Una città - anno VI - n. 49 - aprile 1996

_:" / ·~.;;~{@}t-:/..:, ~ 1{ .> ·;;;)Wfa ~~ .-~:; )1( -~2 f?:t{: ·::.~ ,ij;- p ;t• ~--~ !J~ y:-~;:-~. ,;.:.~- /. :~ aprile ALLA FINE DELLA PROMESSA. A fronte della crisi degli istituti intermedi, dai partiti ai sindacati alle camere di commercio alle università, che non riescono più a metabolizzare i cambiamenti, la grande vitalità del molecolare che, dalle imprese ai sindaci, media in prima persona Ira locale e globale. Con la fine della promessa di una crescita infinita l'attualità del "servizio e manutenzione". Di questo e altro nel verbale di un seminario con Giuseppe De Rita, Guido Bo/alfi e Aldo Bonomi. In seconda e terza. LA FASESILENTE è quella che precede il momento in cui i bimbi extracomunitari si avve'nturano nel parlare italian_o. A raccontare i problemi del loro ingresso nella scuola dell'obbligo è Fiorenza Tedeschi. MADRI DI GIORNO è la proposta, da Bolzano, di un centro autogestito in cui le madri possono portare i bambini e intrattenersi Ira loro. In quarta e quinta. FRA DANTE E L'EUTANASIA è l'intervista a studenti liceali di Bologna e Napoli sullo stanco rituale dell'occupazione, sulla difficoltà a conciliare programmi e attualità, su un certo elitarismo degli studenti politicizzati. GLI IDOLI CORAGGIOSI è un 'intervista a due ragazze napoletane sul maschilismo in classe. In sesta e settima. LA DELUSIONE POLACCA è l'intervista a Karol Modzelewski sulla situazione in Polonia, dove, mentre gli ex-comunisti sono dediti ormai agli affari e gli anticomunisti non fanno che ripetere vecchie accuse, si è diffuso, insieme al disagio economico e sociale, un grande senso di delusione. In ottava e nona. Ne LA FALDA CENTRALE, in decima, Darko Bratina ci parla del suo viaggio in Russia per le elezioni. Insieme alla lettera di Kanita Fociak da Sarajevo. In MALA EXEMPLA Marcello Gallo ci parla della separazione delle carriere Ira giudice e magistrato d'accusa. In undicesima. Ne L'OZIO E IL NEGOZIO Benedetto Saraceno, psichiatra, ci parla di riabilitazione: non è una tecnica ed è utile solo a patto di considerare, in tutta la loro importanza, il contesto della malattia e la capacità contrattuale del malato che è cittadino. In dodicesima e tredicesima, insieme all'intervento di Camillo de Piaz. Ne I POSSIBILI SVILUPPI Karl Ludwig Schibel ci spiega il pensiero di Bookchin, vecchio anarchico ed ecologista, a proposito di progresso, tecnologia, democrazia ed ecologia profonda. LA MISURA GIUSTA è /'intervista a Wollgang Sachs, sulla fine di una politica intesa secondo le leggi della fisica. in quattordicesima e quindicesima. TI SCRUTANO è il racconto di Luisa Melazzini, missionaria in Perù. In ultima. In copertina: Milano, piazza Duomo. Bianco

un ALLA FI DELLA PRO ESSA Ripartire dalla molecolarità sociale capace di mediare fra locale e globale. La stretta fra populismo e globalizzazione e la saga dei "parametri di Maastricht". La fine della promessa infinita della crescita. Il futuro nel "servizio e manutenzione", dove conta l'arte della ripetizione. Un'istituzione non paralizzata da procedure e competenze. Verbale di un seminario con Guido Bolaffi, Aldo Bonomi e Giuseppe De Rita. Riportiamo parti del verbale di un seminario svoltosi presso l'Aaster di Milano. Partecipano Giuseppe De Rita.presidente del Censis, Guido Bolaffi, capo- dipartimento del Ministero degli Affari Sociali e Aldo Bonomi, direttore dell'Aaster. Bonomi. La discussione può svilupparsi innanzitutto intorno a cosa significhi per il nostro impegno di animatori dello sviluppo locale il passaggio da un'azione esclusivamente orientata all'economico a un'azione a fianco della pubblica amministrazione per creare momenti di interconnessione nel sociale, nelle forme di convivenza, nella costruzione di reti tra città. Questa sfida ci era stata lanciata tempo fa dallo stesso De Rita: "Forse si è chiuso il ciclo in cui bisognava fare animazi9ne nelle aree deboli e occuparsi solo dei problemi dello sviluppo; nelle città si sta deii"- neando lentamente un embrione di classe dirigente; si può cominciare a fare accompagnamento tramite una figura di ricercatore-operatore di comunità". Secondo me, era una pista di lavoro che aveva a che fare con il problema dell'anomìa, quell'assenza ormai di norme sociali provocata dall'incapacità di una serie di istituti intermedi, dai partiti alle grandi agenzie culturali, di metabolizzare i grandi processi di mutazione che l'economico e la tecnica producono. Ci sembrava che lavorare attorno ali' anomìa potesse orientare un ulteriore sviluppo del nostro lavoro di ricerca sociale. Due dubbi. Lo stesso De Rita ci disse allori: "Ma quando fai le missioni di sviluppo il successo o l'insuccesso di un' operazione riesci a quantificarlo, hai dei parametri per misurarlo. In un'area a sviluppo difficile si presume che hai avuto successo se avrai formato alcune imprese giovanili, se avrai lasciato dei beni, se avrai prodotto inclusione. Se tu, invece, lavori su una forma astratta come l'anomìa, quali sono gli indicatori di successo?". L'altro, più che un dubbio è una messa in guardia dai fraintendimenti intorno al nostro successo. C'è oggi un'aumentata attenzione su questi temi, che si può ricondurre essenzialmente al fatto che ormai questa società deve produrre artificia~mente ciò che la tiene insieme; deve, cioè, pagare operatori che vadano a ricostruire elementi di relazione sociale. E' una valutazione un po' triste, ma frutto proprio della crisi profonda dei luoghi intermedi che facevano da sé, gratuitamente, interconnessione sociale. Il secondo punto di discussione è la crisi del we/fare. Uno dei temi su cui abbiamo molto ragionato in questi anni dentro l 'Aaster è stato proprio la transizione dal fordismo al postfordismo, che vede imporsi l'egemonia culturale del lavoro autonomo o indipendente. Non c'è dubbio che se la forma del lavoro diventa individuale, se il soggetto corre libero nella gara delle opportunità, vengono meno anche quegli elementi di solidarietà, di azione collettiva che prima, automaticamente, erano incorporati dentro il lavorare. Non è un cambiamento da poco. Legato a questo, poi, la forma dell'impresa sociale, del cosiddetto terzo settore, che ripropone alcuni comportamenti solidaristici dentro la crisi del welfare, ci pare un tema importante su cui URSULA BARZAGHI SENZA VERGOGNA UNA STORIA DI CORAGGIO CONTRO L'AIDS ragionare. DeRita. Se abbiamo avuto un potere negli anni 70 e 80, era perché abbiamo cantato la saga della piccola impresa e del localismo. Oggi, la saga è quella della competizione, dell'organizzazione, dell'efficienza a tutti i costi, della mondializzazione: è la saga di Maastricht. Una saga che non si sa dove nasca, se a Wall Street o alla Borsa di Londra o in quella di Tokyo, ma che alla fine arriva pure nella nostra piccola aziendina di 15 persone, arriva pure nel più piccolo paese del Sud Italia, perché, come ricorda spesso Aldo, questo è il vero potere, il potere delle parole, il potere dei concetti, il potere del racconto. E il racconto di oggi è quello dei "parametri di Maastricht". Può darsi che io sia vecchio e che questa saga sia la migliore del mondo, ma non ne sono convinto. Resta il fatto che quella della competizione, dell'efficienza globale, della mondializzazione, insieme a quella della comunicazione di massa, sono le due saghe che attualmente vengono raccontate. Tutto questo significa, da una parte, una cultura di massa che in assenza di conflitto sociale, di dialettica sociale crea populismo e potere dei Cesari, potere della televisione e annullamento dello spirito critico, dopodiché nulla di strano che in piazza a Napoli, a uno che dice: "A chi l'Italia?", loro, come una massa inerte, rispondano: "A noi!"; mentre, dall'altra, il racconto dell'efficienza e della crescita globale a tutti i costi, ricade su di noi in termini di chiusura di qualsiasi gioco. L 'efficienza assoluta significa eliminazione dello stato sociale, diete magre per tutti, dalle imprese fino agli istituti di ricerca e porta alla fine di ogni ridondanza. Altro che nuovi Adriano Olivetti! Pensate, per esempio, cosa fu I'Ibm quando arrivò in Italia: aveva il 10-15% in più di personale, doveva essere ridondante, perché la ridondanza è ricchezza, perché c'è qualcuno che può studiare, può parlare, può ragionare, può ricercare quello che serve all'efficienza quotidiana. Un mondo che non ha ricchezza non ha neppure bellezza. Nella cultura italiana, nella cultura europea, non si dà una ricchezza estetica che non sia legata ali' abbondanza, al mecenatismo, alla cultura dell'in più, della ridondanza. window 94, window 95, window 2077. Poi? Ancora window? Qualche volta anch'io ho detto: "Bisogna ricontrattare Maastricht". Ma la gente sorride, perché il racconto vuole altro, perché il racconto è già scritto. A quel punto potremmo anche andare a migliorare la qualità della vita nel Comune di Guardia Greca, provincia di Chieti, ma non è che poi sia una cosa meravigliosa, ci possiamo mandare davvero i parroci e i volontari. II primo punto è quindi questo: in che modo contrastare la crescita del populismo e il racconto della globalizzazione. Vediamo il secondo punto: il we/fare. Il we/fare è certamente l'elemento che viene toccato principalmente e prioritariamente da questi due processi. Rispetto al we/fare una cultura populista fa scattare o la difesa acritica dell'esistente: "Guai a chi mi tocca la pensione, vado in piazza!", oppure fa scattare l'emozione dei volontari: "Vado e faccio tutto io!", e in mezzo non resta niente. Il populismo rivela qui la sua doppia anima: quella, incazzata e nervosa, da casseurdi strada, e quella, nobile, di chi va dagli handicappati la domenica mattina in parrocchia. Dopodiché le polizze salute, le polizze sanità, le polizze integrative di pensione non funzionano, i fondi pensione sono ancora di là da venire e sono tutti lì a combattere: saranno le banche, saranno i sindacati o saranno le società di assicurazione? Gli stessi corpi intermedi, pensate al sindacato, alla fine non riescono a gestire altro che la difesa della realtà di fatto. Ma ~sGorso dellçQizzazione esprime valori che sono tutti antiwelfare: il valore del l'efficienza, iI valore del la competizione, cioè quella sorta di darwinismo sociale che sta dentro la saga della competizione globale e che dice: "Si cresce o si muore e, siccome molta gente non può crescere, non sopravvive e muore". Terzo ed ultimo punto: il passaggio dalla ricerca-azione per lo sviluppo locale alla ricerca-azione per la convivenza collettiva, alle reti di città. Per carità, è il trend naturale di sviluppo del vostro lavoro, non mi sentirei proprio di modificarlo. Ma c'è un però: la ricerca-azione per lo sviluppo locale aveva forza sia nella parola "ricerca-azione" che nelle parole "sviluppo locale". "Ricerca-azione" è una parola che aveva in sé forza di potere: significava militanza, fare autocoscienza di gruppo, significava autodominio, autoprogrammazione della comunità. Così come c'era una forza notevole nell'espressione "sviluppo locale", perché "sviluppo" e "locale" sono parole che hanno segnato gli anni 60-80. Invece, espressioni come "convivenza collettiva", "qualità della vita", "servizi locali", mi sembrano più deboli perché non hanno dentro di sé il germe della crescita. E senza quella parola, "crescita", non avremmo avuto lo sviluppo imprenditoriale, la ricchezza, l'esplosione del Nordest. Dire: "Ritorniamo nella città, risistemiamo la nostra vita, facciamo dei buoni servizi per gli anziani, per i ragazzi, eliminiamo l'inquinamento, ecc.", per carità, ha una tensione razionale, ma non quella sorta di psichismo collettivo che ha accompagnato la crescita del locale, lo sviluppo locale. Allora o a tutto questo si dà una spinta diversa, perché diventi, non dico una svolta epocale, ma una svolta culturale notevole o, altrimenti, resta solo razionalizzazione, difesa dell'esistente, "viviamo al meglio". E sappiamo che non si vive al meglio, perché i processi, quelli grandi, compreso il populismo, crescono anche nelle città' ben organizzate, non solo in quelle scombinate. Allora mi domando se, come dice Hillmann nel suo ultimo libro, non si debba concepire il potere non più legato alla doppia frase "crescita ed efficienza, efficienza e crescita", ma legato a un'altra doppia frase: "servizio e manutenzione". Mi chiedo, cioè, se non si debba, noi ricer- \ catori, sottolineare il fatto che con questi anni 90 finisce il continuo upgrading, la promessa infinita dello sviluppo, della crescita, del nuovo sviluppo, della nuova crescita e comincia invece un ciclo di downgrading in cui diverrà sempre più attuale il servizio, la manutenzione. Questa è l'ipotesi su cui in parte mi muovo io. Del resto, Io sapete che il Censis, da tre o quattro anni, e a differenza di tanti altri, ragiona di downgrading. Chi ha letto Confucio nel computer di Furio Colombo, sa che la tecnologia che innerva il capitalismo moderno, cioè la telematica, vive di promessa infinita. E' la sua grande forza, ma anche la grande debolezza perché prima o poi I' upgrading finisce: ti do questo, ma fra due anni ti posso dare quest'altro. Window '94, window '95, window 2077, puoi navigare in Internet, puoi avere tutto, il contrario di tutto. Per noi, sul piano politico, l'upgrading è stato Berlusconi: ha promesso, ha rilanciato, è fuggito in avanti, però, poi, abbiamo i dati sui consumi: sono tre anni che c'è downgrading, abbiamo i rapporti sulla tecnologia, che ci dicono che siamo di fronte a una tecnologia media. Allora, forse, non si tratta neanche di contrastare 1'onda di Maastricht, perché se ne andrà via da sola. Per stare dentro iIprocesso storico devo sapere qual è l'onda successiva, a meno che non si scelga di fare i gestori di una residualità. D'altra parte, questa è, nientemeno, la scelta della Chiesa: i poveri, i volontari, il terzo settore, le parrocchie, la comunità locale. A mio avviso, ma questo riguarda me come cattolico, non è giusto che un grande soggetto collettivo come la Chiesa scelga di non stare al l'interno del processo per prendersi cura soltanto dei cascami, dei poveri residui, dei dolorosi residui, quello che sia. La scelta privilegiata per i poveri va benissimo, ma così non si è più soggetto di storia. Se invece noi vogliamo avere un po' di potere, dobbiamo aver l'orgoglio di ricominciare il racconto da un altro punto di vista. Allora dire "servizio e manutenzione", significa ad esempio andare in giro per le città e dire: "non vengo a gestirti il terzo settore, ma a spiegarti cosa significa oggi fare le opere pubbliche pensando a come saranno manutenute". Significa andare a dire: "vi proponiamo una riflessione sui servizi, non sui servizi sociali, ma sul modo in cui iIcomune o la provincia fanno servizio, predispongono servizi". se anche il più grande soggetto collettivo della storia, la Chiesa.•• Naturalmente c'è il rischio che l'onda dell'efficienza e della crescita, l'onda di Maastricht e della globalizzazione, siano più forti e rendano, fra cinque anni, del tutto marginale una logica di questo genere. Male che vada, ci resterà da fare quello che diceva Aldo: il problema della convivenza collettiva, il terzo settore, poiché l'organizzazione del welfare sul territorio resterà comunque. Se accetta di essere subalterna al ciclo storico la Chiesa, che è il più grande soggetto collettivo che esiste al mondo ... Bolaffi. Credo che il problema sia riprendere i fili di un ragionamento su una cultura di centrosinistra in Italia, perché lì sta il possibile punto d'incontro del meglio di questo paese. Un meglio che deve contemperarsi, e questo penso di averlo misurato personalmente: la mia cultura socialdemocratica è tendenzialmente istituzionale. A me non piace molto il sociale; sono, quindi, su posizioni opposte a quelle di De Rita, almeno per come penso di averle capite studiandole fin dagli anni 60, e di quelle di Aldo, con cui abbiamo avuto tante discussioni. E infatti sul tema dell'immigrazione ci siamo incontrati partendo da due punti di vista diametralmente opposti e credo che questo sia un segno dei tempi. Credo che una cultura di centrosinistra sia quella in cui l'alto e il basso, il sociale e l'istituzionale possano incontrarsi proficuamente senza avere la reciproca presunzione di comandare l'uno sull'altro. E veniamo ad alcuni punti. Innanzitutto, non c'è dubbio che questa fase, che Aldo chiama "postfordismo", sia caratterizzata da un elemento di fondo: il sistema industriale ha garantito, e comunque ha fatto sognare a tutti di diventare classe media. Si ha voglia a dire, ma il proletario aveva il frigorifero, poteva mandare a scuola i figli, ha conosciuto una fortissima mobilità sociale. Io, che sono nato nel '46 sapevo certamente che, se proprio la sorte non mi fosse stata contraria, sarei stato meglio di mio padre. Oggi questo non è più vero. Mentre, al Iora, un 20% si trovava in condizioni peggiori del padre per propria incapacità o per sorte avversa, oggi è l'opposto: solo il 20% riesce a vivere meglio. La molla che aveva prodotto quella crescita oggi non c'è più. L'immagine della famiglia americana con la bottiglia di latte, il frigorifero, il verde tutt'intorno, che aveva messo in movimento i sogni del pianeta oggi non c'è più. Che si debba partire da qui siamo d'accordo, dopodiché, però, si pone il problema della specificità di ogni paese. Maastricht è lo stesso per l'Olanda, per il Belgio, per la Francia, per la Germania e per l'Italia, ma poi bisogna vedere qual è il modo e la cultura con cui la classe dirigente italiana affronterà il problema Maastricht. Anche iImercato funziona e ha regole ferree in tutto il mondo, ma la risposta giapponese non è quella di Detroit, il sistema sindacale italiano non è quello francese. Voglio dire, cioè, che ci sono margini di autonomia che producono un surplus o un minus rispetto a un quadro strutturale di ristrettezza, quello sì, per molti aspetti, surdeterminato. Qui, però, cominciano le discussioni. Faccio un esempio: oggi mi ha fatto piacere leggere su/' Unità un articolo di Massimo Paci sull'apertura domenicale degli uffici postali. Una considerazione mi è parsa particolarmente significativa: "dovete tenere presente" -dice- "che si presenta sul mercato dei tempi una generazione formatasi non secondo i modelli fordisti". Questi l'offerta della domenica la prendono al volo. Poi non so se ha funzionato o non ha funzionato, questo è un altro discorso, ma l'episodio è significativo. Contemporaneamente, in un altro punto dell'universo sociale italiano, a Torino, di fronte a un contratto che prevede la possibilità di agganciare i salari agli andamenti aziendali, i sindacati si spaccano per l'ennesima volta. Di fronte allo stesso fenomeno, alla stessa Italia sfasciata, di fronte a Maastricht, i primi cercano di dare una risposta contro la crisi dell'occupazione a carattere tecnologico di tipo terziario: l'apertura alla domenica significa occupare degli spazi, come dicono i sindacalisti significa "spalmarsi", gli altri continuano a dire: "riduzione dell'orario di lavoro". Ecco, credo che il minus o il plus ce li giochiamo in questo. E' vero che ci troviamo di fronte a una crisi fiscale dello stato sociale nazionale. Ma è anche vero che se è transnazionale l'impresa, è ormai transnazionale anche lo stato sociale, nel senso che a Bruxelles si stanno concentrando quantità enormi di risorse; si sta costruendo un modello che vede la città locale collegarsi direttamente a Bruxelles, perché le risorse stanno là. Allora, il nodo decisivo è avere istituzioni che siano in grado di interloquire con la dimensione metanazionale: se l'istituzione resta subnazionale, come è oggi, non abbiamo scampo. Sarà vero che Monti, Commissario italiano alla Cee, è cattivo, sarà vero che Monti è l'anima nera, io non so come andrà a finire Maastricht, però sono convinto che il problema della ricontrattazione può avere un senso se si rilancia, non se si torna indietro. E' come per Schengen: ci sono stati elementi di giusta critica della cultura di sinistra e cattolica, però andiamo avanti, non torniamo indietro. Altrimenti, come si costruirà l'Europa dei cittadini, un 'Europa che non abbia semplicemente il problema dei rendiconti? Come costruiremo un sistema in grado di rispondere alla paralisi di cui parlava De Rita, quella prodotta dalla stretta populismo-globalizzazione? Io credo, in questo ammetto la mia vecchia radice illuminista e socialdemocratica, che le sfide vadano accettate. E credo che proprio Schengen sia esemplare: Schengen è un topos, un confine della mente, non un confine fisico. Quando in Italia sentite dire: "C'è una manifestazione sabato", state certi che uno dei temi sarà Schengen. Ma perché? Fate attenzione, perché su questo punto destra e sinistra insieme si trovano d'accordo. A molti sfugge il fatto che tutta la destra europea, Le Pen in testa, ha sempre posto come primo, fondamentale, punto del proprio programma elettorale quello di ridiscµtere e ricontrattare Schengen, perché è il primo passo verso il superamento del controllo nazionale dell'emigrazione. Un passo casomai rozzo, fatto con in testa il berretto dei tedeschi, fatto con le cose tecnologiche, che può non piacere, ma il passaggio è quello di cercare per la prima volta di arrivare ad un 'autorità non più nazionale, ma metanazionale. Bene, una sinistra che dice solo: "Ecco l'Europa delle fortezze, ecc." va a incontrarsi con Le Pen. Credo che l'ultimo punto toccato da De Rita, "servizio e manutenzione", sia il punto chiave delle questioni perché mostra il lato più critico della capacità della classe dirigente attuale. Mi auguro che sappiano fare quello che promettono per il Giubileo, per le Olimpiadi, ma francamente credo che non ce la facciano. Per il semplice motivo che si dice: "le pratiche, la lentezza dei finanziamenti ...". Sono orn1ai convinto che questi siano alibi mentali di una classe dirigente che non è capace o ha paura di affrontare un problema, che da trent'anni non fa più servizi di manutenzione, che non riesce a pensare contemporaneamente a programmare come le cose si mantengono, una classe dirigente che ha perso il gusto di cambiare una città. Quel gusto che avevano negli anni 50 e 60, oggi non c'è più. A Roma tutti gli anni, con le prime piogge tra la fine di settembre e i primi di ottobre, c'è un dibattito in Consiglio comunale sul traffico, tutti gli anni, più o meno nella stessa settimana, che si conclude con le stesse invocazioni delle stesse misure d'emergenza e I' assicurazione che sicuramente le faranno. Insomma, il dibattito come oppiaceo. Ora, mi sono convinto che questo passaggio dal dire che "bisogna fare" al fare non è un elemento

legato alla volontà, quanto alla cultura. Bonomi. Il vero problema è che mancano i luoghi del racconto. Posso avere tutta la capacità d'inventare la parola che si fa, la parola che riesce, ma poi la parola non riesce ad andare oltre. Ho l'impressione che se anche noi diciamo: "manutenzione e servizio" e troviamo due sindaci che sono d'accordo, non si vada oltre. In primo luogo per le cose che ci ha raccontato Bolaffi, per l'incapacità di queste istituzioni di farle andare oltre, ma anche perché non ci sono i luoghi del racconto. Prima il potere della parola aveva dei luoghi ove si esercitava, ove precipitava, fossero la Casa della Cultura, il sindacato, il circolo Turati. il circolo De Amicis, l'Einaudi, la Bollati Boringhieri. Grandi luoghi ciel racconto oggi totalmente depotenziati. Il vero problema è ritrovare i luoghi. De Rita. li luogo ciel racconto ha bisogno, però, che ci sia un racconto. Può anche darsi che noi si sia bravissimi ad elaborare il racconto e che poi nessuno ci stia a sentire. Lo dicono anche i nostri vescovi: '·Noi parliamo, parliamo, ma nessuno ci pubblica". Io, però, ho paura che non sia la cattiveria cieli' organizzazione della cultura moderna che ci vieta il racconto, ma che siamo noi a non avere il racconto da fare. Mi pongo il problema in termini quasi autobiografici. Primo, non è che ho sbagliato io, De Rita, a non intrattenermi ulteriorn1en1esulla mia ideologia clitipo molecolare? Secondo, non è che ho sbagliato a ragionare in termini di corpi intermedi invece che di istituzione attiva? Terzo. non è che ho sbagliato a non fare un po' di ideologia? Vediamo un po' di spiegare: lavorare culturalmente è avere il coraggio di intrattenersi sulle cose, mentre abitualmente pensiamo che sia un fuggire in avaRti, che il ricercatore debba innovare continuamente. Io sono stato per treni 'anni l'ideologo della molecolarità: la piccola impresa, il localismo, il lavoro indipendente, il postfordismo, tutto molecolare. A un certo punto, per ragioni che forse fanno parte della stanchezza del ricercatore rispetto alle cose che dice, ho pensato: "No, qui bisogna andare un po' più in avanti, la molecolarità non basta, bisogna ragionare di istituzioni, bisogna ragionare d'Europa, bisogna ragionare di Camere cli Commercio, di coesioni, di coalizioni, di Università di Castellanza". Ora, mi chiedo se non sarebbe stato più giusto restare a difendere il racconto della molecolarità piuttosto che slittare verso l'intermedio; perché oggi il rapporto tra locale e globale è gestito dalla molecola azienda e da nessun altro. I nostri stessi operatori di sviluppo alla fine che hanno fatto? Hanno creato aziende. Sono andati lì a fare aziende. Quindi il primato della molecola in economia sta là, così come il primato del locale, del molecolare ormai è anche nella politica. Oggi cosa significa un partito, un sindacato, un governo Dini, una lista Pannella? Oggi valgono i sindaci, anche a livello politico, vale la molecola. Allora la domanda che mi pongo come Censis è: "Ma se noi, Censis, avessimo continuato a dire che il molecolare vince sempre, quel racconto oggi non sarebbe più forte? In televisione o sulla stampa, Bollati Boringhieri o Einaudi, non m'interessa, ma avremmo la convinzione di stare raccontando il vero. Con questo non è che io voglia ritornare a cantare la bravura della molecola, dell'azienda offshore, perché alla fine mi dicono che dico sempre le stesse cose. Non è che ho nostalgia di 35 anni di cultura di molecola, vedo bene quanto ha dato al mio lavoro, alla mia fama, aver cantato le molecole anche quando la gente pensava alle fusioni Montecatini-Edison, ma il processo vero è che quelle molecole non possono essere solo cantate, vanno anche aiutate e quindi lo sforzo deve essere fatto dalle istituzioni, dai corpi collettivi. Arriviamo così al secondo punto. Forse non ho capito che una dimensione intermedia non solo era debole, ma imponeva un driver, una punta di freccia, e che questa doveva essere l'istituzione innovativa. Perché recuperare il soggetto collettivo, il sindacato locale, la banca locale, la Camera cliCommercio, l'Universilil locale, non è più facile, non è più naturale, li devi sfidare. Devi dire all'Università cli Brescia, e faccio questo esempio perché ieri eravamo lutti al convegno di Montichiari: ''Senti, se vuoi essere in qualche modo coerente con la vitalità cieli' impresa, per favore non metterti a dire che fai dottorati di ricerca e diplomi universitari, perché sei fuori, farai parte di un'istituzione vecchia che si autoalimenta, ma non starai dentro i processi storici". Se la banca locale invece di fare banca del sistema locale, invece di mettersi insieme ai singoli che vanno a fare finanza a Dublino, dice: "Ma io faccio banca locale, dei consumatori locali, non mi interessa seguire le imprese''. smette di essere un soggetto mediatore. Se il sindacato confederale si mette a fare il patto territoriale forse resta dentro al gioco, ma se, invece. dice: "lo sto qui, difendo la situazione, difendo il mio potere contrattuale", -ed è, ad esempio. la logica di Sabbatini e della Fiom torinese-, allora vuol dire che non ha capito niente, che non sta dentro i processi reali. Si sta dentro la realtà locale, per carità, però in quella parte che non fa mediazione fra globale e locale. Perché ormai è la singola azienda ad essere il vero mediatore fra globale e locale. L'azienda di camere da letto di San Giovanni a Natisone che produce in Slovenia e in Romania, che fa la logistica con gli olandesi, la commercializzazione con i tedeschi, fa finanza a Londra o a Dublino è un'azienda che ormai non ha più neppure fisicamente il luogo, però media, è il vero soggetto della mediazione. Credo che il vero problema sia quello di uscire dalla logica della vecchia cultura istituzionale in cui l'istituzione si autoprotegge con le procedure e chi va fuori è accusato pure di tradire la Costituzione. ah, fate i dottorati di ricerca? Ho capito, grazie Chiunque abbia un'istituzione in mano non può che gestirla in termini di sollecitazione ai soggetti intermedi a reinterpretare iI loro ruolo, per collegarsi, aiutarsi, sostenere i soggetti che fanno davvero mediazione che, lo ripeto, purtroppo sono, ancora e solo, quelli molecolari. Il sindaco di Roma va a New York a ragionare di Duemila, cli Giubileo e di altro, Dini non ci va, il sindacato italiano non ci va. Significa che il processo di mediazione anche negli aspetti banali dei rapporti fra Stati viene tutto spostato su livelli bassi, il sindaco, la singola impresa, il broker che mi dice: "La polizza assicurativa sulla salute te la faccio fare con la società americana tal dei tali". Mentre invece il sindacato non dice niente, il partito non esiste più, la Coldiretti, la Confindustria, la Confartigianato, la Confcommercio. metteteceli tutti: le Acli, l'Arei, l'Arcigay, I' Arcigruppo. I' Arciquellochetipare, la Lega Ambiente, stanno lì tutti in una logica che è la loro. Va a eh iamare la Lega Ambiente per farla parlare di alta velocità, non verrà mai. "Facciamo una cultura coalizionale", ·'Ma no, no, i miei iscritti dicono ...". "Ma quanti sono gli iscritti? Venticinque, trenta, siete voi?". Alla fine, poi, si rendono conto, ti vengono dietro, capiscono che l'istituzione nuova significa anche il loro rinnovamento, che facendo il patto territoriale, la concertazione locale, si rinnova il sindacato a livello periferico. E' faticosissimo a farsi, però l'istituzione che fa cu llura di cooperazione e non cultura di demarcazione è l'unica strada possibile per rinnovare i soggetti collettivi. Se l'Università cli Brescia, sicuramente una delle più nuove, che non ha i 150 mila iscritti di Roma La Sapienza, di fronte a delle aziende bresciane che fanno mediazione per proprio conto, l'unica cosa che offre sono i dottorati di ricerca. sapendo che nessuno degli ingegneri che stanno in azienda andrà a fare un dottorato di ricerca. che quello è soltanto un modo per dare soldi a persone che vogliono far carriera universitaria, se quella è l'unica cosa che sa fare, vuol dire che è fuori. che non è un soggetto collettivo capace di mediazione. E fra qualche tempo 1• ingegnere 1• azienda se lo andrà a prendere in Polonia come già succede. Il bello è che il pro-rettore ha aggiunto: "Abbiamo anche dei professori che fanno certificazioni di qualità, però fanno fattura a parte". Benissimo. vuol 'dire che sono diventati anche loro dei piccoli imprenditori di se stessi. fatturano, fanno i professionisti! Terzo punto del racconto: se abbiamo oggi in mano un 'ideologia anti-efficienza e anticrescita. L'ho detto prima, il rapporto non è più con crescita ed efficienza, ma con servizio e manutenzione. Sono ancora del tutto propenso a dire che in fondo la forza della cultura giapponese sta nella ripetizione e nell'estetica, che sono due fatti fondamentali nel servizio. Noi, invece, pensiamo che quel che conta sia l'innovazione e la crescita. La cultura zen è una cultura della ripetizione, ma anche lo sciatore Tomba è una cultura della ripetizione: rifà 75 volte lo stesso paletto prima di avere la fluidità del samurai del paletto ed è quello a rendere il gesto elegante, estetico. Noi stiamo diventando un paese assolutamente inestetico, senza cultura estetica, senza niente, basterebbe leggere sulla pagina culturale lo sfogo di Arbasino sulla Milano brutta e cafona, e a Roma è anche peggio. Cominciamo allora a raccontare cosa significa oggi una cultura dell'abbondanza, una cultura della ridondanza, una cultura del servizio, una cultura della manutenzione, una cultura della ripetizione, una cultura dell'estetica, una cultura del care, cioè del farsi carico, una cultura della responsabilità collettiva, una cultura adatta al periodo in cui l'upgrading sarà finito. Cosa verrà dopo la promessa infinita? Un 'altra promessa infinita? Cosa verrà dopo Internet? 34 milioni di americani iscritti a Internet! L'altra sera a Montichiari uno mi ha detto: "Mi sono fatto mandare con Internet il catalogo a colori della Ferrari"! E' la promessa della promessa. E ce lo faceva vedere tutto contento, ma perché? Perché il meccanismo della promessa infinita è anche intrecciato, sinergico. Cosa viene dopo quello? Non so, magari, intanto, quello se l'è pure comprata quella Ferrari, i soldi probabilmente li aveva, ma poi cosa farà? Si rimette a navigare su Internet? Per chiedere cosa? In realtà, una generazione, quella successiva alla mia, spinta a pensare che tutto sarebbe stato meglio dopo dieci anni, si ritrova ad avere insicurezza sul lavoro, insicurezza sul welfare, spesso scoglionatura nei lavori che fa, a un certo punto dirà: ·'C'è qualcuno che comincia a raccontare cosa c'è dopo la promessa infinita?". Così, credo che, alla fine, lo spazio finisci per averlo, anche se non hai la collana Boringhieri di cui, alla fine, non ci interessa nulla. Bolaffi. Mi pare che quel che ha detto ora De Rita sia perfetto, quindi non aggiungerei altro se non che su questa base mèntori della molecola e mèntori dell'istituzione rinnovata possono lavorare insieme perché entrambi portano dei segmenti di knowhow. L'istituzione rinnovata io la descriverei semplicemente così: un 'istituzione in grado di superare il modello di competizione frammentata, oggi imperante, per passare a un modello di cooperazione coordinata. Un vecchio sogno della sinistra diceva: ·'Facciamo nuovi ministeri, facciamo nuove ...". Di qua in Italia non si passa, perché la cultura istituzionale italiana, sommata alla cultura sindacale, impedisce qualsiasi rifonna che tolga loro potere. D'altra parte, l'Italia non ha la cultura delle agenzie. L'autoreferenzialità della cultura istituzionale italiana impedisce di avere un quadro nazionale cli fronte a sé. è il sindaco di Roma a andare a New York per parlare di 2000 Anche gli altissimi burocrati non riescono mai a chiedersi: "Quello che faccio rientra nel quadro del l'interesse nazionale?". Non ci arrivano e così, spesso, dicono che non gli interessa. lo non ho mai capito qual è la cosa che viene prima, se il disinteresse o il non essere in grado, ma comunque il risultato è lo stesso. L'unica cosa che oggi riescono a fare è ragionare secondo procedure e competenze, rafforzate da Mani pulite; a questo punto tutto è blindato: la stupidità è elevata a potere assoluto. Competenze e procedure, punto. Quindi bisogna anche qui risolvere il problema, perché se noi l'affrontiamo dicendo: "Superiamo le procedure, perché sono farraginose", anche lì non si passa e se non passeremo non so quanto tempo ci vorrà. Quindi la strada che vedo è una strada di innovazione istituzionale basata su un modello di cooperazione inter-amministrativa: le amministrazioni si accordano sul fatto che non si fanno la guerra, che non si tolgono le competenze, che non si tolgono il potere e insieme stabiliscono che cosa fare. Bisogna individuare, cioè, un modello concertato, cooperativo fra le amministrazioni, che fissino gli obiettivi e vadano poi a discutere con la politica. In questo modo, infatti, l'amministrazione tornerebbe ad essere in grado di interloquire autorevolmente con il sistema politico, se non altro perché queste istituzioni sarebbero le uniche in grado di ragionare in maniera metanazionale. Bonomi. Io ritengo che la dimensione della molecola, intesa come soggetto in sé, sia un ciclo finito; credo che dobbiamo continuare a lavorare sulle molecole, ma su quelle che fanno mediazione tra locale e globale, che possono essere tanto l'impresa di Montichiari quanto Sassolino che va a vendere i Boe a Londra. D'altra parte, quando non si fa mediazione tra il locale e il globale, si finisce nel rancore locale, che viene quotato al mercato politico dalla Lega. La cultura del sindacato, la cultura delle rappresentanze imprenditoriali, la cultura del ceto politico, la stessa forma partito vanno ridisegnate in quello spazio che, con un orribile neologismo, ho chiamato giocale. Il secondo punto è quello delle istituzioni innovative. E' un discorso che noi abbiamo già fatto, in parte, quando siamo intervenuti per due anni nel Mezzogiorno. Dicevamo che il vero problema non era solo quello dell'istituzione che presidiava il territorio e faceva repressione della criminalità, ma anche dell'istituzione amica, che innovava il processo. Ora, anche l'istituzione innovativa ha bisogno di regole, è una parola che ho difficoltà a pronunciare, perché molto spesso le regole invocate da sinistra sono poi le regole della conservazione, non le regole dell'innovazione, sono le regole di chi presidia già gli spazi. Però, l'istituzione creativa oltre che di regole è fatta anche di uno spostamento delle istituzioni verso il metanazionale attraverso coalizioni di territorio. Non si può difendere la Fiat a Torino nella logica di Sabbatini, la Fiat a Torino è la mondializzazione e quindi non la presidi occupando uno spazio nuovo, che media fra il locale e il globale. Bolaffi diceva che ormai il welfare comincia a stare a Bruxelles: allora o c'è un 'istituzione innovativa in grado di gestire il welfare da Bruxelles, oppure il nostro stato sociale sarà spazzato via da un populismo che dice che sono tutte pensioni regalate. Terzo ed ultimo punto, l'ideologia del futuro, che significa poi incominciare a dire che è possibile fare altre cose, che non è detto che non ci sia altro che la "pura regola di Maastricht". Su questo, però, credo che un racconto nasca avendo in osservazione i laboratori dove iniziano a formarsi gli elementi di inattualità rispetto a quel modello. Vi ho consigliato di leggere il libro di Touraine, Lettera da Parigi. Touraine, come sapete, è uno dei protagonisti del dibattito francese sullo sciopero dei di°pendenti pubblici, che lui vede come l'ultimo episodio conflittuale di un mondo vecchio, in contrapposizione a Bourdieu per il quale quello sciopero era il primo episodio della lotta alla mondializzazione. Ebbene, la cosa che più mi ha colpito è quando Touraine dice: "Ricominciamo a fare cultura, ricominciamo a mettere in piedi centri studi, perché fare cultura in questa fase storica significa fare un 'operazione direttamente politica, perché la politica è ormai priva di cultura e il mondo dell'offerta è privo di cultura". Ricominciare a far cultura è l'unica base che permette a un racconto di poter diventare ip_eologia. Mi pare anche questa una sfida che chi fa ricerca, chi fa comunicazione, debba assumere fino in fondo. - UNA CITTA' 3

{.-?, :j ;~~: ;;l,:Hti lf.'Jf1 11i f[J I(.f@i Jt,;: "%>" JY(i; é;> Il lavoro dell'insegnante "facilitatore" impegnato nell'inserimento nella nostra scuola dell'obbligo di ragazzi extracomunitari. Il problema degli scolari cinesi, che si ritrovano sui banchi senza sapere una parola di italiano, con problemi fonetici quasi insuperabili mentre, per di più, continuano a lavorare di pomeriggio. La lingua italiana, materia da improvvisare. Il problema dell'etnocentrismo dei testi. Intervista a Fiorenza Tedeschi. Fiorenza Tedeschi insegna a Milano, al complesso sperimentale Casa del Sole. Tu lavori come facilitatore culturale. Puoi spiegare? Da sei anni lavoro ad un progetto per l'integrazione dei ragazzi stranieri nella scuola. Il mio lavoro ha principalmente due funzioni: l 'insegnamento della lingua italiana come seconda lingua e l'integrazione e accoglienza dei ragazzi al1'intemo delle classi, con un 'attenzione particolare a quella che può essere definita un'educazione interculturale. Qui il problema costituisce un'emergenza forte: Milano infatti scolarizza, mi sembra, un quarto di tutti i ragazzi stranieri che frequentano le scuole in Italia. La situazione è particolarmente problematica per i ragazzi cinesi o arabofoni, perché all'ingresso ne·Ila scuola non esiste per loro alcuna . possibilità di comunicare; non esiste neanche una lingua veicolare, perché i ragazzi cinesi non sono ancora in grado di comunicare in inglese e i ragazzi arabi, a seconda delle regioni di provenienza, non parlano assolutamente né francese né inglese. Nella mia scuola i ragazzi stranieri rappresentano il 20% circa degli alunni e la loro conoscenza dell'italiano varia moltissimo, per cui fonniamo dei gruppi di livelli diversi, facendoli uscire dalle classi negli orari in cui hanno materie che richiedono maggiori capacità astrattive della lingua, come Italiano, Storia, Scienze, mentre seguono più o meno regolannente materie come Educazione Artistica, Educazione Fisica o Musicale durante le quali possono comunicare anche attraverso linguaggi non verbali. Al primo livello ci sono ragazzi che non parlano assolutamente la lingua italiana, poi abbiamo un secondo e un terzo livello. Alla fine di un corso di tre anni questi ragazzi parlano un italiano più o meno corretto anche se poi occorrerebbero loro altri due anni per perfezionare la conoscenza della lingua. Alle medie, infatti si pretende che i tennini siano già acquisiti, che si possieda un lessico specifico per la storia, la geografia, le scienze. Ci sono colleghi che pretendono che leggano Boccaccio e Ariosto. Come avviene l'insegnamento della lingua italiana? Nelle scuole in cui sono stata vengono messi insieme ragazzi che provengono da paesi diversi: turchi, arabi e cinesi, a seconda della loro conoscenza dell'italiano. Insegniamo loro a comunicare; si inizia dalle prime cose, saluti, convenevoli, si insegna loro l'alfabeto, perché per esempio non tutti i cinesi hanno imparato la traslitterazione dei suoni, cioè il passaggio dalla fonetica degli i-deogrammi alla nostra. Si punta innanzitutto sulla acquisizione orale di alcune abilità. Dopo si passa alla fonnulazione scritta, altrimenti la cattiva acquisizione del suono porta anche a sbagli nella scrittura. Icinesi hanno il problema della "erre", che è sempre "elle", gli ispanofoni hanno la "bi" invece della "vi", gli arabi hanno la "bi" al posto della "pi", i suoni non sono quelli del nostro alfabeto. Certo non puoi pensare di insegnar loro in un giorno, in una lezione: "io mi chiamo, tu ti chiami" e poi ti fermi al "lui si chiama". Devi inserire il genere femminile e non è facile, sono concetti complessi, perché non tutte le lingue hanno queste distinzioni: singolare, plurale, maschile, femminile; a volte anche i gesti sono diversi; questi ragazzi devono acquisire una gestualità che non è la loro, decodificarla. Si fanno giochi di ruolo, si simulano situazioni linguistiche,dal panettiere all'ufficio postale, perché l'acquisizione di alcune funzioni della lingua avviene solo attraverso lo scambio e il dialogo. Altrimenti veramente torniamo ai tempi in cui studiavamo l'inglese oome il latino e il greco, con le traduzioni e la grammatica a me1,11oriaM. a occorre veramente calma, lentezza: passato, presente e futuro sono concetti che la lingua italiana ha in modo netto e definito; altre lingue non hanno questa distinzione, quindi devi dar loro la possibilità di poter apprendere questi concetti, di calarsi ancora di più nella nostra realtà linguistica. Dunque, lentezza, calma, soprattullo per rispettare la fase silente, che è fondamentale. La fase silente è il momento in cui i ragazzi sono bombardati da suoni, strutture e li devono mettere in ordine. Comunicano solo nella loro lingua o con i gesti, ma in realtà è un momento in cui lavorano moltissimo perché stanno elaborando strutture e suoni che poi verranno fuori. E' quindi una fase che va rispettata. Passato questo stadio, che può essere di mesi ed è tipico dell 'apprendimento di qualsiasi lingua straniera, è come se nascessero. Di botto iniziano a parlare ed è un'emozione incredibile. Ma ali 'inizio devi usare un vocabolario limitato, dare loro sempre le stesse strutture ed usare dei rituali continui, anche per dar loro delle certezze, delle ritualità: "Buongiorno" o "Arrivederci" quando vai via. Si trovano bombardati da suoni, da abitudini scolastiche diverse, spesso arrivano da scuole dove c'è l'alzabandiera, la marcia, l'inno o anche la divisa. E questo non solo in Cina, ma anche in America Latina. Quindi hanno bisogno che qualcosa sia sempre uguale: suona la campana e si entra in classe, a metà mattina c'è I'intervallo e così via. Come avviene e che problemi pone l'inserimento nelle classi? Si tenta di fare il discorso della interrelazione, cioè di una comunicazione paritaria fra culture diverse, che presupponga un arricchimento collettivo. Faccio un esempio banale: da un ragazzino cinese è possibile imparare aspetti della sua cultura, dei suoi giochi, ad esempio a costruire un origami, a riciclare la carta, le lattine. Il grosso problema è valorizzare la cultura di origine di questi ragazzi -cinese, araba, swahili- e fare sì che mantengano il bilinguismo. Spesso la scuola dimentica che se un ragazzo PBM - Piccola Biblioteca Morale collana diretta da Goffredo Fofi Titoli pubblicati: A. Cucchi-V. Magnani, Crisi di una generazione, lire 8.000 A. Caffi, Critica della violenza, lire 8.000 Don L. Milani, La ricreazione. lire 8.000 A. Langer, La scelta della convivenza, lire 8.000 edizioni e/o, v. Camozzi. 1 - 00195 Roma parla una Iingua considerata forte o comunque prestigiosa, come I' inglese o il francese o anche lo spagnolo, questo fallo viene valorizzato e il ragazzo si sente motivato e importante, ma se un ragazzo parla arabo o cinese -magari un dialetto, neanche il mandarino- spesso viene costretto a dimenticare la propria lingua di origine, con grossi problemi a livello emotivo, perché la lingua madre è la lingua degli affetti, della casa, la lingua che il ragazzo continua a sentire infamiglia. Allora occorre trovare dei momenti in cui sia permesso parlare la loro lingua, per non interrompere il processo di identità, la continuità con le loro origini. li problema dei ragazzi è che, appena arrivati, vogliono a tutti i costi assimilarsi ai ragazzi italiani, ed ecco allora i giubbotti alla moda, lo zaino, il diario; i ragazzi cinesi cambiano il nome, nei primi tempi cercano un suono simile al loro nome, Chiara, Anna; a volte cercano di italianizzare anche il cognome: oppure fanno cose come lavarsi moltissimo, perché vogliono essere simili ai ragazzi italiani. Avevo un ragazzo peruviano, scuro di pelle, che per un certo tempo non mangiava più la cioccolata perché altrimenti sarebbe diventato ancora più '·negro", come diceva lui. Inoltre la scuola italiana è diversa da quella cinese; è più libera, ci sono meno alunni per classe. Il ragazzino cinese frequenta in genere una scuola che ha 50 alunni, dove ogni mese bisogna arrivare a un dato punto del programma; è tutto fisso e stabilito. E' un tipo di apprendimento più mnemonico che credo sia legato anche alla lingua cinese, ali' esercizio, a quella grossa pazienza per imparare tutti gli ideogrammi: studiano 5 anni per acquisire quei 4000 caratteri che servono per leggere un giornale. D'altronde la Cina non è solo Pechino, la Cina è la campagna. Ricordo una ragazza che si è iscritta a scuola alla fine di gennaio. L'ho vista un giorno spaventatissima, non riusciva ad attraversare la strada, le macchine la spaventavano; veniva da un paese di montagna ed era in Italia da una setlimana. Il primo giorno di mensa si è dovuta cimentare con le posate e non le aveva mai usate, per fortuna non c'erano gli spaghetti. E quello che scrivono di Milano è che ha tante macchine e tante cacche di cane, perché loro non hanno il rapporto che abbiamo noi con gli animali. Oppure c'è il problema della figura paterna: spesso questi ragazzi hanno un nucleo familiare che non è più quello che conoscevano nel paese d'origine. I ragazzi di cultura araba avevano un grande rispetto per la figura paterna. Adesso il padre, arrivato in Italia, fa un lavoro molto umile, non trova nessun riconoscimento all'interno della società e spesso è il ragazzino che deve svolgere compiti di interprete per cui la figura paterna non ha più il ruolo e l'importanza che aveva nel paese d'origine. Spesso poi abbiamo dei ragazzi cinesi che lavorano; arrivano a scuola dopo aver lavorato tutta la notte: fanno borse, cuciono vestiti o lavorano in ristoranti. Questo non deve scandalizzare: è il loro concetto dell'unità produttiva della famiglia confuciana; tutti devono contribuire nello stesso modo e questo non è avvertito come un dramma, per loro lavorare è nonnale anche perché occorre restituire i soldi spesi per venire in Italia. Quindi a volte questi ragazzi sono più maturi e adulti perché devono affrontare un mondo quotidiano che è diverso dal loro e conoscono una realtà che i ragazzi italiani non conoscono asso Iutamente. Non c'è un limite nel fatto che il lavoro minorile andrebbe comunque perseguito? Ti sei posta questo problema? Il problema me lo sono posta, ma poi che possono fare? Tornano in Cina a far la fame? D'altronde non mi sembra che lorosoffranodi questa situazione. fl dramma è che cominciano a ribellarsi a questa situazione, però sono giovani e per loro ribellarsi significa andare a lavorare in un ristorante piuttosto che col babbo e la mamma. Non tutti riusciranno a continuare la scuola fino alle superiori, perché alle superiori il discorso diventa brutale: un ragazzo in Italia da tre anni avrebbe bisogno ancora di altri anni per apprendere perfettamente la lingua, e non bastano le tremila parole più frequenti. Sono tutti in regola con i permessi di soggiorno? Prima potevano iscriversi a scuola soltanto ragazzi che erano in regola col permesso di soggiorno. Però questo violava la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo e dell'Uomo, che pure l'Italia aveva ratificato,

per cui adessoè permesso loro frequentare la scuola dell'obbligo e le superiori anche in assenzadi permesso.C'è un'iscrizione con riserva e loro frequentano in attesa di regolarizzare in seguito la loro posizione. Qui a Milano comunque non esiste nessun accordo fra Comune, scuola eTribunale, mentre a Torino, invece, c'è un accordo per cui gli irregolari vengono adottati dal Comune e inseriti. Qui il Tribunale per i Minorenni applica una politica diversa, tende a rispedirli in patria dai loro parenti, soprattutto quando hanno 14-15 anni e vengono ormai considerati adulti. Abbiamo avuto un problema adesempio con una ragazzina peruviana di 14 anni che è stata presa durante una retata, ancora con lo zainetto mentre stava andando a scuola. Avrebbe detto alla polizia: "Non posso venire perché ho la verifica di storia", è stata portata in questura e segnalata al Tribunale per i Minorenni. li Tribunale hapoi provveduto a metterla in un collegio e nel frattempo ha preso la decisione di espellerla e farla tornare in patria presso presunti parenti. Lei è riuscita ascapparedall'istituto. Adesso è in giro, ha strappato subito i libri di scuola e non voglio pensare di cosa viva. Questo è un problema che si presenta anche perché la classe che frequentano questi ragazzi spesso non corrisponde alla loro età cronologica. C'è sempre un ritardo. Magari arri vanodalla Francia, dove hanno frequentato le scuole per un anno e poi arrivano qui. C'è un'estrema mobilità. In realtà le scuole così sono vive, bellissime, con tutti questi cognomi diversi ... Coi genitori che rapporti avete? Con i genitori cinesi in genere non ci sono molti rapporti perché spesso, specie sepoco scolarizzati, non parlano il cinese ufficiale e noi non parliamo il loro dialetto. In Cina c'è il grosso problema dei dialetti. Quest'anno per averedei buoni rapporti anche con le famiglie, abbiamo una mediatrice culturale, cioè una persona cinese assuntadal comune che lavora nella nostra scuola per tre ore alla settimana. Ma anche per lei è un grosso problema perché riesce a parlare molto bene coi ragazzi scolarizzati in Cina, ma con quelli che sono nati in Italia o hanno frequentato solo uno o due anni di scuola e non parlano la lingua di Pechino, non riesce a comunicare. E' però una figura importante perché permette di comunicare con i genitori che sono appena arrivati. Inoltre sostiene le famiglie nei primi contatti con la società italiana, dando loro tutta una serie di informazioni: come si accede alle Usi o ai vari servizi, come si riempie un modulo, se il datore di lavoro non versa i contributi ... Come può il confronto culturale diventare un apprendimento e un arricchimento anche per noi? E' molto importante capire e rispettare il loro diverso rapporto con la storia, l'oralità, la tradizione del narrare. Mi ricordo che c'erano dei ragazzi turchi che sapevano veramente raccontare. In questo modo possiamo imparareanchenoi, possiamo recuperare la dimensione del racconto, una cosa che gli insegnanti italiani hanno perso. Narrare favorisce la comunicazione: leggere una poesia è anche ascoltarne il suono. Invece nella scuola italiana vieni subito torturato con "che tipo di rima è". C'è anche il gusto di non capire una cosache poi ti piace, è come ascoltare unacanzone. La letteratura e la poesia sono fatte anchedi suoni. Se recuperi la dimensione narrativa, riesci a stare molto attento al loro modo di scrivere senza intervenire subito con le correzioni; quando fanno le autobiografie vedi che emergono caratteristiche tipiche legate alla loro lingua, ad esempio le ripetizioni per i ragazzi cinesi; in fondo l'autobiografia è un racconto che tira in ballo il vissuto di una gna, o il capodanno cinese col carnevale. Ci sono molte feste simili, che marcano i periodi dell'anno e i cicli economici. Oppure i giochi: ci siamo accorti che certi giochi sono simili in tutto il mondo, adesempio il gioco della campana, il "rimpiglino". Possono cambiare le regole, cambiano sicuramente i materiali, sono di sughero e non di plastica, ma il gioco ha una funzione universale. In questo modo, attraverso il confronto, i ragazzi riescono a capire che tipo di funzione ha un gioco, che cosa fa il bambino attraverso quel gioco, edèancheun ripensarealla propria vita, cosafaccio quandogioco in uncerto modo... Ricordo che un anno abbiamo fatto un laboratorio ludico, all'inizio oralmente, in lingua, in cinese e in spagnolo, poi siamo passati alla costruzione dei giocattoli; alla fine abbiamo fatto i I gioco del lacampana e c'è stata una ragazzina peruviana che ha insegnato questo gioco ai ragazzini italiani. Allora una mamma ha esclamato: "Ma lo facevo anch'io da bambina!". Percui il gioco non si era trasmessodalla mamma alla figlia, ma è stato trasmessoda una ragazza immigrata. Per la tua esperienza, che rapporti si creano fra i ragazzi? Dipende da come questi ragazzi vengono accolti nelle classi, dal pesoche si dà alla loro cultura, alla curiosità chepossonosuscitare.C'è anche da dire che i ragazzi italiani sin dalla scuola materna, sono abituati a convivere con i portatori di handicap e a confrontarsi con diversità fisiche emental i ancheenormi: puoi avere l'handicappato in carrozzella ma puoi avere anche l'autistico o quello con problemi psichici che ogni tanto si alza e picchia tutti, salta, ti interrompe. Qui hanno persone diverse per nome, per colore della pelle, per taglio degli occhi, o perché parlano un'altra lingua. L'anno scorso sono arrivati due ragazzi cinesi che non parlavano italiano. Gli alunni si sono incuriositi, hanno voluto che scrivessero gli ideogrammi alla lavagna e tutti li hanno copiati. Ho notato che nei quaderni dei ragazzini italiani c'erano continuamente ideogrammi. Allora abbiamo improvvisato un corso di cinese tenuto daquesti due ragazzi, partendo da "come ti chiami", "buongiorno", egli alunni erano tutti presi. A dire la verità non so quale dialetto cinese ci abbiano insegnato. Purtroppo i ragazzi cinesi non vanno mai in gita, devono lavorare e non possono stare una settimana lontano dacasa,non hanno i quarantamila vestiti che hanno i loro coetanei italiani, sono diversi, più poveri, non hanno il tempo per il gioco, quindi ad un certo punto questi mondi si separano. Questo per dire che per il preadolescente l'identità culturale non è un qualcosa di fisso, di stabilito, ma è un qualcosa in formazione, soprattutto nel momento in cui ci si incontra eci si scontra con l'altro. Se viene data una grande certezza rispetto alla nostra cultura, alla nostra fissa e immutabile superiorità, che deriva dal mondo romano e latino, creiamo una identificazione con qualcosa di non vero, quindi non accettiamo più l'altro, non accettiamo le diversità. L'Africa ad esempio la troviamo ogni tanto sui libri di storia solo perché c'è stata la tratta dei neri, il colonialismo -di quello italiano non si parla mai- poi verso la fine del libro si parla della decolonizzazione e basta, (poi, spesso, alla storia contemporanea non ci si arriva nemmeno). E' chiaro che il ragazzino pensa: hic sunt leones. Poi, l'Africa che viene prospettata dai film e dalla televisione è quella dei villaggi, degli spazi naturali bellissimi e immensi, e nient 'altro. Se invece diventasse normale leggere econfrontarsi con altre culture e letterature, seci fosse ad esempio un approccio con la cinematografia di altri mondi, diventerebbe normale convivere con persona. In questo modo impari altre culture. Ma se la scuola contianche tu un sacco di cose: diventa quasi un lavoro da etnologo, perché c'è questa grossa conoscenza di vite e di costumi; trovi l'iniziazione dei ragazzini che in una data provincia si cibano di serpenti, puoi confrontare ciò con il palio dei sernua ad esseresolo crociana, abbiamo quello che abbiamo. Questo è un problema che bisognerà affrontare, perché con i ricongiungimenti familiari, il problema scolastico eculturale diventerà sempre più grosso. Bi1J Cuço fec8cu(j Ino - Bianco MADRI DI GIORNO Tagesmutter è una proposta di autogestione collettiva del tempo delle mamme e anche dei padri. Un centro che le madri possono frequentare coi figli, per stare insieme, darsi una mano, poter anche lasciare il bambino per andare a far spese o altro. La possibilità per le madri lavoratrici di affidarsi a una "madre di giorno". Intervista a Monika Brugger Tutzer, Hannelore Bottegai, Annerose De Zordo. Monika Brugger Tutzer è da sei mesipresidentedell'Elki, Eltern-Kindzentrum (Centro genitori-figli). Con lei sono Hannelore Bottegai, addetta ai rapporti con le Istituzioni pubbliche e Annerose De Zordo, incaricata di gestire i corsi di formazione organizzati dal centro. Dunque, l'Elki nasce come punto d'incontro, non per soddisfare le esigenze di chi non sa dove e a chi lasciare i bambini ogni giorno... Monika. No, non è un luogo dove lasciare i bambini per andare a lavorare. Se il bambino già conosce il centro, la persona di turno può essere disposta ad accudirlo per qualche ora, ma il genitore se ne assume la responsabilità. Insomma, per le mamme, può essere un'occasione per andare dal parrucchiere, dal medico, a fare la spesa o semplicemente per starsene tranquille. Il costo di questo servizio è di 4 mila lire l'ora. L'idea di fondo è sempre la stessa: essere unpunto d'incontro per bambini e genitori, aperto a chiunque. I bambini gio€ano tra loro e i genitori si conoscono. Nel centro, così, inizia il processo di distacco del bambino dal genitore: in un ambiente accogliente e, in qualche modo, familiare, con i genitori presenti, il bambino non viene costretto ad un distacco drastico e traumatico, ma si rende autonomo giorno dopo giorno. Una grande cucina-soggiorno, due sale da gioco, un bagno comodo, una zona attrezzata per il cambio dei bambini, un ufficio; e ancora delle grandi sale per giochi al piano di sopra. La posizione di questi locali è ideale perché ci si arriva comodamente con le carrozzine che si possono lasciare davanti alla porta. C'è una ragione per cui una simile iniziativa nasce in un contesto tedesco? Forse una particolare sensazione di solitudine tra le madri? Monika. Non credo, la sensazione di isolamento provata dalle madri credo sia un fatto universale, non austriaco o tedesco ... Forse, può dipendere dal fatto che la famiglia allargata è in via d'estinzione, mentre in Italia esiste ancora: qui da noi è abbastanza frequente vedere i nonni che passeggiano con i nipoti, ma in Austria, questo è molto più raro. Oppure può dipendere dal numero di figli, dal fatto che le famiglie sono piccole; se si hanno uno, o al massimo due figli, probabilmente l'esigenza di incontrarsi e di avere compagnia aumenta rispetto a quando si ha l'asilo in casa. In Austria, da molti anni, c'è in media un figlio per coppia e quindi l'esigenza di farlo stare in compagnia è maggiore. Come funziona l'Elki e quali servizi offre? Monika. Due donne di turno si occupano del servizio di accoglienza per adulti e bambini: offrire un caffè, preparare le merende, accudire il bambino lasciato per qualche ora, dare informazioni, accogliere chi viene per la prima volta, rispondere al telefono. La cosa più importante è che è un punto dove le madri "rifioriscono". Vengono qui, a volte sono molto frustrate, e riescono a riprendersi dal cambiamento che la maternità ha comportato. Gli amici, quando si hanno dei figli, appaiono su un altro pianeta: sono distanti ed è difficile riprendere i contatti. All'Elki si ritrovano persone nella stessa situazione, con gli stessi problemi. L'Elki, poi, viene incontro ad un'altra difficoltà: il distacco dei figli dai genitori. Questo processo viene in qualche modo accompagnato dai gruppi di gioco. Sono nati, inizialmente, per la carenza di posti nelle scuole materne: molti bambini di tre anni non vengono presi oppure le madri ritengono che sia ancora presto per mandarceli regolarmente, anche se sarebbe ideale farli giocare almeno una mattinaalla settimana con altri bambini. All'inizio c'era un solo gruppo, poi si è passati a due, a tre e così via. Oggi ci sono ogni giorno, mattina e pomeriggio, gruppi di gioco composti da 15 bambini che si trovano per due ore e mezza una volta la settimana. Un'altra attività molto importante sono i corsi di preparazione al parto destinati alle coppie: quelli organizzati dai consultori familiari e dalla Usi solitamente si tengono al mattina o al pomeriggio, per cui le donne sono costrette a frequentarli da sole. Per noi era molto importante che vi partecipassero anche gli uomini. Un'iniziativa che portiamo avanti con successo sono i giovedì "a sorpresa": teatro dei burattini, lettura di fiabe, teatro. Anche pensando alla mia esperienza personale e a quella dei miei tre figli più grandi che vanno a scuola, vedo che non bisogna esagerare: se hanno un paio di corsi e i compiti, sono già abbastanza impegnati. Devono avere anche del tempo per loro, senza troppo controllo. Anche "l'asilo estivo" rientra tra le nostre iniziative d'intrattenimento. E' un progetto dell'Elki che è già al terzo anno e che si svolge in collaborazione con il Comune che lo finanzia. Possono partecipare bambini dai 3 ai 4 anni che vengono intrattenuti con delle attività dalla chiusura delle scuole fino alla fine di luglio. Il Comune ci assegna l'edificio di un asilo con il personale dipendente (cuochi, bidelli, etc.), che formalmente hanno solo quattro settimane di ferie. Gli orari dei bambini sono quelli normali, con una certa flessibilità per l'entrata e l'uscita: i genitori possono portarli fino alle 1Oe venirli a prendere, se vogliono, dopo le 12.30, quando hanno mangiato. Un ulteriore servizio che offriamo sono le baby-sitter: chi è disponibile ci lascia il suo indirizzo, i dati, le ore del giorno in cui può lavorare e molti genitori che ci frequentano scelgono la persona che li interessa dagli annunci affissi. Ma per le madri che lavorano non prevedete niente? Monika. Sì, il servizio di Tagesmutter, madre di giorno. In breve, si tratta di una madre che decide di occuparsi dei figli di donne che lavorano. li "progetto Tagesmutter" si occupa della loro formazione: corsi che accompagnano il processo di sviluppo della personalità, seminari di Selbstfindung; nozioni di pronto soccorso, tecniche e suggerimenti per stimolare la creatività e il gioco nel bambino. L'iter completo di preparazione avviene nel corso di due anni. Gli incontri si tengono nei fine settimana e sono strutturati inmodo tale che dapprima ci si concentra sull'esperienza personale e ci si interroga: "Me la sento? Cosa provo?". Questo per essere sicuri che la candidata Tagesmuttersia realmente motivata e convinta e riesca perciò ad affrontare la situazione, senza sentirsi oberata dall'impegno assunto. Anche la famiglia della Tagesmutter viene coinvolta: è fondamentale che i mariti sianod'accordo. A questi corsi accedono anche persone di lingua italiana? Annerose. Sono per lo più di madrelingua tedesca, anche perché i corsi sono tenuti in tedesco. Qualche italiana che ha seguito i corsi, comunque, c'è stata, anche sequesto ha poi finito per creare difficoltà: una delle partecipanti ha aperto, in polemica con l'Elki, un centro simile in un quartiere "italiano" notoriamente difficile di Bolzano, Oltreisarco. Alcune signore italiane, poi, hanno avviato un'iniziativa simile concentrando i corsi nell'arco di una settimana. Inoltre, concepiscono in modo diverso il servizio della Tagesmutter. vorrebbero avere a disposizione locali in cui aprire una sorta di asilo dove accudire insieme i bambini. Le nostre Tagesmutter, invece, accudiscono i bambini nel loro appartamento. Per noi, questo è molto importante, consentendo al bambino di rimanere in un ambiente familiare. Molte famiglie italiane, poi, si rivolgono a noi richiedendo una Tagesmutter tedesca, avvertendo l'esigenza di rendere bilingui i bambini già da piccolissimi. E dal punto di vista giuridico, qual è la posizione delle Tage. smutter'? Monika. Era ormai da anni che si parlava della necessità di una legge. E' stata approvata dal Consiglio provinciale, proprio 1'8 marzo scorso, una proposta ferma da diversi anni Inizialmente, ho avuto l'impressione, da quanto riferito dai giornali, che fosse una sorta di "contentino" concesso per la festa della donna. Questa legge, che non è ancora entrata in vigore (è stata inviata a Roma per il visto) è in realtà abbastanza articolata. Riordina, infatti, i "provvedimenti in materia di assistenza all'infanzia", introducendo il concetto di assistenza domiciliare per i bambini. All'articolo uno, la provincia di Bolzano è "autorizzata ad assegnare contributi finanziari (300 milioni per il 1996) alle spese di gestione delle istituzioni private senza scopo di lucro o delle cooperative di servizi sociali, che promuovano ed organizzino sul piano tecnico-assistenziale e amministrativo l'assistenza domiciliare per l'infanzia''. A sostegno delle famiglie a basso reddito che intendano usufruire dell'assistenza domiciliare, la legge stanzia ulteriori 500 milioni {per il 1996). E' possibile, insomma, che la legge abbia recepito che una Tagesmutter assicurata costa molto di meno di un posto all'asilo-nido. E lacondizione per diventare una vostra collaboratrice è quella·di avere dei figli, indipendentemen-. te dall'età? Monika. Sì, c'è anche qualche persona anziana, qualche nonna. Ci sono due signore che hanno i figli già grandi e hanno un rapporto bellissimo con i bambini piccoli. Forse perché se ti confronti ogni giorno con i figli piccoli (le pulizie, la spesa, la cucina) non riesci ad avere un rapporto tanto disteso con i bambini quando vieni qui. Non che sia sgradevole, ma non è bello come per chi ha già i figli grandi. Tu sei una volontaria? Monika. No, tutte le nostre collaboratrici, casalinghe o lavoratrici in aspettativa, svolgono il servizio presso il Centro per 1O mila lire l'ora. Anch'io prendo la stessa cifra e sono qui in ufficio tutte le mattine. Hannelore. Da questa cifra, poi, bisogna detrarre la ritenuta d'acconto del 19%. Alle collaboratrici restano 8 mila lire, che sono poche. E' chiaro che deve esserci una motivazione a frequentare il centro. Sai, ad esempio, di poter venire col tuo bambino. La prima volta che sono venuta io, tre anni fa, sono venuta con la mia bambina ed ero venuta proprio per non stare acasa. Bolzano è una città bilingue a prevalenza italiana, ma questo centro è nato in un ambiente tedesco. C'è una maniera diversa di concepire il rapporto con il bambino nella cultura italiana e nella cultura sudtirolese? Hannelore. Per me ci sono differenze. lo sono di madrelingua tedesca e sono sposata con un italiano, per cui sono a contatto con la popolazione di lingua italiana. Credo che ci sia una diversa concezione di educare anche se non riesco a fare un esempio se non la constatazione che tra gli amici italiani è frequente il fatto di piazzare i figli davanti al televisore già da piccolissimi. Mia figlia ha quattro anni e mezzo e ancora non guarda la tv, avrà tempo poi. Ma, per fare un discorso più completo, diciamo che la realtà sudtirolese è questa: le famiglie di madrelingua tedesca, secondo me, hanno più possibilità finanziarie, e questo significa che la donna tedesca lavora di meno dell'italiana. Gli italiani sono venuti tutti da fuori e hanno dovuto lavorare sodo per comprare casa. I sudtirolesi, invece, hanno ereditato il maso, la terra o la casa d'origine che hanno venduto, riuscendo a comprare con meno sacrifici l'appartamento incittà. Insomma, nel mondo tedesco la madre può stare a casa con i figli, a meno che non scelga di andare a lavorare. Da parte delle famiglie italiane credo ci sia una necessità maggiore di andare a lavorare e, dunque, di dover inserire il proprio figlio nell'asilo nido dagli 8 mesi in poi, quando la maternità scade. Quindi, si tratta di una différenza economica, non culturale? Hannelore. Si soprattutto economica, anche se può essere frutto di una scelta. In ogni caso una madre che scelga di lasciare il proprio impiego per accompagnare la crescita dei figli è certam~nte più agevolata a rientrare nel mondo del-lavoro se è di madrelingua tedesca, perché generalmente le persone di madrelingua tedesca conoscono bene anche l'italiano, mentre non accade il contrario. L'obbligo del bilinguismo nella provincia di Bolzano limita molto le possibilità di lavoro. Monika. A proposito, poi, del rapporto con una realtà bilingue, agli inizi, in una riunione avevamo proposto di creare un centro in cui si parlasse anche l'italiano. Questo non vuol dire che prima all'Elki non ci fossero degli italiani; abbiamo sempre cercato di avere collaboratrici italiane, ad esempio, per i corsi di preparazione al parto. In realtà troviamo poche collaboratrici italiane per il fatto che molte donne lavorano e non possono quindi dedicare tempo al centro. Abbiamo cercato di organizzare un gruppo di gioco in italiano, ma era frequentato da pochissimi bambini, perché quasi tutti a tre anni frequentano già la scuola materna. Oggi, invece, ci sono bambini italiani nei gruppi di lingua tedesca. Le collaboratrici svolgono autonomamente il loro lavoro. E' dall'apertura individuale delle singole collaboratrici, dunque, che dipende il rapporto con gli italiani. Credo tuttavia che qui chiunque viene accolto alla stessa maniera, ne è la prova che vengono a trovarci anche italiani. - Campagna abbonamenti 1996 - abbonamento ordinario lire 40.000 . . . (con in omaggio il libro La scelta della convivenza di Alexander Langer) - abbonamento sostenitore lire 100.000 (con in omaggio due dei libri elencati a fianco) Modalitàdi pagamento:Cc.postale n.12405478- Coop.UnaCittàa r.l., p.za Dante21, 47100Forlì.Oppurebonificobancariosul Cc. n. 24845/13- Coop.UnaCittàa r.l. pressola Cassadei Risparmidi Forlì,Sedecentrale,Forlì,cod.ABI 6010,cod. CAB 13200. Abbonamentoestero:600001ireU. nacopia5000 lire.Si invianocopiesaggio.Redazione: p.zaDante21, 47100Forll Tel. 0543/21422Fax0543/30421. UNA GITTA' è nelle librerie Feltrinelli. - AndreaCaffi, Critica della violenza, echzionie/o - A. Cucchi, V. Magnani Crisi di 11110 generazione, ed. e/o - Don LorenzoMilani, La ricreazione. edizioni e/o - ElisabettaDonini. Conversazioni con Evelyn Fox Keller 111,a scienziata anomala. editrice Elèuthera - David Cayley, Conversazioni con Ivan J/lich 1111 profeta contro la modernità. editrice Elèuthera - Cristina Valenti. Conversazioni con Judith Malina l'arte, l'anarchia. il Living theatre, editrice Elèuthera - Rapporto degli ispeuori europei sullo stato delle carceri in Italia, Sellerio editore - Gilles Kepel, A ovest di Allah. Sellerio editore - Adriano Sofri, Il nodo e il chiodo, Sellerioeditore UNA CITTA' 5

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