sul consumatore non potendo essere da lui pagato che sul prodotto del suo lavoro le due spiegazioni non sono così divergenti in fatti quanto sembra a prima vista. Cionullameno, teoi-i-camente, esse sono opposte ed è utile di distinguerle. § 2. - Perchè il profitto è destinato a sparire. Il desiderio del profitto è oggi il principale 1notore non solo di tutta la nostra atti•vità economica, ma ben anco di tutta la nostra vita sociale; per conseguenza è permesso di credere che la soppressione di un tale motore cambierebbe completamente le condizioni della nostra vita e gli stessi caratteri della nostra civiltà. (r) Si deve pure rimarcare che in molti casi, per esempio nelle industrie a swtJatù1g system (a salari di f;:1111::è:),eia parte del consumatore che l'operaio è sfruttato. Ciò avviene pe1chè il monopolio del fabbricante cambia cli faccia e si rivolge contro l'operaio.

Ma quale chimerica ipotesi, si dirà, è mai quella di abolire il -desiderio del profitto in un avvenire qualsiasi! 1:. orse che gli uomini stanno per diventare santi? Niente affatto, ma se la possibi,lità del profitto venisse a scomparire è •chiaro che sparirebbe nel medesimo tempo il desiderio insieme al suo scopo. Ora, l'eliminazione del profitto, quale fenomeno economico, entra nelle previsioni cli I utti quelli che si occupano di economia politica, non solamente degli economisti classici ma anche dei socialisti e infine dei cooperatisti, vale a dire quasi di t11tte le scuole; si può anzi dire che è questo il solo punto sul quale esse si trovano tutte d'accordo. Per quanto paradossale possa sembrare questa affermazione, essa è facile da dimostrare. Anzi tutto è inutile d'insistere sulla tesi <lella scuola socialista. Da Roberto Owen in poi essa denuncia il profitto come il cancro che rode il corpo sociale e vuole estirparlo co·l ferro e col fuoco. 1a parliamo della scuola liberale. Questa crede ai benefici della concorreuza e al suo sviluppo indefinito fino al giorno in cui ella sarà perf etlamente realizzata. In quel giorno, dicono gli economisti liberali, per esempio il Molinari, tutti i difetti che le si attribuiscono, e che non sono dovuti, al contra11io, che ad un imperfetto funzionamento del suo meccanismo, spariranno. E sia; ma quale è il primo e più sicuro effetto della concorrenza? E' quello di sopprimere il profitto. Ben s'intende che la concorrenza non ha affatto per effetto di sopprimere la giusta rimunerazione <lei lavoro, nè l'interesse e l'ammortamento del capitale, nè il compenso del rischio che si chiama assirnrazione, poichè tutto ciò come abbiamo detto, costituisce le spese indispensabili alla produzione. Ma l'effetto della concorrenza è precisamente di ridurre il prezzo di tutte le

rS cose al livello delle spese di produzione e qt1indi di far sparire quel margine, quell'eccedenza, che costituisce per definizione il profitto. E' qui racchiuso un aforismo dell'economia politica (1) e del resto è un fatto ben conosciuto da tutti gli industriali e i commercianti. « Non vi è nulla da guadagnare in quest'articolo: la concorrenza è troppo grande», - ecco una frase che si sente ad ogni istante. E non solamente la concorrenza ha per effetto, di conclurr•e i prezzi di vendita al livello ciel prezzo cli costo, ma anche di farli precipitare ad disotto! ne-I qual caso non solamente l'industriale non realizza profitto, ma produce in perdi.la. Certamente questa situazione non è destinata a durare poichè essa tende a sopprimersi eia se stessa co-lla ruina, il fallimento o la li1quidazio11e - ma i11ogni modo essa è frequentissima. Nell'insieme delle imprese cli trasporto, ecc., vi sono :-cmpre cli quelle che lavorano in perdita. Sicchè dunque il prezzo cli vendita sale e scende, in1·essantemente, al disopra e al disotto di questo livello fissato dalle spese cli produzione. Quando si eleva ·al disopra si ha prnfitto positivo; quando discende al disotto si ha profitto: negativo e che potrebbe essere e- ~prcsso con segno meno (-) che i matematici impiegano per designare le quantità negative al ,disotto cli zero (2). (e) La scuola matematica, specialmente il Walzas dichiara categoricamente ct,c il t::isso del profitto è zero - normale - intendendo con ciò che si tratta di un regime di libera concorrenza perfetta. (2) E si può pure pensare giustamente che le perdite e i profitti si compenserebbero se si potesse abbracciare con uno sguardo tutto il mondo economico ciò che significa che di già attualmente il tasso medio del profitto è zero. E la prova sta in questo fatto curioso confermato dall'esperienza degli uomini d'affari che due capitali ti che collocano il loro denaro l'uno in azioni l'altro in obbligazioni - vale a dire l'uno che parteciperà ai profitti e subirà le perdite, l'altro che esclude profitti e perdite - finiranno per ritirare, abbracciando un lungo lasso di tempo, la stessa rendita,

Così è raro che il monopolio e il profitto che da esso deriva durino molto a lungo, qualche volta neppure la vita d'un uomo, malgrado gli ,sforzi di coloro che lo detengo1no per conservarlo, malgrado gli avvisi lanciati al pubblico per avvertirlo che SL tratta deU'unica casa I la, vera I la bnona I - Maria J osè Farina - per l'acqua di Colonia - e che si deve verificare se la firma della casa è sulla bottiglia. Spesso si sente dire: la tale casa era ,in voga•, ora non lo è più. Ciò vuol dire che le cause che avevano creato il monopolio hanno cessato di esi,ster.e. Accade del mondo degli affari esattamente come della superficie del mare. L'acqua oscilla incessantemente: ella s'innalza in onde e si sprofonda in avallamenti. Quan•- clo il mare è agitato i flutti si •elevano come delle monlagne, si spalancano in abiss.i. Allorchè la -calma ritorna la superficie tende a prendere il piano orizzontale - la linea orizzontale che gli ingegneri e i geografi designano colla quota zero - ma senza co•incidere mai con essa, esattamente. La stessa cosa si manifesta nel mondo degli affari: vi sono i periodi cli crisi, in cui soffiano lo spirito di intrapresa e tutti i venti della speculazione, che rappresentano l'alternarsi degli alti e bassi smisurati dei prezzi; dei grandi profitti e deUe grandi perdite, in cui gli ab·ili fanno fortuna e gli incauti si rovinano. Poi, quando la tempesta è passata, le oscillazioni si attenuano, i prezzi tendono a riprendere la loro posizione -d·i equilibrio yerso il centro di gravità, al livello del co,sto di produzione, ma senza mai coincidere con esso. Ma se si voJ.esse supporre un regime di libera concorrenza as,sooJuta, nel quale non potesse sorgere neppure momentaneamente alcun monopolio di diritto o cli fatto, in etti ciascuno potesse tentare qualsiasi impresa e colla iclenti-ca probabilità di successo, in cui le persone e i capitali potessero spostarsi colla stessa facilità e rapidità dell'acqua in vasi comunicanti, in

17 questo caso da per tutto il prezzo di vendita coinciderebbe con quello di produzione e il profitto sarebbe zero; allo stesso modo che, supponendo una calma perfetta del mare, tutte le oscillazioni si arrester,ebbero e la superficie diventerebbe assolutamente orizzontale come l'acqua d'un lago senza grinze. Pass-iamo ora alla scuola cooperativa. Che cosa è la società coo1 perativa di consumo? Sono dei consumatori che stanchi di pagare dei prezzi eleva.ti sul pane, sul vino, sul caffè, su tutto - vale a dire di pagare un profitto al fornaio, al dr.o-- ghiere, ecc., s'intendono fra di loro per procurarsi queste derrate al prezzo di co,sto e sopprimere così il profitto, o almeno - ciò che costitui·s-ce la stessa cosa - metterlo nelle loro tasche. Questi prodotti sono generalmente venduti dai magazzeni cooperativi allo stesso pr,ezzo d,ei commercianti, ma l'ecc,edenza di questo prezzo di vendita sul prezzo di costo invece di ess~re prelevato dal commerciante, è prelevato dalla società e restituito da essa, sotto il nome di bono, ai suoi soci. Così il profitto è restituito all'acquirente al quale era stato pr-eso. La natura e l'orìgine del profitto appare qui in modo chiarissimo. Man mano che la società di cons,umo si allarga, non si limita solo ad acquistare all'ingrosso, ma fabbrica essa stessa tutto ciò di ,cui ha bisogno per procurarselo al prezzo di costo; vale a dire che dopo di avere soppresso il profitto del commerciante, essa sopprime quello del fabbricante. I consumatori diventano i commercianti e i fabbricanti di loro stessi, e non a•rricQhiscono più nè gli uni nè gli alt1,i. Per modo che la migliore definizione che si possa dare della cooperazione di consumo (ed insieme di tutte le forme di cooperazione, produzione, credito, costruzione - ma non posso mostrare qui come ess-e siano in ciò tutte simili) è questa: itna associazione che tende a sopprimere il profitto. E che cosa accorda

18 essa al capitale? Tutto ciò che il capitale accorda oggi all'operaio: il diritto d,i vivere, la qual cosa comporta l'ammortamento e l'interesse, vale a dire la parte necessaria per permettere al capitale di mantenersi e riprodursi - come il salario è ciò che permette all'operaio di mantenersi e di riprodursi. E tale era del Pesto l'articolo essenziale del pro-• gramma di Owen, l'uomo conside•rato, a giusta ragione, come il padre della Cooperazione. Così, non si può dire che l'abolizione del profitto è impossibile, poichè essa ci si presenta al contrario come l'incontro, lo sbocco necessario dei dite regimi economici, che, considerati sotto tutt'altro aspetto sono assolittamente l'antitesi l'uno dell'altro: quello della concorrenza assoluta e quello della cooperazione integrale. Coinci,denza curiosa e veramente •eloquente questa di vedere queste due vie della evoluzione sociale, che sembrerebbero così divergenti, condurre le soci,età umane, - si mettano esse per l'una o per l'a.!tra del'le due vie - esattamente al medesimo punto! Qualunque sia l'avvenire, la sorte del profitto è decisa! Non diciamo du11que più: s-alute ,al profitto! ma: addio aJ profitto! Non è strano di pensare che questi profitti e queste fortune, che tengono così grande posto nella opinione del mondo e nelle preoccupazioni degli uomini ,e che sono anche il solo fenomeno economico che colpisce gli uomini non siano niente di più che un flutto che passa coronato di schiuma, e sotto il quale scorre immutabile la vita economica.? E come mai? Del mare così immenso, e delle sue profondità piene di vita che vediamo noi all'infoo·ri delle sue onde e della lo,ro schiuma? Ma, direte voi, tutto ciò è utopisti,co, poichè la concorrenza assolutà e la cooperazione integrale non si realizzeranno mai e di conseguenzia non si realizzerà neppure l'abolizione del pro.fitto. Forse! Purtuttavia esiste una legge ben nota agli economisti e insegnata da per tutto,

19 così da Carlo Marx che da Leroy-Beaul-ieu, che sembra indicarci che noi tendiamo verso questo stato di cose: è quella che è chiamata « la legge d,i decrescenza del tasso del profitto». Questa decrescenza si manifesta in tutti i paesi e per quanto i matematici ci insegnino che una progressione può avvicinarsi indefinitivamente a zero senza mai raggiungerlo, il fenomeno è pur tutta via sintomatico. Io comprendo bene, malgrado tutto ciò che ho detto, che questa asserzione: sotto un regime di libera concorrenza assoluta e di equilibrio economico perfetto i profitti sarebbero zero - sembra sorprendente. Anzitutto essa sorprenderà e stupirà gli industriali. Essi diranno: questo è assurdo, impossibile ed ingiusto! Se non vi fosse più profitto non vi sarebbero più imprese, giacchè nessuno impianta imprese là dove 11011 vi è nulla eia guadagnare; e sarebbe perfettamente illgiusto, del resto, che questi imprendito•ri lavorassero per niente. Il regime della libera concorrenza o della cooperazione integrale - ammettendo che esso sia irrealizzabile - non potrà realizzare mai uno stato di cose che implichi contraddizione. Ma coloro, ai quali si affacciasse qll'esta obbiezione dimenticano -ciò che noi abbiamo detto più sopra, e cioè che la rimunerazio,ne del lavoro e dei capitali, forniti dall'imprenditore si trova già compresa nelle spese di produzione e che per conseguenza, ancorchè il profitto fosse eliminato, essa non sarebbe intaccata. Effettivamente, se l'imprenditore conserva: 1° la giusta rimunerazione del soo lavoro di direzione; 2° l'inter,esse e l'ammortamento de' suoi cap•itali; - con quale di,ritto pretender,ebbe, sotto il nome di profitto, un supplemento ? Su quali titoli fonderebbe questo diritto? E se 1111 regime economico nuovo, - sia esso quello della libera concorrenza, perfetta, sia quelto della Coop,erazione, - venisse a toglierglielo, dovrebbe lagnarsi? Egli perderà, è vero, il beneficio che ricava dal suo monopolio, ma gli resterà la consola-

20 zione di fare come tutti gli altri, di viv-ere, cioè, solamente della rendita del suo lavoro e de' suoi capitali. Non esistono forse società industriali che vivono senza distribuire dividendi ·e che possono purtuttavia durare indefinitivamente? Ora una società che vive e produce senza distribuire dei dividendi, è esattamente la stessa cosa che un padrone che vive e produce senza realizzare profitti. E le perdite, mi dicono gli uomini d'affare, voi le contate per nulla? No, non le dimentico; ne ho di già parlato a proposito dell'assicurazione, ma rispondo: r0 che l'assicurazione contro le eventuali perdite è compresa nelle spese di produzione, se la -contabilità è ben fatta; 2° che d'altronde, sotto il regime ipotetico d'equilibrio assoluto fra la produzione ed il consumo le perdite non esisterebbero; esse sparirebbero allo stesso modo che sulla superficie liquida assolutamente orizzontale, spariscono nello stesso tempo te depressioni e le onde. § 3. - Conseguenze eventuali della abolizione del profitto. Ma, tuttavia, non• sii deve temere che sotto l'uno o l'altro di questi due regimi l'eliminazirone del profitto e la riduzione di tutti i prezzi al livdlo del costo di produzione - vale a dire in somma la soppressione di tutte le probabil,ità per far fortuna e, dicciamo pure anche <li quelle di rovinarsi - abbiano per risultato di raffreddare singolarmente lo spirito d' iniziativa e quindi di arrestar•e il progresso, e che il mondo economico, rkondotto a questo livello orizzontale e monotono, a questa superficie stagnant·e ,e piatta alla quale noi ,l'abbiamo comparato ,diventi, poco attraente per gli spiriti d' avventura, per tutti quelli, e sono i più arditi, che amano spiegare la lo,ro vela al vento e sentirsi sbattuti dal flusso e dal riflusso? « Vi è nelle eose

2I umane, dice Shakespeare, una marea che, approf1ttanclo ciel flatto montante, conduce alla fortuna». Quando questa marea sarà sparita che faranno gl,i uomini? Essi s'arresteranno inerti, e gracideranno come le rane accovacciate sulla riva del padule. C'è del vero in questi apprezzamenti e vi è anche della grandezza. Voi vedete che non ho cercato di affievolirli (1). Es,si si erano già affacciati allo spirito di un grande economista, J ohn Stuart Mili. Egli pure aveva annunciato, poco più d'un mezzo secolo fa, basandosi sulla legge della diminuzione graduale del tasso ciel profitto, che sarebbe potuto venire un giorno in cui, in causa di questo rallentamento, « il fiume dell''Ìndustria umana sarebbe sboccato, alla fine, in un mare stagnante». Ed egli denominava qu,esto regime futuro con un n10me significante: « lo stato stazionario». Ma lo accettava del resto, con rassegnazione, se non con entusiasmo, facerndo rilevare che la ricerca ciel profitto non è il solo scopo clell'attil\lità umana e che al meno non si vedrebbe più sotto questo regime, come oggi giorno agli Stati Uniti « tutto un siesso occupato a dat~e la caccia a-i dollari e l'altro sesso occupato a preparare cacciatorr di dollari ». Certamente, il profitto non è il solo movente dell'attività economica! Attualmente,. è vero, è così. Prendete qualunque impresa! è evidente che essa non si fonda e non funziona che in vista del prnfitto. L'officina, la fattoria, la mi1 niera, le strade f.errate, non lavo·- rano che per questo. (r) Esse apparirebbero tanto più impressionanti se si pensa che l' equilibrio perfetto si presenta in tutti i domini come la fine di ogni scambio e per conseguenza è la febbre della mort,e. Il giorno in cui l'equilibrio di temperatura sarà stabilito fra gli astri raggianti e gli spazi ghiacciati, gli astri si spegneranno. Il giorno in cui obbedendo alla legge della gravitazione, le parti alte della superficie terrestre saranno state trascinate nel mare non vi saranno più nè montagne, nè valli, nè fiumi e la superficie orizzontale della terra non 11arà più che il fondo di un mare uniforme che la ricoprirà tutta intiera.

22 E' in vista del profitto che l'uomo semina e lavora i campi; che miete ·e vendemmia, che re111de incandecente il ferro e che solca i mari. Ma com.e? non si potrebbe concepire un regime economico nel quale 1.utto fosse fatto in vista del consumo e non più in vista della vendita? nel quale l'uomo producesse il pane e il vino non più per trarne profitto, ma per mangiare l'uno e per bere l'altro? Il bisogno non p·uò diventare dunque il movente sufficiente dell'attività eco111omica e non sarebbe egli una guida p-iù sicura? Se il soìo bisogno governasse le impres,e non si vedrebbero abolite tutte queste false manovre che non possono spiegarsi che come la c-onseguenza del nessun conto in cui sono tenuti i veri bisogni, sacrificati al vano desiderio ciel guadagno•, quali le falsificazioni dei prodotti, la sovraproduzione e sopratutto il fatto che quelli che hanno più urgenti bisogni sono quelli peggio serviti? Del resto è per qnesta via che hanno irucominciato tutte le industrie umane: è evidente che l'uomo non ha cominciato a produrre che per il su-o consumo: egli non ha seminato, arato e mietuto che per soddisfar.e la sua fame. L'idea di fare tutto ciò per vendere il graoo e ritirare una maggiore quantità di denaro -di quello speso è venuta più tardi, e può benissimo sparire come è venuta. L'avvenire, una volta di più, tornerà al passato. E questo nuovo regime non ha nulla di utopistico. E' già realizzato per quanto in piccole proporzi.oni. E' un fatto che vi sono, in Inghilt,erra, centinaia di fabbriche appartenenti a società cooperative, che producono il pane, le scarpe, le confetture, gli abiti, non in vista del profitto ma unicamente in vista ,dei consumatori che li acquistano al prezzo di costo. E non pare che la loro pr0rduzione sia infer-iore in quantità, nè, sopratutto, in qua.Jità, a quella delle impr,ese aventi uno scopo lucrativo.

L'emulazione, lo spirito di corpo, le espos1z10ni, bastano per esse a sostituire lo stimolo del profitto. Noi 11,011 dobbiamo dunque temere che la scomparsa del profitto, per quanto ralenti o isterilisca le sorgenti della fortuna, abbia per risultato di isterilire la produzione, di arrestare il lavoro, di ostacolare il progresso economico nè il desiderio del meglio. Io credo che noi abbiamo, il diritto ed anche il dovere di guardar·e in faccia questo avvenire con occhio più sereno che Stuart-Mill (1). Un'acqua tranquilla non è necessariamente un mare; essa può essere un lago bleit come il Lemanno. Non i- meno bello d'un mare tumultuoso ed è più ridente. Sarà lo stesso, di questo regime economico che Stuart-Mili chiama stato stazionario e che preferisco denominare - poichè chi dice stazionario sembra dire rou,tine e impotenza - lo stato, d'equilibrio, lo stato in cui tutte le cose saranno pagate quello che sono costate a produrle; niente di più, niente di meno; in cui tutto si scambierà, lavoro uguale contro lavoro uguale; in cui nessun beneficio o profitto sarà prelevato sull'altrui, nè sul salario nè sul consumatore; in cui gli spiriti non saranno agitati dall'alternarsi della fortuna e della ruina, in cui essi non avranno più bisogno, per conquistare la loro preda, del rostro e degli artigli dell'avoltoio - sarà uno stato propizio allo sviluppo delle energie intellettuali, estetiche, politiche e morali. E' per queste nuove vie che si riverserà l'eccesso di attività che oggi si sca1Jena alla conquista del profitto. L'uomo non può tutto perseguire contemporaneamente e collo stesso ardore. Bisogna scegli.ere. Augu•- (r) Qualcuno crede che la scomparsa del profitto renderà impossibile il risparmio e per conseguenza ogni aumento di ricchezza nei diversi paesi. Poichè, essi dicono, su che cosa è preso il risparmio se non sul profitto? Eh via I Non sappiamo forse che il risparmio è altrettanto facile al consumatore il quale, non avendo più profitti da pagare, si trova di tanto più ricco di quanto lo è colui che intascava prima il profitto ?

24 riamaci dunque per lui che il suo fervore si eserciti per delle gioie più nobili che non siano il denaro. Insomma: così è stato anche pel passatOI: la bellezza fisica e le corone dei giuochi olimpici pei: Greci,. l'onore e la nobiltà del sangue pei cavalieri del Medio Evo, erano i beni al disopra dJogni altra cosa e per i quali solamente valeva la pena di viv,ere o morire. Vi saranno forse nell'avvenire dei beni che gli uomini metteranno al disopra di tutto e che non saranno più il profitto; dei beni il cui desider.io non sveglierà gli istinti rapaci e la cui conquista non richiederà più lotte crudeli. E non si vedrà più la turba infuriata di coloro di cui parla Hennebicq: Che vanno scarni per le vie, L'odio e la vendetta nelle mani, E sognano, e pensano Alla strada che si allunga, Ai giorni passati e perditti Ad arricchire degli sconosciuti.

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