La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 8 - ottobre 1995

È difficile immaginare cosa si$nifichi per un bambino dire che i suoi genitori provengono da un paese che ormai tutti, senza farci particolare attenzione, chiamiamo "Ex Jugoslavia", così come è sicuramente un'esperienza particolare appartenere, fin dalla nascita, a una famiglia d'altra cultura e d'altro colore o sentire e sentirsi nomadi e stranieri, pur vivendo da generazioni in Italia. Rapporto contraddittorio con le _proprie origini, mimetismo, fierezza e desiderio d'essere riconosciuti e considerati irriducibilmente come altri sono alcuni tra i tanti possibili atteggiamenti di chi arriva, da bambino straniero, nella scuola. E diversissime, naturalmente, sono anche le reazioni con cui i bambini stranieri sono accolti, rifiutati, osservati, protetti, integrati o emarginati. Ho ascoltato maestri che all'annuncio dell'arrivo di un bambino brasiliano recentemente adottato non esitavano a chiedere un inse$nante aggiuntivo di sostesno, come fosse in arnvo un bambino con handicap gravissimo, e ho incontrato invece insegnanti capaci di adattare in modo flessibile il loro fare scuola, perché la presenza di uno o più stranieri divenisse fonte e possibilità di arricchimento _pertutto il gruppo. Qualche decina d1 anni fa, quando i sovrabbondanti insegnanti siciliani sbarcavano per lavorare nelle scuole sarde, si crearono situazioni di incomunicabilità pressoché assoluta, perché la differenza di lingua costituiva davvero una barriera impenetrabile e perché, probabilmente, altre differenze a livelli più profondi rendevano difficile, e comunque assai lungo, il processo di incontro e di scambio tra maestri e bambini di isole culturalmente tanto distanti. In modi nuovi e dirompenti oggi il tema della distanza, della differenza, dei mari che separano i diver_simodi di stare nella realtà, torna a essere al centro della questione educativa. Con una differenza enorme, tuttavia, da come si poteva cercare di impostare la questione mezzo secolo fa. Diritto a scrivere e diritto a raccontare di sé Quando in Europa si cominciò a rivendicare con forza il diritto di tutti all'istruzione, la questione fondamentale era quella dell'uguaglianza. E ad esempio in Francia, Freinet, ponendosi il problema di come avvicinare i figli dei contadini alla cultura scritta, cercò modi, materiali e percorsi perché il loro ingresso nella scuola non avvenisse nel segno della subalternità. Da questo nacque l'idea che i libri, oggetti sino ad allora inaccessibili e sconosciuti al mondo contadino, potessero essere scritti e stampati, già a sei anni, da giovanissimi figli di analfabeti. Dietro quella potente intuizione c'era la convinzione profonda che tutti, di qualsiasi classe sociale, di qualsiasi età, avevano il diritto di pensare, di esprimersi e di dare quella dignità e valore alle proprie parole che l'atto simbolico dello scrivere stampando conferisce alla scrittura. Questa immagine ha assunto il valore di una metafora, tuttora valida, riguardo· al diritto di tutti alla lettura e alla scrittura. Eppure nel nostro tempo, paradossalmente, riguardo al diritto all'ascolto delle singolarità, delle provenienze e delle differenze di chi arriva oggi, bambino, in una scuola straniera, penso che è necessario elaborare tecniche, percorsi e capacità che ridiano pieno titolo e valore all'oralità e alla parola parlata, al corpo in movimento che si esprime, al teatro, al canto e alla musica. È necessario indagare sui ritmi diversi del narrare e creare spazi in cui si ritrovi l'importanza del parlare e dell'ascoltarsi. Così, se il diritto dei bambini a sapere scrivere e leggere capendo è da tempo al centro della lotta per l'ugua~lianza nella scuola di base, lotta in verità mai vinta, ho la convinzione che, se vogliamo condurre con coerenza e profondità una difficile battaglia per dare pari dignità alle differenti etnie, culture e relig10ni sempre più presenti nel nostro Paese, dobbiamo ripartire e ridare valore alla narrazione e al racconto orale. Il racconto orale, infatti, oggi è esperienza del tutto secondaria e quasi dimenticata in una scuola che ha fatto d 11apresunta e presuntuosa "scientificità" il pei o per l'elaborazione di curricoli e indici di valutazione incredibilmente parcellizzati e specifici. E invece il racconto orale è un terreno _particolarmente fecondo per diverse ragioni. ~uando io ascolto il narrare di un altro, per entrare nella sua storia devo stare attento, faticare, cercare continuamente di confrontare le immagini e l(; sensazioni che mi eropone la sua voce con quelle del mio repertorio d'esperienza personale. Devo unire un'attenta percezione delle parole che ascolto a un'immaginazione viva, di cui sono solo io il responsabile. E forse è proprio la lontananza della parola dalle cose che avvicina chi ascolta a chi parla ... Il racconto orale non cessa mai di farsi. È una costruzione continua, un processo di avvicinamento che non arriva mai a una definizione ultima di persone e avvenimenti. Come tutte le strutture narrative, stabilisce legami tra l'ordinario e l'eccezionale e racconta cose che la sola logica razionale tenderebbe a escludere. Può vivere in piena luce, ma conosce le sfumature e si avventura nelle zone più oscure. Il suo carattere fluido ci permette di accogliere cose che insieme capiamo e non capiamo, e questo può aiutarci a sospendere il giudizio. Provoca l'attesa. Attesa che ogni parola parlata porta con sé, nell'incertezza di non sapere mai se la comunicazione che nasce nel presente sarà tenuta viva nella memoria e ripetuta, o in qualche modo conservata. Non c'è fondazione mitica, nella storia umana, che non abbia avuto bisosno di tempi lun$hissimi per arrivare a fissarsi e sedimentarsi, per divenire testo e scrittura. Ora, il problema che ci troviamo di fronte nel cercare di costruire un sentire condiviso, è esattamente quello di ritardare il più possibile ogni defini- · zione rigida di ruoli e giudizi e di non avvilire lo spazio della curiosità e della sorpresa. Per tutto questo penso che i caratteri particolari della narrazione e della parola parlata sono ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno nella relazione educativa per affrontare i problemi interculturali e non solo. Noi viviamo in un mondo in cui apparentemente conosciamo tutto. Migliaia d, ore di televisione trangugiate fin dalla più tenera età ci danno l'illusione di conoscere paesaggi, popoli e geografie lontane. Ma è per l'appunto questa abbondanza e facilità di accesso che rende le immagini superficiali e indistinte. Ho l'impressione, infatti, che nei bambini si accumulino e si stratificazioni grandi quantità di facili certezze che rischiano di desernficare la loro capacità immaginaria, se questa non viene alimen-

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