La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 8 - ottobre 1995

menti in cui si fonda ogni nostra presenza e ogni nostro pensiero, le radici di ogni nostra affettività e conoscenza, sono intraducibili per gli ixiles nella loro terra, dopo cinquecento anni di castiglianizzazione forzata. Mi è tornata alla mente questa esperienza, di cui ho già scritto, immaginando quanti pensieri, associazioni, sogni, simboli, valori e modi di vedere e intendere le cose sono intraducibili per i bambini tamil o cinesi, senegalesi o magrebini, e per i bambini "italiani" Rom che arrivano nelle nostre scuole. Sorge così un problema cruciale: o noi pensiamo che l'educazione dei bambini stranieri debba limitarsi a favorire il loro graduale ingresso nella nostra lingua e nella nostra cultura (ed è comunque un compito importante che la scuola dovrebbe cercare di assolvere), o noi ci proponiamo di avventurarci in un nuovo ter'ritorio. Il territorio degli incontri interculturali, ancora poco esplorato nel nostro J?aese,in cui la comunicazione dei linguaggi, dei suoni e dei modi di guardare e intendere il mondo non viaggino solo in una direzione. ·Ma per muovere una circolarità di conoscenze è necessario che i destinatari non siano solo i nuovi arrivati, ma tutti noi, è necessario costruire luoghi d'ospitalità e imma~inare tempi di incontro e di relazione in cui sia possibile 1'ascolto e lo scambio reciproco. Flessibilitàe faticadelladifferenza La scuola, si sa, è q_uantodi meno flessibile esista, eJ?pure i tentativi e le sperimentazioni più sigmficative, che lentamente stanno prendendo piede in diverse regioni, ci mostrano quanto sia assolutamente necessario, se si vuole affrontare la questione interculturale in modo serio, essere radicali nelle ipotesi e operare scelte che necessariamente incontreranno non pochi ostacoli. Mi sembra particolarmente significativo l'esempio della scuola materna del Campo Sosta di Trento, in cui le maestre si sono rese conto che, per potere ospitare bambini Rom, dovevano lasciare sempre le porte aperte e accettare il fatto che per le famiglie nomadi il trattenersi di un bambino a scuola debba essete sempre una sua scelta e non un obbligo. Questo esempio mostra che noi insegnanti, se non vogliamo sottrarci alle nostre responsabilità, dobbiamo assumere la diversità come una sfida, e coinvolgerci personalmente e umanamente in modo profondo, altrimenti sarà ben difficile rimettere in discussione il nostro ruolo. Dobbiamo accettare di intraprendere un viaggio dagli esiti imprevedibili, che metterà in questione molti aspetti della nostra identità. Perché ogni scuola diventi davvero luogo di ospitalità e di creazione culturale originale (come per legge, in teoria, da quest'anno potrebbe essere possibile), la flessibilità è una condizione imprescindibile. Solo così si può pensare di costruire ponti tra modi di concepire ~li spazi, i tempi e le relazioni, che in alcuni casi sono radicalmente differenti. Non va sottovalutata, tuttavia, la fatica della differenza. Chiara Canotter concfude l'articolo sulla sua esperienza con i bambini Rom (qui pubblicato) confessando con sincerità che, dopo due anni di·immersione nella cultura zingara, sente la necessità di fare una pausa e di riprendere energie ritornando per un periodo alla propria quotidianità. Quando si fa un vero viaggio in un territo- . I > e H1 n rio altro spesso è necessario tornare a casa per poi ripartire. In verità sono proprio questi percorsi di andata e ritorno che creano le possibilità di costruire ponti. E naturalmente, se questo vale per noi insegnanti, a maggior ragione varrà J?er i bambim che arrivano qui da lontano. Noi educatori dovremmo riflettere su quanto è importante offrire ai bambini immigrati degli spazi per potere "tornare a casa". E dato che non lo possono fare concretamente, far sì che nella scuola sia loro concessa libertà di immaginazione, di memoria e di lingua, dandogli così la possibilità di non dovere sempre mascherare la distanza che li separa da noi. Distanza che molte volte si trovano ad affrontare in solitudine. C'è poi da aggiungere quanto sia difficile accettare la diversità quando si presenta nei suoi aspetti irriducibili. Di chi è diverso, infatti, credo che noi sappiamo accogliere molto di più le differenze quando, in qualche modo, sentiamo che si stanno attenuando. Quando pensiamo che l'altro si avvicina a noi, levigando le sue asperità. Così accogliamo l'incredibile diversità dei bambini, perché è una diversità che abbiamo conosciuto e perché siamo certi che cresceranno, mentre abbiamo grandi difficoltà verso chi porta un handicap, l?erché temiamo la sua sofferenza e perché sappiamo che non raggiungerà mai la nostra "normalità". Pur con fatica riusciamo ad accettare i bambini immigrati che arrivano nelle nostre scuole, perché supponiamo che prima o poi si ade~ueranno ai nostri costumi e ai nostri modi d1vivere, ma ben più difficilmente sopportabili ci apf aiono i nomadi, che da generazioni vivono ne nost~o Paese, perché si rifiutano di divenire come noi. Le esperienze educative realizzate con i bambini Rom sono particolarmente significati- . ve per questo, perché costringono noi insegnanti a confrontarci con una irriducibilità culturale estrema, estrema quasi quanto la nostra. Tremodi d'esserebambinistranieri È sera. Un bambino si avvicina e mi porge tre rose. Mi invita a comprarle scherzando e parlando in buon italiano, ma con evidente inflessione straniera. Gli domando da dove venga e il bambino mi risponde che è di Roma. Allora gli chiedo di dove sono i suoi genitori e lui, dopo avere taciuto per un po', alla fine a voce bassa, quasi schernendosi, risponde: "Jugoslavia". Poi si volta, sorride ancora e corre via. In una quarta elementare una bambina africana, con la pelle così scura da rendere particolarmente luminosi i suoi occhi, di fronte al compito di disegnare la sua famiglia (nel suo caso la famiglia che l'ha adottata fin da piccola) non esita a colorare il suo volto con tratti di pennarello rosa chiaro chiaro. Il direttore di una scuola elementare mi racconta della sua difficile ma fruttuosa impresa nel riuscire a fare accettare ai genitori italiani un gruppo di bambini Rom nella sua scuola, in una provincia del nord. Descrivendo le alterne vicende dell'assai difficile impresa, a un certo punto racconta che riguardo al comportamento in classe, ha potuto osservare atteggiamenti molto diversi da parte dei bambini nomadi. Quando un bambino Rom è solo quasi sempre gioca con gli altri e partecipa alla vita della classe, mentre basta che siano 111 due perché scatti in loro una dinamica di chiusura e di allontanamento dal resto del gruppo.

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