Una città - anno V - n. 45 - novembre 1995

a La Resistenza come necessità e 1'8 settembre come grande occasione di riscatto di un popolo. Lì per i due serviti anticorporativa della Chiesa. La fondazione con Eugenio Curiel del Fronte della Gioventù, esperienza nuova di in Il periodo dell'immediato dopoguerra, con la predicazione in Duomo, l'amicizia fraterna con Vittorini, quella p La figura di padre Turoldo, fra libertà e fedeltà alla Chiesa. Un nuovo futuro per i conventi, luoghi di incontro co Come il tema dell'ambiente interroga una fede come quella cristiana, chiamata a operare nella storia. Intervista Padre Camillo de Piaz, servita,fu uno dei protagonisti della Resistenza a Milano e della vita culturale del primo dopoguerra. Forse è inevitabile partire dalla Resistenza, di cui, peraltro, tanto si è riparlato in questi ultimi tempi, che segnò la sua vita e quella di un'intera generazione. La cosa che mi preme di più dire, parlando della Resistenza è questa: al di là di ogni legittima discussione postuma, come quelle che si fanno attualmente su di essa, la parola chiave è "necessità". La Resistenza è una cosa che nelle nostre condizioni non si poteva non fare. Erano condizioni in definitiva obbligate, il che, almeno per chi ha voglia e capacità di intendere, anziché sminuirne la grandezza la fa risaltare maggiormente. Che cosa vi può essere di più grande, di più storicamente ed esistenzi~lmente pregnante, di una necessità che assume la dimensione di una scelta? La éòsa appare contraddittoria, ma ci sono dei momenti in cui si danno di queste occasioni che non si possono inventare. E quando sono inventate, ed è successo nel corso di questi ultimi decenni, lo si riconosce anche dal fatto che manca quel fondo di pianto evocato in una delle più struggenti e limpide poesie sulla Resistenza, quella di Elena Bono, che dice: "Piccola Italia non avevi corone turrite né matronali gramaglie, eri una ragazza scalza coi capelli sul viso e piangevi e sparavi" ... B1 Ma prima ancora che della Resistenza bisognerebbe parlare del famigerato 8 settembre, su cui si è sempre, e anche attualmente, esercitata quella che si potrebbe cniamare una passione nazionale: l'autodenigrazione, il lamento, l'invettiva, oggi più che mai di moda fino alla sazietà, su una nostra congenita irreparabile propensione allo sbracamento e allo sfacelo. Una passione celebrata da presunti maftres à penserche sembrano di passaggio in Italia, abitatori di una specie di Atlantide immaginaria che non fanno altro che portare acqua al mulino del catastrofismo della destra. Una passione cui non ho mai preso parte. Sono piuttosto portato, soprattutto per quel che riguarda emblematicamente l '8 settembre, al contrario: al riconoscimento, cioè, dell'infinita ricchezza di risorse e di capacità di riscatto del nostro popolo. La mia memoria e anche la mia esperienza di vita inclinano di più verso questa seconda interpretazione. Per me e per il gruppo di amici, tra cui padre Davide Turoldo, col quale abbiamo dato vita in quei giorni a un foglio, l'uomo, che ebbe un suo posto e svolse un suo ruolo nella stampa clandestina, 1'8 settembre è rimasto un punto di riferimento carico di significati, un kair6s inteso in tutta la possibile estensione e ricchezza di termine: quel ritrovarsi innumerevole, molteplice, corale, "di un popol disperso" e tradito, quel grandioso momento di verità e di identificazione nella sventura.nell'umiltà, nel reciproco soccorso, nella misericordia, ma anche nella speranza di una rinata, e per taluni nuova ed esaltante, volontà di resistenza e di riscatto. la povertà in Curiel era uno stile di vita, una virtù E di fatto, poi, i lunghi 20 mesi che seguirono, mesi di piombo se mai ve ne furono o ve ne siano stati in seguito, furono effettivamente resistenza e riscatto che, per la maggior parte di noi, per quelli della mia generazione, giovani come eravamo, impediti fino ad allora nel nostro maturare dalle strettoie del fascismo, fecero a tal punto tutt'uno con la nostra "educazione politica" e non soltanto politica, da lasciarci segnati e giudicati per sempre. Ne restò segnato anche il vostro cristianesimo? Per padre Davide e per me, in quell'esperienza maturò u·n modo di intendere la Chiesa che praticammo e vedemmo praticare da tanti, in gran parte anche non credenti, in quel tempo: un modo "anticorporativo", secondo cui la sorte di un membro della Chiesa, che fosse semplice fedele o interno ai suoi quadri, alla sua gerarchia, I" e non doveva e non deve contare e fare sussultare la Chiesa stessa più della sorte di qualsiasi altro. La condizione di cristiano, o di prete, non può allora essere costruita su una manomissione o sottrazione della propriaqualitàoriginariadi uomo,di laico, di cittadino, all'occorrenza di compagno, così come la fortuna della Chiesa non può essere costruita sulle défaillances o rovine altrui. La Resistenza, allora, con gli attraversamenti che comportava, conteneva in sé, fra le tante, anche questa valenza liberatoria nei confronti di un comportamento che era stato, o era apparso, proprio di larga parte del mondo cattolico ed ecclesiastico ufficiale durante gli anni del fascismo trionfante. Una valenza liberatoria e anticipatrice di quanto sarebbe emerso più tardi col Concilio. Dunque non pensavamo a nessun mondo da erigere a parte, al posto de Il'unico mondo voluto e giudicato "buono", cioè dotato di senso dal Creatore. E in quanto alla distinzione tra "i nostri" e "i lontani", linguaggio molto presente nel lessico ecclesiastico, avevamo appena finito di leggere allora il rilkiano siamo lontani tutti della preghiera alla Vergine nella traduzione di Jaime Pintor, che sarebbe perito poco dopo nel tentai ivo di passare le linee per congiungersi ai partigiani. L'esperienza di quegli anni doveva insegnarci che la Chiesa, quando si pone come uno schieramento tra gli altri o, addirittura, magari potenzialmente, ciellisticamente o opusdeisticamente, come l'unico, è molto meno credibile di quando appare come un asilo sicuro per chiunque, credente o meno, uno spazio di scondizionamento e di restituzione alla libertà, un porto accogliente, materno e fraterno, in cui gettare l'ancora per rigenerare le proprie forze e da cui ripartire verso le scelte che ognuno si sente o si trova storicamente chiamato a fare, sotto la propria non de legabile o surrogabile responsabilità. Davide e io avevamo oltretutto l'incarico di assistere, a Milano e in provincia, un certo numero di famiglie di perseguitati politici o di uomini alla macchia che il Comitato di Liberazione Nazionale ci segnalava e per cui ci forniva i mezzi e non potrò mai dimenticare di quanto oscuro eroismo femminile fummo allora testimoni. E anche quella era resistenza nel vero senso della parola. Ebbene, da allora per noi, per me, non ci sarebbe più stato, né c'è ora che il problema si ripropone, più nulla da spartire con altre concezioni egemoniche od ecclesiocentriche od ecclesiocratiche della presenza cristiana. Siamo stati tranquilli,e sono ancora tranquillo su questo, anche se non è stata e non è una vita facile. E' rimasto famoso il suo incontro con Eugenio Curie!... Beh, quello. in un certo senso, è un episodio degno di passare al la storia. Intanto era stato Gilio Pontecorvo che allora si chiamava col nome da battaglia di Barnaba, attivissimo nei limiti della obbligata clandestinità, a portare da me Eugenio Curie!, a farci incontrare. Non vorrei e non dovrei essere io a sottolineare il significato e la singolarità, per quei tempi, di quell 'incontro e della collaborazione e amicizia che ne seguì, un ·amicizia che la comune timidezza rendeva segretamente fraterna. Da una parte un fraticello svezzato da poco dal- !'incubatrice seminaristica. voglioso ricercatore di aperture, oltreché, giova notarlo, proveniente da uno di quegli ordini, i Servi di Santa Maria di origine fiorentina e dugentesca, che pongono alla base della loro convivenza la rinuncia alla proprietà privata (quando si parla di povertà o voto di povertà è questo che si vuole dire): dall 'altra un militante comunista, l'uomo nuovo del partito comunista, dalla "formazione anomala" rispetto a quella del quadro dirigente storico, anello di congiunzione e insieme di stacco fra la generazione del1 'emigrazione e del vecchio antifascismo e le nuove, allora chiamate alla lotta. Un uomo in cui la povertà era austerità. costume di vita, oso dire virtù. Se faccio un confronto con quanto vedo attorno adesso, anche nei ranghi di una certa sinistra! lo poi avevo ben fissato in mente il testo degli Atti degli apostoli dove è scritto: ·' Erant illis omnia communia et distrihuebatur unicuique sicut rnique opus erat'', (Tutto era tra di loro in comune e a ciascuno veniva distribuito secondo il suo bisogno). L'incontro avveniva dunque non sulla base di un semplice appoggio logistico e neanche solo sull'onda cli una generica solidarietà resistenziale, bensì di un'assonanza di sentimenti, oltreché nella costruzione di un comune progetto politico che riguardava la lotta del momento ma mirava anche al dopo. Qualcuno parli pure di strumentalizzazione ai propri fini da parte dei comunisti. ma io, che non ero un ingenuo neanche allora e ci tenevo alla mia identità, so che non è così, almeno per quel che riguarda Curiel. Ci si sorprende a pensare che cosa ne sarebbe stato se fosse sopravvissuto. Un dopo, comunque, che fu di breve durata: infatti il Fro11tedella gioventtì tra gli organismi di massa di autogoverno, di potenziale "nuovo potere" nati nella Resistenza, fu il primo ad andare in pezzi. Quel '·dopo che non ci fu'', almeno questo venne risparmiato a Curiel, riguarda tutti. sotto forma di nodi che hanno continuato a venire al pettine, ma riguarda soprattutto, e in maniera esistenziale oltre che politica, gli uomini della mia generazione, quella generazione del "lungo viaggio", per dirla col titolo del povero Zangrandi, che essendosi formata nella Resistenza e trovandosi a guerra finita, a liberazione avvenuta, nel pieno del suo vigore vitale, pareva storicamente candidata a fare da fulcro di un processo di rinnovamento radicale, di un 'Italia diversa, di un modo nuovo, non solo di fare politica, ma anche semplicemente di vivere. l'actus essendi di Felice Balbo, straordinario! Finì invece per fungere da arcata di sostegno per l'estensione a tutto l'organismo sociale di quel regime della cooptazione, nel quale siamo andati per lunghi anni affondando, in tanti casi confortevolmente. e così corrompendoci. Poi venne la Corsia dei Servi a Milano ... Noi siamo stati molto presenti nella vita milanese, a cominciare dai bombardamenti che colpirono soprattutto il centro di Milano. Quando uno dei grandi bombardamenti, con spezzoni incendiari, colpì anche la chiesa e il convento dove stavamo noi, la chiesa di S. Carlo, ricordo che il corso Vittorio Emanuele, l'antica Corsia dei Servi, che prendeva il nome dall'antica chiesa dei Servi, poi distrutta ai tem~i di Napoleone, che costeggiava il corso, era ridotto a un sentiero con ai fianchi montagne di detriti e le fiamme che si congiungevano in alto sopra il sentiero ... A Milano erano i tempi del cardinale Schuster e ci avevano offerto la predicazione della domenica in Duomo. Un incarico importante perché il Duomo di domenica si affolla di milanesi. Cominciò prima il Davide. ancora durante la guerra, e anelò avanti fino al '54. Allora, la Corsia dei Servi diede il nome a un centro culturale fondato. nell 'immediato dopoguerra. da Davide. da me e da altri presso la chiesa di San Carlo. che diventò, assieme alla Casa della Cultura dove allora c'era la Rossanda e all'Umanitaria, il terzo fulcro della ricostruzione culturale e democratica della Milano dopo il fascismo, diventando punto di incontro della cultura cattolica più aperta e fra questa e la cultura laica. Per me quelli furono anche gli anni dell'amicizia fraterna con Elio Vittorini. Lui mi voleva molto bene, ci conoscevamo già, ma ci aveva unito molto il fatto che io assistetti per mesi suo figlio maggiore. Giusto, morto di tumore. Mi aveva chiamato lui ad assisterlo. fu una vicenda dolorosa, ma anche bella ... Allora, Davide e io sognavamo un convento che svolgesse la funzione che più in generale pensavamo fosse della Chiesa: sponda cui rifarsi e da cui ripartire. spazio di scondizionamento, cli libertà, di accoglienza in un mondo sempre più condizionato. Quello, d'altra parte. storicamente. erano stati i nostri conventi e quello credo che siano destinati a essere di nuovo. Nel '54, appunto. ai tempi in cui era arcivescovo di Milano Montini, che cercò anche di difenderci ma non ce la fece neanche lui. un intervento ciel Santo Uffizio da Roma chiese l'allontanamento da Milano di padre Davide. Rimase famoso il comando dato ai nostri superiori: "fatelo circolare··. Allora iniziò il periodo in cui padre Davide andò in giro per il mondo, avendo la proibizione climettere piede in Italia. Ci incontravamo quando passava da queste parti, a Chiasso. Qualche anno dopo toccò a me, che avevo preso il suo posto nella predicazione in Duomo. Allora io mi trovai allo sbando e chiesi di tornare al mio paese, che è questo, Madonna di Tirano. Qui c'era un convento dei Servi, mi hanno lasciato venire e son qui da allora. E' andato in esilio a casa propria ... Già. Ma gli ultimi anni di Pio XII sono stati durissimi. Tanti ci sono andati di mezzo: basta pensare a don Mazzolari con cui eravamo molto in amicizia e a tanti altri. Dovevamo aspettare il Concilio per vivere un'altra grande stagione di apertura. Per noi fu una cosa straordinaria, anche un 'occasione per conoscere tante personalità, un padre Chénu, un Congar, tutti i grandi protagonisti del Concilio. E avemmo anche la soddisfazione di veder emergere tante tematiche che noi avevamo promosso e praticato da anni. Fu una liberazione. Un altro incontro importante fu quello con Felice Balbo. Per molti della mia generazione l'incontro con Felice Balbo, Cicino per gli amici, fu decisivo. Ancora oggi avverto il senso di irrealtà che ci prese alla notizia della sua scomparsa, tanto la sua presenza, la sua persona, la sua immagine viva, la sua "grazia" erano, e sono tuttora, ben lontane dall'averci insegnato e comunicato tutto ciò che avevano e hanno da insegnare e comumcare. Non posso che riandare a quel giorno del lontano autunno '45, in cui avvenne, nella vecchia sacrestia di S. Carlo al Corso a Milano, sede di tanti maneggi clandestini negli anni precedenti e fino a qualche mese addietro, il mio primo incontro con lui: un incontro destinato a trasformarsi ben presto in un'amicizia profonda e delicata, anche perché preparata e propiziata dal mio sodalizio resistenziale con i suoi compagni di movimento e di lotta politica, operanti nell'area milanese e lombarda, quelli che si chiamavano col nome, allora temerario, di cattolici-comunisti, poi sinistra cristiana. Tra loro rivedo in primo piano i nobili volti, e nobili lo erano anche per lignaggio, cliun altro caro amico scomparso prematuramente, Giorgio Ceriani Sebregondi, conosciuto col nome di battaglia di Giorda- · no, e della sua bellissima compagna Fulvia. (Una delle mie imprese fu la sua liberazione da una casern1a dove era stata portata dopo un arresto). Rivedo tutto un mondo singolare e irripetibile di figure. di idee, di impegni, di progetti, di speranze. di prove. di solidarietà, che ha segnato in maniera indelebile la nostra vita. Allora noi eravamo come uomini in stato di rigenerazione. Erano i tempi del Politecnico di Vittorini, altro abitatore magnifico di quella che. in una delle sue pagine più memorabili, la lettera a Jaime Pintor, Balbo chiama col nome di patria: l'amicizia. Erano i tempi, appunto, dell'appello di Vittorini per una nuova cultura e ricordo bene quando Balbo venne da Torino recando con sé la sua risposta. quella Le11eradi 1111ca11olico poi rifusa nel Laboratorio del/' 1101110. in cui si trovavano già gran parte degli sviluppi futuri del suo filosofare e della sua testimonianza. Un documento per me insuperato, un esempio in atto di dialogo autentico in un tempo in cui questa parola non era tanto di moda. Riandiamo alla lettera a Pintor sull'ateismo: «Di fronte agli stravolgimenti della rei igione seni imental izzata nel la categoria sensi bi le del '·sacro., e scientizzata nel "numinoso", cli fronte alle debolezze della religio11du coeur, per non parlare dei fariseismi legalizzati. il pudore dell'ateismo di buona volontà è qualcosa che chiede attento rispetto prima ancora che operante carità. Questo ateismo è la via naturale al vero Dio, perché in realtà non nega Dio. ma gli dei. In tal senso si comprende il fondo umano della parola di San Giovanni: Qui amat. 11m·it De11111». Che grande giovamento da Felice Balbo, se solo si fossero presi la briga cli studiarlo. avrebbero tratto tanti amici cristiani che si sono affannati, fino a stremarsi, intorno al nodo fede e scelta politica, fede e militanza nella sinistra. Quel giorno Cicino tirò fuori i suoi foglietti che più tardi sarebbe andato a consegnare di propria mano a Vittorini, li pose sul tavolo, accanto al l'agenda del le messe (eravamo in una sacrestia) e passammo insieme buona parte della mattinata a discutere, per quanto questa parola si adatti poco al tipo di conversazione che si instaurava quando era presente lui. Il suo era un linguaggio che spiazzava, un discorso rivelatore e liberatore. Credo che abbiamo smesso troppo presto di lasciarci rivelare e liberare da lui. Credo che sia la cultura cattolica che quella laica non fossero preparate all'incontro con Balbo. Lo saranno ora? E se non ora quando? Pensiamo solo alla sua concezionedell'actus essendi, I'atto di essere, che taglierebbe i nodi del dibattito che c'è anche attualmente, basta pensare a Severino e all'ultima sua discussione con un teologo, Bruno Forte, sul! 'essere, il divenire, il nichilismo. L'actus essendi, l'atto di essere, come se essere fosse un 'attività. Che intuizione straordinaria! La sua amicizia con padre Turoldo è un'altra di quelle amicizie, durate una vita, che hanno accompagnato, e segnato, la storia della Repubblica. Ci vuol parlare di lui? In una lettera aperta indirizzata a me, uscita su un giornale locale valtellinese, Giulio Spini, una delle teste forti della Valtellina, scrive: '·proprio nel frequentare i profeti bisogna usare un registro di voce diverso dal loro; per avvicinarli e capirli si deve essere se stessi". Ecco, vorrei che questa lezione raggiungesse la sempre più folta schiera dei celebratori postumi di padre Davide, taluni inaspettati, tali altri insospettati, ma sospettabili. Dio ci scampi poi dagli imitatori. Ribadisco la mia ostilità a ogni sorta di glorificazione e idealizzazione postuma, innocente o interessata che sia, o di una sua riduzione alle dimensioni, che nel suo caso risulterebbero particolarmente strette, di un innocuo santino. Davide deve rimanere vivo in tutta la sua corposa e scomoda integrità, spigoli e spine, ma anche tenerezze compresi. il rischio di diventare un guru fu evitato da Davide Nel parlare di Davide, proprio per essergli stato vicino e accomunato da più lungo tempo, da quel lontano giorno di settembre del 1929 in cui siamo apparsi l'uno all'altro in uno studentato dell'ordine dei Servi di Santa Maria, ambedue un po' spaesati e ancora intrisi dei sapori e degli odori del1 'infanzia che ci eravamo lasciati alle spalle, fino alla sua morte avvenuta sotto i miei occhi, un pericolo per me potrebbe essere quello di tracciarne un ritratto fatto a mia immagine. E' il caso di un tema che si impone parlando del Davide, cioè del rapporto fra libertà e fedeltà nei confronti della Chiesa, un tema su cui, però, per averci tanto e più di tutti insistito, ho finito col restarne prigioniero, correndo oltretutto il rischio di fare apparire il mio dire e colui che ne è l'oggetto, Davide, come un pretesto per una ennesima apologia della Chiesa, di cui non sento affatto il bisogno. Tanto meno in questo momento di rinnovata invasività della sua presenza, soprattutto per quel tanto di revanscismo che essa comporta, in presenza dei crolli. dei disincanti e delle difficoltà altrui, che è l'aspetto che mi lascia a dir poco più perplesso. Sarà anche la reva11clte de Dieu, come è stata chiamata. ma temo che un Dio che si presenta issato sugli scudi di una volontà di rivincita, di rivalsa, finirà presto col venire a noia. Non per niente negli ultimi tempi Davide andava sempre più spesso, e con risentita insistenza. ripetendo"quale Dio?". Oso parlare di fedeltà alla Chiesa e non tanto di fede. perché la fede, abbandonata a se stessa. può risultare a sua volta destabilizzante. Anche la Chiesa. naturalmente, se abbandonata a se stessa. nel senso di troppo occupata e piena di sé. è da temere. L'integrismo esce fuori, come un veleno di cui si siano rotte le urne, proprio dalla

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