La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 10 - dicembre 1995

esprimersi come rivendicazioni di indipendenza e di separazione culturale, politica e istituzionale, come rivendicazione di identità nazionale, etnica, religiosa, ~li esiti sono dunque contraddittori e ambigui. Da un lato nei paesi baltici forme pacifiche e nonviolente "classiche", come la catena umana di un milione di persone che il 23 agosto del 1989, nel 50° anniversario del patto tra Hitler e Stalin che consegnò questi tre stati all'Urss, unì le tre capitali (Tallin, Riga, Vilnius) per un percorso di oltre 500 kilometri (ma anche tentativi più avanzati, meno vistosi, forse, ma più profondi, come i tentativi di difesa popolare nonviolenta preparati in previsione d1 un'invasione sovietica), hanno avuto un impatto straordinario che ha pesato nel fermare o almeno limitare l'intervento militare sovietico; e di conseguenza, benché il problema delle minoranze russe non sia ancora risolto, l'intero processo ha almeno comportato un limitato spargimento di san- , gue. Dall'altro, il caso della ex Jugoslavia, su cui è inutile qui aggiungere alcunché, se non forse ricordare come al di là delle limitate mobilitazioni pacifiste e interetniche, altri tentativi di azion·e nonviolenta, di affermazione di una cultura di pace magari istintiva e poco consapevole, si sono timidamente affacciati per esempio nell'azione delle madri serbe che partivano da Belgrado per "liberare" i propri figli soldati in-Croazia, un po' come le madri russe avrebbero fatto qualche tempo dopo in Cecenia. Ma nei Balcani la logica della lunga guerra ha spazzato via questi sentimenti, questi tentativi e anche queste embrionali culture antibelliciste (benché il dato dei 200.000 disertori meriterebbe forse attenzione maggiore). L'89 ci consegna dunque questa ambiguità che rispecchia una contraddizione più generale, in cui alcuni complessi processi di pacificazione nazionali, internazionali, persino_interetnici paiono avanzare -per esempio in Medio' Oriente, in Sudafrica, in Mozambico, in Centroamerica e in Irlanda del nord- mentre altrove si affermano, _esu scala planetaria sono forse prevalenti, tendenze opposte: in Africa, e non solo in Ruanda; lungo tutti i confini dell'ex impero sovietico ma anche in Europa, in Jugoslavia e, sebbene meno traumaticamente in Cecoslovacchia. Contraddittorietà e disordine sembrano dunque i tratti caratteristici dello scenario attuale. Non c'è da stupirsi se si accet~ ta l'analisi che dell'89 ha fatto Vaclav Havel: "la caduta dell'impero comunista è un evento della stessa dimensione storica dell'impero romano. E sta avendo conseguenze analoghe, sia buone che pessim~... Il cambiamento richiederà una fase lunga. Costruire un mondo nuovo sulle rovine del comunismo potrà richiedere un processo ampio e complesso come lo ha richiesto la creazione dell'Europa cristiana nei secoli del Medioevo". Havel non esagera perché l'ordine mondiale che l'età della guerra fredda ha instaurato, nonostante la sua durata breve se misurata su tempi sto~ici, è stato uno dei più compatti che la storia abbia conosciuto; è naturale dunque. che la sua disgregazione produca caos e moltiplicazione dei conflitti che la guerra fredda controllava e perfino paralizzava, soprattutto. in Europa. La divisione del mondo in blocchi di potenza politico-militare ma anche in fronti ideologici contrapposti funzionava infatti allo stesso modo su scala internazionale che all'interno dei singoli stati: i conflitti, qualunque fosse la loro origine e la loro ragione reale, erano sussunti entro uno schema che li canalizzava -é eventualmente reprimeva, come in Jugoslavia, sul Caucaso e altrove. La rottura di questo equilibrio, la sua implosione ha moltiplicato le linee di conflitto e le loro cause. Qualunque cultura della pace deve essere anzitutto consapevole di questa nuova situazione e de!la sua complessità. Quale Nord e quale Sud Lo schema che in genere viene usato per descrivere questa trasformazione è quello del rov<:!sciamentodell'asse di contrapposizione: non più Est/Ovest ma Nord/Sud. Constatazione esatta che andrebbe però precisata. C'è un primo elemento decisivo riassunto nelle due cartine. La prima segnala i conflitti in senso lato -cioè sia guerre che i confliti più o meno armati- dopo il 1989 e mostra che c'è una sorta di irregolare stabilità del numero dei conflitti nei diversi continenti a eccezione. dell'Europa, dove i confltti sono in continua crescita mentre erano praticamente assenti nel periodo della guerra fredda. Si può a~giungere che questa tabella segnala solo 4 conflitti armati interstatuali (lrak-Kuwait, India-Pakistan, Mauritania-Senegal, Usa-Panama, tutti terminati prima del 1993) cioè la forma per così dire tradizionale di conflitto: non è vero dunque che la fine della guerra fredda ha riportato il mondo com'era, all'età degli imperialismi regionali. La stragrande maggioranza è infatti costituita da conflitti interni, di vario tipo e natura: intestini, intertnici, interreligiosi... . La seconda cartina riassume questo fatto attraverso un dato eclatante: l'aumento del numero dei rifugiati che, secondo _idati delle Nazioni unite, tra il 1960 e metà degli anni Settanta (l'epoca del mondo diviso e controllato dai due blocchi ma anche, come sostie~e Hobsbawn, una specie di periodo aureo del nostro secolo racchiuso tra l'Età de_lla Catastrofe, ossia il ventennio del nazifascismo, e la nostra Età della Decomposizione, della Grande Frana) sono rimasti pressoché stabili intorno ai due milioni per poi crescere vertiginosamente col progressivo disgregarsi della divisione del mondo in blocchi: sei milioni nel '79, dieci milioni nell'82, quattordici nell'88, oltre diciotto nel '92; 27,4 milioni nel 1995. Questo è l'esito più corposo dei nuovi conflitti e il segno più eloquente della loro nati.Ira: interni, fratricidi, non regolati. Ma a scendere nei particolari_c'è in questi dati anche l'effetto di un mutamento nella distribuzione dei conflitti: tra il 1990 e il '95 la percentuale di rifugiati asiatici sul totale mondiale è scesa d.i.l 45,6% al 2,9%, in America Latina dall'8,1 % allo 0,4%; e viceversa in Africa è salita dal 30,8% al 43,3% mentre in Europa la percentuale si è addirittura quadruplicata passando dal 5,3% al 23,9% del totale mondiale. Segno che i conflitti che la guerra fredda espelleva alla periferia del mondo oggi tendono a rifluire lungo i confini e perfino all'interno dei paesi più sviluppati: in modo a_perto(come nella ex Jugoslavia e lun~o i confini russi) o sotterraneo, dato che i nfugiati sono una componente rilevante di quell'immigrazione che sconvolge la parte ricca del pianeta. Ma anche .:..v.a almeno accennato - la testimonianza del diffondersi di una reazione "moderna" e attiva ai conflitti, cui non ci si rassegna con iner:me fatalismo ma si prova con ogni mezzo a sfuggire. Comunque LEZIONI

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