Gaetano Salvemini Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915 L'impresa libica, esaltata da una campagna di falsificazioni e mistificazioni, che Salvemini senti il dovere di demolire sotto ogni punto di vista, politico, economico, militare; l'irredentismo, combattuto quando significava milit-arismoe guerra a tutti i costi, difeso quando, allo scoppio della guerra mondiale, divenne espressione dell'idea mazziniana di nazione; la questione balcanica, con tutti i complessi problemi di confine che comportava, prospettata in vista di una sistemazione della nazione jugoslava; l'intervento, propugnato non su basi retoriche e nazionaliste, ma come argine alla potenza prussiana, nella prospettiva di un riassetto territoriale dell'Europa e del raggiungimento dei nostri confini naturali: questi i grandi temi, intorno ai quali si raçcolgono gli scritti di politica estera di Salvemini, ora presentati per la prima volta, per cura di Augusto Torre, che di Salvemini fu amico e collaboratore. Questi scritti, che vennero intensificandosi progressivamente con l'affacciarsi delle gravi questioni internazionali, non solo costituirono una novità in quegli anni in cui la storiografia ufficiale era tutta tesa alla ricerca del documento ed il socialismo trascurava tali questioni come quelle che riguardavano soltanto i regimi borghesi, ma rispondevano anche a un preciso credo di Salvemini: "lo storico non può rimanere indifferente di fronte agli avvenimenti, né rinchiudersi nell'esame del passato e per volere essere impassibile chiudere gli occhi al presente." E quando la Voce tentò di limitargli lo spazio, egli, per poter ribadire finché necessario le sue denunce, fondò un nuovo settimanale, L'Unità: "Per conto mio, non avrei difficoltà ad accettare qualunque generale Govone e qualunque cipresso di San Guido, purché ci sia tutto il Tripoli che è necessario... Ma tacere, mai, mai... E il mio dovere oggi è: o parlare sempre, in ogni numero, di Tripoli, finché non abbia vuotato il sacco, o non parlare di nulla." Biblioteca Gino Bianco
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Opere di Gaetano Salvemini Biblioteca Gino Bianco
I. " Magnati e popolani," e altri scritti di storia medioevale a cura di Ernesto Sestan 2. Scritti di storia moderna e contemporanea vol. I La Rivoluzione francese (1788-1792) a cura di Franco Venturi vol: II Scritti sul Risorgimento a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda vol. III Stato e Chiesa a cura di Elio Conti 3. Scritti di politica estera vol. I "Come siamo andati 1n Libia," e altri scritti dal 1900 al 1915 a cura di Augusto Torre vol. II "Dal patto di Londra alla pace di Roma" e "La questione del1' Adriatico" a cura di Carlo Pischedda . vol. III La politica estera italiana dal 1871 al 1914 . a cura di Augusto Torre vol. IV "Mussolini diplomatico," e altri scritti sulla politica estera fascista a cura di Augusto T arre 4. Il Mezzogiorno e la democrazia italiana vol. I " Il ministro della mala vita," e altri scritti sull'Italia giolittiana a cura di Elio Apib vol. II Movimento socialista e questione meridionale a cura di Gaetano Arf é 5. Scritti sulla scuola a cura di Lamberto Borghi e Beniamino Finocchiaro 6. Scritti sul fascismo vol. I a cura di Roberto Vivarelli vol. II a cura di Roberto Vivarelli vol. III a cura di Nino Valeri e Alberto Merola 7. L'Italia vista dall'America voll. I e II a cura di Enzo Tagliacozzo 8. Saggi vari a cura di Ernesto Rossi 9. Epistolario a cura di Enzo Tagliacozzo 10. Biografia e bibliografia a cura di Enzo Tagliacozzo e Michele Cantarella Biblioteca Gino Bianco
III Scritti di politica estera Vol. I Biblioteca Gino Bianco
BibliotecaGinoBianco Prima edizione: ottobre 1963 Copyright by © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
• • • Salvemini all'Abetone nel 1907 con Carlo Placci (alla sua destra), Ugo Ojetti ( alla sua sinistra), e altri due amici. BibliotecaGino Bianco
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GaetanoSalvemini . Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915 a cura di Augusto Torre Feltrinelli Editore Milano Biblioteca Gino Bianco
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Prefazione Un uomo dell'ingegno e del temperamento di Salvemini non era fatto per estraniarsi dai problemi della vita, dalle questioni e dalle vicende del suo tempo. Dal suo maestro Pasquale Villari aveva imparato che "non v'ha errore piu pericoloso alla cultura politz"cadi un paese, che negare la storia per l'erudizione, e rompere cost ogni ponte di passaggio fra il passato e il presente." 1 E questa massima, che corrispondeva alla sua fondamentale inclinazione e al suo prevalente interesse per i problemi del presente, diventò completamente sua. La storia - scrive - non può essere "indifferente di fronte alla questione della verità o dell'errore, del bene o del male, e quindi anche lo storico non può rimanere indifferente di fronte agli avvenimenti, né rinchiudersi nell'esame del passato e per voler essere imparziale chiudere gli occhi al presente." 2 Per mezzo degli studi storici cerchiamo d'istruirci sulle nostre origini sociali, morali e intellettuali, precisamente come per mezzo delle scienze fisiche apprendiamo le condizioni della vita organica. Direttamente' e indirettamente, ogni ricerca storica mira a risolvere il problema fondamentale di sapere in qual modo una data situazione presente è arrivata ad essere quale è... Il nostro presente è il prodotto di un'evoluzione sociale, morale e intellettuale le cui origini si perdono nella notte dei tempi e a sua volta sarà la condizione necessaria di sviluppi futuri." 3 Ossia la storia - come scrisse nella lettera di dimissioni inviata al Rettore dell'Università di Firenze il 5 novembre 1925 - non poteva consistere in " mere esercitazioni erudite, estranee alla coscienza morale del maestro e degli alunni," ma deve "essere strumento di libera educazione civile." 4 1 Dal discorso Una pagina di storia antica, tenuto il 15 novembre 1949 all'Università di Firenze, nel riprendere l'insegnamento della storia, pubblicato in "Il Ponte," febbraio 1950. 2 G. SALVEMINI, Storia e Scienza, Firenze, La Nuova Italia, 1948, pp. 111-112. 3 Ibidem, pp. 19-20. 4 Non mollare (1925). Riproduzione fotografica dei numeri usciti con tre saggi storici di GAETANOSALVEMINI, ERNESTO Rossi, PIERO CALAMANDREFI,irenze, La Nuova Italia, 1955, p. 106. IX ' · Biblioteca Gino Bianèo
Prefazione Salvemini non si fermava qui: non bastava studiare, ma si doveva anche agire: "Dobbiamo vivere. Vivere significa agire. Agire significa. indirizzare la propria condotta verso risultati che sono desiderati." 5 "L'anima nostra è fatta per lottare; io per me sto meglio :lottando, sia pure inutilmente, che godermi tranquillamente la vita." 6 Giustamente, quindi, ha osservato Man·o Attilio Levi che Salvemini si riallaccia "alla tradizione di una storiografia che sa essere quello che da Tucidide in poi deve essere ogni storiografia: opera di azione politica in sede di· studio e di critica.m Insomma Salvemini non considerava compito della storia quello del semplice diletto o appagamento della nostra curiosità per quello che i nostri predecessori avevano fatto, ma richiedeva ad essa di essere l'indispensabile ausilio per il presente, e cioè ab·ùudine ad esaminare le questioni del presente in tutti i loro motivi, in tutti i loro fattori, in tutte le loro cause, e cioè una diagnosi precisa e particolareggiata, esente dagli errori prodotti dai pregiudizi, dai preconcetti, dalle inclinazioni e dalle vedute personali. E cosz Salvemini si interessò a tutti i problemi del suo tempo portandovi passione, studio ed esame accuratissimi; ed essi occuperanno "il primo piano negli anni venturi, " e non cadranno mai da quella testa piuttosto ostinata. Gli studi storici di allora si indirizzavano quasi esclusivamente al Medioevo. L'attendibilità o meno delle fonti, stabilita da un lungo e pazientissimo lavoro critico, la lontananza degli avvenimenti, che assicurava l'imparzialità, facevano preferire quell'età alla moderna e alla contemporanea, guardata con diffidenza per il ti"more che la passione e l'incertezza delle fonti, non ben vagliate, non consentissero una sicura ricerca della verità. E cost anche i primi studi del Salvemini furono sul Medioevo, ma a differenza di tutti 1 gli altri, vi portò in pieno le idee moderne, quelle che egli aveva appreso dalla sua adesione al movimento socialista e dalle letture di Marx e di Antonio Labriola, e cioè "che la storia," come scrisse in una lettera del 1922, "è lo studio dei rapporti fra le classi sociali, e che le e.lassis·ociali sono in funzione delZa organizzazione economica della società."8 Con queste idee non poteva tardare il richiamo della storia moderna. Vi contribuirono gli scritti di Cattaneo che egli scoprt nella Biblioteca comunale di Lodi nell'inverno 1898-99, e il Libro dei Profeti dell'idea repubblicana in Italia di Arcangelo Ghisleri, uscito nel 1898. ,r. Il libro dei Profeti," scrisfe al Ghisleri stesso il 29 aprile 1899, "mi fece vergognare della mia ignoranza; e quest'anno non faccio che leggere opere del risorgimento italiano. Dopo tanto Medioevo, un po' di evo contemporaneo mi fa un gran bene." 9 Ma bisogna aggiungere che a quel richiamo contribuirono potentemente anche gli avvenimenti del 1898. Nel novembre di quell'anno seri5 G. SALVEMINI, Storia e Scienza, cit., pp. 111-112. 6 Lettere di Gaetano Salvemini ad Arcangelo Ghisleri, 1898-1900, a cura di PIER CARLO MASINI, in Annali, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 351. 7 " Epoca," 2 settembre 1957. X 8 Le riviste di Piero Gobetti, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. XXVII-XXIX. 9 Lettere ad Arcangelo Ghisleri, cit., p. 357. BibliotecaGino Bianco
Prefazione veva al Ghisleri: "Sono cosf irritato, imbestialito, esasperato: ho il cuore cosf pieno di odio e di sete di vendetta che il solo pensare a certe persone mi fa perdere la padronanza di me stesso." 10 E subito egli si mette alla ricerca delle origini storiche della reazione, e ne nascerà il primo lavoro di storia contemporanea, I partiti politici milanesi nel sec. XIX. Tutto questo ci spiega come l'interesse di Salvemini dovesse comprendere anche la politica estera, per quanto allora, a dif}erenza di quello che avviene oggi, fosse un argomento trascurato tanto dagli storici quanto dai politici. E per diverse ragioni. Anzitutto per il segreto diplomatico che circondava le trattative fra i governi e, in secondo luogo, perché il socialismo, col suo internazionalismo, non riteneva degne di attenzione le relazz·oni fra a vari stati: erano questioni che interessavano i regimi borghesi. Quindi fra i socialisti chi si interessò alla politica estera furono solo Bissolati e Salvemini. Anch'essi avevano a che fare con le difficoltà ricordate e potevano disporre soltanto di quello che pubblicavano i giornali, ma Salvemini aveva la dote particolare, diremo il fiuto naturale, di saper distinguere fra le svariate notizie, piu o meno veritiere, quella interessante e genuina, la frase signz"ficativae rivelatrice, e sapeva poi coordinare con la sua immaginazione i frammenti separati e comporli in un insieme organico. Ma sopra tutto sapeva distinguere le linee fondamentali di una politica, quelle linee che talvolta non troviamo nei documenti diplomatici, ma che non sfuggono a chi sa leggere neg;:iavvenimenti umani. Naturalmente, trattandosi di un lavoro di ricostruzione su pochi elementi, spesso gli sfuggivano e gli apparivano deformati o addirittura errati molti particolari. Tuttavia nelle questioni di politica estera portò lo stesso rigoroso metodo storico che aveva appreso all'Università di Firenze, e cioè scrupolosa esattezza, chiarezza e semplicità, amore per il vero, senza riguardi per nessuno, senza badare se quello che af}ermava avrebbe giovato o no alla sua tesi, "repugnanza per le astrazioni e rispetto per la realtà concreta, anche se diOorme da preconcetti ed aspettazioni sicure." 11 E, seguendo il metodo storico, su ogni questione che si accingeva a trattare anzitutto raccoglieva tutti gli elementi a disposizione, si informava prerso amici o c,onoscenti, voleva, insomma, essere esatto. Le polemiche sulle falsificazioni relative alla Libia ne sono un esempio eloquente; e un altro esempio troviamo anche in questa raccolta a proposito del problema dell'Alto Adige. Prima di scrivere l'articolo in proposito, che comparve su L'Unità del 15 gennaio 1915, egli si rivolse all'amico e vecchio compagno di studi di Firenze, Ernesto Battisti, che negli studi trentini era ormai un'autorità, con la lettera che viene pubblicata in appendice all'articolo stesso. Cosicché "anche Salvemini," come ha scritto Ernesto Rossi, "prendeva delle cantonate, ma nelle 10 Ibidem, p. 347. 11 G. SALVEMINI, Scritti sulla questione meridionale 1896-1955, Torino, Einaudi, 1955, p. XIV, e ora in questa collana: Movimento socialista e questione meridionale, a cura di G. Arfé, p. 669. XI BibriotecaGino Bianco
Prefazione cose grandi sbagliava meno degli altri, perché aveva una cultura piu vasta, una mente lucida, una eccezionale capacità di ragionare logicamente. E anche quando sbagliava si era sicuri che sbagliava in buona fede; non c'era da temere che fosse fuorviato dalla preoccupazione del suo interesse particolare, da pfrcole invidie, vanità e risentimenti." 12 Tutto questo andava detto per rendersi conto del valore degli scritti di politica estera di Salvemini. . Anche qui cominciò prestissimo. Il suo primo saggio in proposito fu uno sull'irredentismo. Il 29 aprile 1899 scrive al Ghisleri: "Alla prima occasione comincerò a battere le porte dell'irredentismo." 13 E il 29 dicembre alla vigilia dell'uscita di quell'articolo sulla Critica Sociale scrive ancora: " Nel prossimo numero della Critica ci sarà un mio articolo sull'irredentismo, nel quale al solito (tiro?) in ballo i repubblicano-lombardi contrapponendoli a Barzilai." 14 L'irredentismo allora era propugnato dai partiti di sinistra e particolarmente dai repubblicani. Ora nel suo ardore per provocare un completo rivolgimento della situazione politica, da parte dei repubblicani e dei socialisti, Salvemini considerava democrazia e irredentismo incompatibili perché l'irredentismo avrebbe portato inevitabilmente alla guerra, e la prepara2·ione ad essa avrebbe rafforzato il militarismo, avrebbe servito ad addormentare la democrazia, avrebbe fatto il gioco della monarchia e dei conservatori. Il 30 gennaio 1900 scrive: " L'irredentismo va a mio parere assolutamente evitato. È una pazzia assurda e ridicola sotto il rùpetto pratico. Irredentismo nei momenti in cui ci troviamo noi, vorrà dire guerra all'Austria; questa è possibile? Noi dobbiamo evitare le complicazioni internazionali ... L'irredentismo è un tranello che ci tende la monarchia." 15 È una tesi che ben presto abbandonerà, e non la ritroveremo piu nei suoi scritti. In quello stesso anno comparve, sempre sulla Critica sociale, un secondo articolo di politica estera, e cioè La Triplice Alleanza e gli interessi politici dell'Italia, nel quale va notata la constatazione che uno dei punti deboli della Triplice era il nascente antagonismo anglo-tedesco. Era una constatazione ben difficile da farsi allora, quando l'antagonismo era soltanto economico, ed era impossibile che diventasse politico finché perdurava' la rivalità coloniale con la Francia. Tanto è vero che ripetutamente, nel 1898, nel 1899, e nel 1901, l'Inghilterra tentò un'alleanza con la Germania. Cosicché l'antagonismo politico divenne evidente solo nel 1904 con la conclusione dell'intesa anglo-francese. Ma Salvemini aveva saputo guardare a fondo nei rapporti Inghilterra-Germania. In ogni modo la politica estera non sarà il problema predominante del primo decennio di questo secolo, e quindi Salvemini se ne òccuperà XII 12 No al Fascismo, a cura di ERNESTO RossI, Torino, Einaudi, 1957, p. 13. 13 Lettere ad Arcangelo Ghisleri, cit., p. 357. 14 Ibidem, p. 370. 1s Ibidem, p. 374. BibliotecaGino Bianco
Prefazione saltuariamente, sia quando nel 1902 pare prepararsi·un'azione su Tripoli, sia in occasione della Conferenza di Algesiras, e della crisi bosniaca. Richiama, invece, tutta quanta la sua attenzione nel 1911, quando inizz'a la campagna di stampa per l'impresa libica, e allora egli impegna contro di essa una lotta condotta con tutto il suo ardore. Il 20 dicembre 1908 era comparso il primo numero della Voce, con l'ambizioso programma di un rinnovamento radicale della cultura e della vita politica italiana. Nell'elenco dei collaboratori figurava anche Salveminz·, che andava distaccandosi dalla Critica Sociale. Stabilitosi a Firenze dopo il terremoto di Messina, trovò in quel settimanale occasione di lavoro e anche di conforto 16 e vi collaborò attivamente, occupandosi naturalmente di politica. Quando iniziò la propaganda a favore dell'impresa libica, Salvemini, e. in un primo tempo lo stesso Prezzolini, furono contro tentando di arginare la dilagante retorica per discutere seriamente il problema e la convenienza economica e politica dell'impresa. Non tutti i collaboratori, in prev.alenza letterati e artisti, approvavano lo spazio dato dal settimanale alla politica, 17 si lamentavano che si facesse "troppa politica spicciola" e volevano "piu cultura e meno politica." 18 La crisi venne quando scoppz·ò la guerra italoturca. Il 18 settembre 1911 Salvemini scrive a Prezzolini: "Ora è la volta di Tripoli: bisogna ogni settimana insistere su Tripoli" e sfatare le "corbellerie giornalistiche." 19 E il 28 settembre ritorna ancora sull'argomento, e definisce il "grande problema nazionale prèsente," e afferma che "la coltura vera cggi consiste nel parlare di TripoH. Tutto il resto oggi no'n è cultura, è letteratura. La stessa questione meridionale oggi è letteratura." Poiché la coltura è "via via che si presenta un problema nazionale discuterlo a fondo, a lungo per creare la coltura nazionale." E "per im,pedire che la stampa continui a mistificare il paese. Per combattere questa mistificazione dobbiamo occupare magari tutti i numeri, se sarà necessario... Pubblicare oggi due articoli sul generale Govone e tacere nello stesso numero della Voce di ciò che piu ci interessa è deìitto." 20 Amendola che, non ostante le frequenti divergenze con Prezzolini, in quel momento lo sostituiva, il 29 settembre risponde a 16 In una lettera del 14 ottobre 1911 a Prezzolini scrisse: " Tre anni or sono trovai tra voi la mia nuova famiglia. E la "Voce" contribui assai, assai, a darmi uno scopo che mi rendesse accettabile la vita, mentre quasi tutto ciò che individualmente mi fortificava era sparito a un tratto, e mentre ogni fede negli uomini del partito socialista cadeva a brani a brani. " G. PREZZ0LINI, Il tempo della " Voce, " Milano-Rirenze, Longanesi-Vallecchi, 1960, p. 453. . 17 Valga per tutti quello che scrisse Renato Serra il 16 settembre 1911 a Luigi Ambrosini: " La loro politica mi pare il colmo della incompetenza e della goffaggine. Salvemini poi e Prezzolini hanno il dono di esasperare il mio usato fastidio, qualunque cosa dicano; e ne dicono, ahimè, a torrenti senza posa." In altra, sempre ad Ambrosini, dell'll ottobre: " Essi (Salvemini e la sua compagnia) scrivono di politica e di economia con fervore e con astio, col desiderio di correggere di rifare di mescolarsi alla pratica e pur con la boria di chi alla pratica è superiore; e allora, con tali pretese, questa gente che non dispone né di un voto né di un uomo né di un soldo, fa ndere insieme e fa rabbia. Essi non sanno essere né contemplativi né attivi e fanno poi i moralisti." Epistolario di Renato Serra, a cura di LUIGI AMBR0SINI,GIUSBPPB DE R0BBRTIS,ALFREDOGRILLI, 2a ediz., Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 404, 407. . 18 G. PREZZ0LINI, Il tempo della "Voce,,, cit.) p. 437. 19 Ibidem, p. 433. 20 Ibidem, pp. 437 sgg. · XIII BibliotecaGino Bianco
Prefazione Salvemini che ormai, -presala decisione della guerra alla Turchia, "la prima fase della questione tripolina" è chiusa; "in questo momento si tratta di operazioni navali militari e diplomatiche e nelle quali non abbiamo nulla da dire." La questione tornerà attuale quando sia stata risolta " politicamente e militarmente," ossia quando sia stato "ottenuto il successo, conclusa la pace." 21 Ma Salvemini non era della stessa idea e il 6 ottobre, a guer.ra iniziata, scrivendo a Prezzolini, dichiara che "il paese deve ormai lasciar libertà assoluta al Governo, quali che siano le nostre opinioni sulle origini e sulla utilità e sui pericoli dell'im-presa... Ma non basta... Voi vorreste fermarvi qui, considerando recriminazioni, o storia, ogni documentazione delle bugie e delle falsificazioni che ci han condotto a Tripoli. lo affermo che dobbiamo occuparcene• in ogni numero, per sfrondare le illusioni, per dare ai nostri lettori il senso della realtà vera, pur continuando a dire che quale che sia questa realtà, al punto a cui sono le cose, l'Italia deve agire vi'gorosamente e seriamente per uscire con dignità e -profitto dall'attuale situazi·one militare e diplomatica ... Dobbiamo parlare e di're la verità: 1) affinché in caso di insuccesso appaiano bene le responsabilità; 2) affinché in caso di successo militare e diplomatico il paese stabilisca a ragion veduta il suo -programma d'azione laggiu. Bisogna parlare subito, mentre si combatte, per -preparare gli animi. Le idee non si im-provvisano dalla sera alla mattina ... Una parte degli amici della Voce trova che io devo tacere su ciò che credo piu urgente dire: essi trovano piu opportuno occuparsi dei ci-pressidi San Guido che di Tripoli." Ma "quel che non posso inghiottire, è e he io debba tacere: cioè debba rendermi complice silenzioso delle falsificazioni altrui ... Per conto mio, non avrei difficoltà ad accettare qualunque generale Govone e qualunque cipresso di San Guido, purché ci sia tutto il Tripoli che è necessario... Ma tacere, mai, mai." E qualora avesse dovuto tacere si sarebbe staccato dalla Voce. "lo ti assicuro che staccarmi dalla Voce sarà per me un dolore infinito. La Voce è un po' anche casa mia. Ma col mio dovere non posso transigere. E il mio dovere oggi è: o parlare sem-pre, in ogni numero, di Tripoli, finché non abbia vuotato il sacco, o non parlare di nulla." 22 Alle argomentazioni e alle insistenze di Salvemini A mendala riconfermò il suo punto di vista che "nella fase attuale della questione tripolina" non vedeva cosa ci fosse da fare, e mentre Prezzolini era forse propenso ad accontentare Salvemini, Amendola riusd a persuaderlo a non lasciarsi trascinare sulla china e resistere a Salvemini "scontentandolo." 23 Di fronte all'intenzione di quest'ultimo di ritirarsi dalla Voce cercò di trattenerlo invitand alo ad occuparsi del suffragio universale, che poteva "essere facilmente dilazionato e seppellito " da una concentrazione liberale.24 Non erano questi gli argomenti che potevano persuadere Salvemini, il quale interruppe la colla21 EVA KHUN AMENDOLA, Vita àm Giovanni Amendola, Firenze, Parenti, 1960, pp. 297, 301. 22 G. PREZZOLINI, Il tempo della "Voce," cit., pp. 441 sgg. XIV 23 E. K. AMENDOLA, Vita con Giovanni Amendola, cit., pp. 300, 309. 24 Ibidem, p. 298. BibliotecaGino Bianco
Prefazione borazione alla Voce e fondò un settimanale, L'Unità, sul quale, insieme a molti altri -problemi concreti, poté, senza alcuna limitazione, sfogarsi a dimostrare la falsità di tutte le "corbellerie giornalistiche" che avevano circo-- lato abbondantemente in quell'anno. La questione libica quindi occupò largo spazio, e non soltanto l'aspetto economz·co, ma anche quello politico e quello dell'organizzazione futura. Ormai la politica estera occupava una gran parte dell'attività di Salvemini, poiché dopo l'impresa libica vennero le crisi balcaniche, con tutte le guestioni connesse alla futura sistemazione di quella regione, Albania com-presa, e cioè uno dei -problemi piu delirati dei rapporti nostri con l'Austria. Di conseguenza veniva sollevato anche il problema delle nostre alleanze, trattato largamente sulle pagine dell'Unità anche da altri, in particolare Ubaldo Formentini, ma sviscerato in tutti i suoi aspetti da Salvemini. Poi venne la guerra europea e durante i quasi dieci mesi della nostra neutralità, il -problema del nostro intervento in guerra a fianco dell'Intesa divenne il -problema -primo, se non l'unico. A questo -proposito vale la pena ripeiere quello che Un Unitario scrisse su La Rivoluzione liberale di Gobetti. "Data una mentalità come quella del Salvemini e di cui tutto l'indirizzo del suo g1:ornaleera stato sem-pre impegnato, scarsa efficacia potevano avere su di esra le frasi vaghe circa la necessità per l'Italia di non essere assente; e neppure potevano avere valore decisivo i motivi· sentimentali contro la crudeltà e la barbarie dei tedeschi invasori del Belgio. Occorreva, invèce, che, per agire, fossero esposti fini concreti e precisi, ispirati all'interesse dell'Italia, oltre che alle ragioni dell'umanità. E questi fini furono essenzialmente due .. Il -primo - e il piu decisivo - fu quello di impedire l'egemonia incontrastabile che la vittoria avrebbe dato alla Germania, egemonia che avrebbe _significato per l'Italia una vera schiavitu, data la mentalità tedesca d'anteguerra e aggi,untovi il fatto che saremmo stati trattati come traditori per non essere scesi in guerra al fianco dei tedeschi. Il secondo fine era quello di apprqfittare di una guerra - non da noi voluta né scatenata ma che avrebbe portata una nuova sistemazione nell'assetto territoriale dell'Europa, durevole per molti anni - per raggi,ungere i nostri confini naturali, riunire alla nazione gl'italiani ancora soggetti all'Austria, migliorare la nostra posizione strategica nell'Adriatico. Fissati questi fini, e ri'conosciuta la necessità di partecipare alla guerra, a fianco della Triplice Intesa per raggiungerli, il contegno dell'Unità non si confuse con quello di coloro che spinsero alla guerra mondiale con gli stessi motivi che L'Unità tanto aveva deplorati per la guerra libica ( rettorica, falsificazioni, calcoli piu che rosei sulla facilità e brevità della guerra)." 25 Allo scoppio della guerra mondiale si arrestano gli scritti raccolti in questo volume, ma ormai la politica estera era diventata uno degli interessi prevalenti di Salvemini. Durante la guerra mondiale se ne occupò ancora 25 Polemica interventista, in " La Rivoluzione liberale," 6 nov. 1923. xv BibliotecaGino Bianco
Prefazione dal punto di vista politico - rapporti con gli alleati, futura sistemaziont italiana alla fine della guerra, - ma intanto si faceva viva anche l'esigenza di un esame in sede storica della politica seguita dall'Italia nei decenni precedenti la guerra, e quindi si ebbe la serie di articoli sulla Triplice Alleanza, comparsi nel 1916 e 1917 nella "Rivista delle Nazioni latine." Poi alla fine della guerra con le prime pubblicazioni documentarie vennero lo studio della politica estera di Crispi,, le lezioni sulla Politica estera dal 1870 al 1914, quelli sul periodo della neutralità, e infine il Mussolini diplomatico. Augusto Torre XVI BibliotecaGino Bianco
Nota al testo Già Salvemini si era proposto di raccogliere gli scritti di politica estera ed aveva cominciato col farli copiare, ma il lavoro venne interrotto dalla sua scomparsa. In questo volume sono compresi, in ordine cronologico, gli scritti che via via comparvero nella Critica sociale, nel quotidiano milanese Il Tempo, ne La Voce, ne L'Unità, in altri giornali o in opuscoli separati. La raccolta termina al 28 maggio 1915. Sono stati omessi articoli che riguardano sopra tutto il movimento socialista e che troveranno posto in altri volumi; sono state omesse alcune polemiche spicciole sulla Libia, i cui argomenti si ritrovano in altri saggi, mentre sono stati riportati brevi stelloncini o postille, nelle quali si trovano motivi, che poi non compariranno piu. A volte brani di uno scritto ricompaiono in altri; ma in genere per non rompere l'organicità di un saggio, non è stata fatta alcuna omissione. Le ripetizioni vengono indicate volta per volta. Sono state riportate anche le aggiunte che Salvemini fece ad alcuni scritti raccogliendoli nel volume Come siamo andati in Libia. Si è ritenuto opportuno riprodurre anche lettere o articoli di altri, ai quali Salvemini fece seguire la sua risposta. Non è stato sempre agevole ritrovare i suoi scritti, dato che spesso egli ricorreva a pseudonimi, come UN TRAVET, TRE STELLE, RERUM SCRIPTOR, IL PESSIMISTA, per la Critica Sociale. Ne L'Unità poi, per evitare nei lettori l'impressione che uscisse prevalentemente dalla sua penna, si sottoscrisse, oltre che col suo nome, e la sua .. sigla, anche con: L'UNITA, AGRICOLA, OBSERVER, SH. Le diverse sigle vengono inçlicate volta per volta. Nel riprodurre gli scritti sono state corrette le sviste. Le note che non sono seguite d;i [N. d. C.] sono di Salvemini. L'indice dei nomi è stato curato da Franca Casadei e Paola Notario. Si ringrazia il dott. Gennaro Barbarisi che ha collaborato alla preparazione del volume. Per comodità del lettore, riportiamo l'indice completo del volume Come siamo andati in Libia, indicando fra parentesi quadre le pagine della presente raccolta dove si trovano ristampati gli scritti di Salvemini. A. T. CoME SIAMO ANDATI IN Lm1A, Firenze, Libreria della Voce, 1914. G. S., Prefazione. Perché siamo andati in Libia, pp. IX-XXIV [qui pp. 326-332]. Parte prima: La terra promessa. I. Giuseppe Ricchieri, Le pretese m101ere di zolfo, pp. 3-8; II. Vittorio Simonelli, Le miniere di fosfati, pp. 9-14 (Dall'Italia agricola del 15 gennaio 1912); XVII 2. t:j1011otecGaino Bianco '
Nota al, testo III. Carlo Maranelli, Fosfati, zolfo ed entusiasmo, pp. 15-22; (Da L'Unità del 24 agosto 1912); IV. G. S., Il carteggio Crispi: 1) Le prove della falsificazione, pp. 23-38 (Da L'Unità del 16 e 23 dicembre 1911, 13 e 27 luglio e 7 settembre 1912); 2) Ennio Quirino Alamanni, pp. 39-52; 3) Il caso Alamanni e il Ministro della Guerra, pp. 53-56; [ qui pp. 117-129, 199-205, 215-219, 225-228]. I nostri esploratori I. Carmelo Colamonico, L'on. Podrecca in Libia, pp. 57-65 (Da L'Unità del 31 agosto 1912); . II. G. S., Come si fabbrica una "terra promessa, " pp. 66-73 (Da L'Unità dell'8 giugno 1912); [qui pp. 183-187]; III. Carlo Maranelli, Il viaggio del Prof. Vinassa, pp. 74-81 (Da L'Unità del 7 settembre 1912); IV. La salubrità della" Libia italica," pp. 82-83 (Da L'Unità del 16 novembre 1912); [qui pp. 261-262]; V. Un geografo, Fino al lago Ciad, pp. 84-88 (Da L'Unità del 29 giugno 1912); VI. La Tripolitania dell'on. De Felice, pp. 89-90. Un'avanscoperta per ridere I. Eugenio Azimonti, Il programma dell'avanscoperta, pp. 96-98 (Da L' Unità del 24 febbraio 1912); II. Agricola, La relazione dell'avanscoperta, pp. '96-98 (Da L'Unità del 31 gennaio 1913); [qui pp. 298-300]; III. La passeggiata militare, pp. 99-103 (riproduzione di testimonianze di giornali). Parte seconda: L'illusione archeologica La Cirenaica nel!'antichità classica I. G. S., Erodoto e la Cirenaica, pp. 107-115 (Da L'Unità del 6 gennaio e del 17 febbraio 1912) [qui pp. 130-133 e 174-177]; II. Armando Ricci e Ferdinando Bernini, Le Res Cyrenensium di G. P. Thrige, pp. 117-121(Da L'Unità del 25 maggio 1912); III. Eugenio Vaina, La Cirenaica in Pomponio Mela, pp. 122-127 (Da L'Unità del 3 febbraio 1912); IV. Arcangelo Ghisleri, La colonizzazione greca in Cirenaica, pp. 128-132 (Da Il Secolo del 24 gennaio 1913) G. S., Il granaio del mondo, pp. 133-145 (Da L'Unità del 6 gennaio e 23 novembre 1912, 28 febbraio e 15 agosto 1913) [qui pp. 133-143]; Uno studioso di storia antica (Achille Coen), Le città della Tripolitania antica, pp. 147-154(Da L'Unità del 22 giugno 1912); Uno studioso di storia antica, La pretesa città di Ghiza, pp. 155-173; Leone Caetani, La Libia nelle parti arabe medievali, pp. 175-180 (Da L'Unità del 4 maggio 1912). Parte terza : Il valore della Libia Leone Caetani, Il pericoloso miraggio, pp. 181-190. Giuseppe Prezzo lini, L'inchiesta della Ito in Cirenaica : I. L'illusione tripolina pp. 191-200 (Da La Voce del 18 maggio 1911); II. La questione dell'acqua in Cirenaica, pp. 201-217 (Da La Voce del 17 agosto 1911); III. Quel che si poteva fare, pp. 218-222 (Da La Voce del 31 agosto 1911); IV. Il regime giuridico delle terre, pp. 223-228 (Da La Voce del 7 settembre 1911); Carlo Maranelli, Come fu discussa l'inchiesta della lto, pp. 229-241 (Da L'Unità del 21 settembre 1912); XVIII BibliotecaGino Bianco
Nota al testo Carmelo Colamonico, Il clima di Tripoli e Bengasi, pp 243-252 (Da Humanitas del 21 aprile 1912); Agricola, Le ricerche e studi agrologici sulla Libia della Commissione governativa, pp. 253-263 (Da L'Unità del 27 dicembre 1912 e 17 gennaio 1913) [qui pp. 286-289 294-298]; Carlo Maranelli, Nuove discussioni tripoline, pp. 265-276 (Da L'Unità del 16 e 23 gennaio 1914); Edoardo Giretti, La proprietà delle terre in Libia e il ministro Bertolini, pp. 227-281 (Da L'Unità del 24 gennaio 1913); G. Ricchieri, Il valore economico della Libia interna, pp. 283-287; G. S., Il valore militare della Libia, pp. 289-295 (Da L'Unità del 20 febbraio e 6 marzo 1914) [qui pp. 312-322]; G. S., Colonia e madre patria, pp. 299-311 (Da L'Unità del 13 gennaio e 6 luglio 1912) [qui pp. 143-152]. • • I XIX Biblioteca Gino Bianco
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" Come siamo andati in ubia " e al,triscritti dal 1900 al 1915 BibliotecaGino Bianco
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L'Irredentismo 1 L'anno scorso un deputato reazionario del Veneto, tenendo un discorso politico, dichiarò che grave errore era stato quello del Governo italiano di reprimere con troppo accanimento l'agitazione irredentista; infatti la gioventu, respinta dall'irredentismo, si dà al socialismo. Veramente si potrebbe osservare al reazionario veneto, che anche l'agitazione socialista è combattuta dal Governo con ben maggior violenza che l'agitazione irredentista eppure non scema, come l'irredentismo, ma aumenta geometricamente. La decadenza dell'irredentismo in Italia va dunque attribuita a cause indipendenti dalla avversione governativa. Ma questa critica generale alla opinione del reazionario veneto non distruggerebbe il significato recondito della opinione stessa; il quale è che l'irredentismo potrebbe benissimo, quando il Governo italiano sapesse approfittarne, diventare una pericolosa arma di combattimento, non solo contro il partito socialista, ma anche contro tutti gli altri partiti democratici. Supponiamo infatti che i partiti popolari italiani, compreso il socialista, met,tano nel loro programma, accanto alla democratizzazione dello Stato e alla abolizione dell'esercito stanziale, la rivendicazione dei cos1 detti confini naturali, e riescano a determinare nel paese un largo movimento favorevole al loro programma democratico, antimilitarista e irredentista. Supponiamo che questo movimento raggiunga tale forza da minacciare seriamente l'attuale governo reazionario e militarista. Il partito monarchico non avrebbe in questo caso che da tentare un piccolo giochetto per rovinare per mezzo secolo i partiti democratici e per consolidare per altrettanto tempo le santissime istituzioni: accettare parte del programma democratico; buttarsi all'irredentismo e dichiarare magari la guerra all'Austria. ll trabocchetto, in cui i partiti democratici andrebbero a stroncarsi le reni, sarebbe per tal modo bell'e formato. Per rivendicare i confini naturali ci vuol la guerra; per far la guerra bisogna andar d'accordo con la casta 1 Pubblicato in " Critica sociale," a. X. n° 1, 1 gennaio 1900, pp. 4-7, a firma UN TRAVET. [N.d.C.] 3 BibliotecaGino Bianco
"Come siamo andati in Libia" e altri scritti dal 1900 al 1915 militare, accarezzarla, 'rinforzarla; per fare l'irredentismo bisogna rinunziare alla democrazia e all'antimilitarismo. E i partiti democratici, spinti dalla logica delle cose, dovrebbero seguire il partito monarchico sul terreno del militarismo. Quando l'on. Barzilai dice che sarebbe pronto a vota- ·re le spese militari presenti, e anche spese maggiori, purché esse fossero rivolte contro l'Austria, non fa se non ripetere sotto altra forma un'idea espressa dall'on. Imbriani nel gennaio del 1891. Nel sorteggio della Commissione incaricata di portare a Corte gli auguri di capo d'anno, era venuto fuori il nome dell'Imbriani; che farà? farà la scortesia di non andare? Lo Imbriani non andò; ma scrisse una lettera, in cui prometteva che sarebbe andato a far gli auguri a Umberto quando il ricevimento fosse stato dato a Trieste e non a Roma. Qualora dunque il Governo accettasse il programma irredentista, noi vedremmo tutti i repubblicani e i democratici irredentisti correre, come un gregge di montoni, dietro ai nostri generali; tutte le questioni interne verrebbero messe in silenzio; unico obbiettivo della politica democratico-governativa-militarista la conquista delle frontiere naturali. Si fa la guerra. Si vince? apparentemente il partito democratico ha riportato un gran successo, ma appena chiuse le questioni esterne, cercherà rivolgere la sua attenzione alle questioni interne, troverà al servizio del partito conservatore un esercito cresciuto in popolarità e in prestigio e delle istituzioni monarchiche consolidate dalla vittoria militare. Le riforme interne son diventate impossibili o per lo meno incontrano resistenze, che prima non esistevano; i fratelli irredenti di Trento e Trieste vengono ad essere piu che mai irredenti nei confini naturali. Si perde? chi ha voluto la guerra? il partito democratico; esso ha rovinato il paese; abbasso i democratici! In caso di guerra democratica contro l'Austria, il partito conservatore ci guadagnerebbe forse piu da una sconfitta che da una Yittoria. In ogni modo, qualunque sia il risultato della guerra, il partito conservatore~ troverà sempre in esso la sua salvezza, e il partito democratico la sua rovrna. * Tutte queste sembreranno probabilmente, a parecchi lettori, pure e semplici fantasticherie. Ma, se voltiamo indietro il capo, troviamo che altre volte l'irredentismo ha rovinato la democrazia italiana. Questo è avvenuto nel 1848 e nel 1849. L'agitazione democratica mazziniana ha avuto, durante la storia del Risorgimento italiano, due scopi contemporanei: la conquista delle libertà interne e la cacciata dell'Austria dall'Italia. I mazziniani non trovarono fino al 1848 misericordia presso i principi e presso l'aristocrazia italiana; il desiderio di libertà era delitto, la guerra contro l'Austria, pazzia. Ancora nel 1846 Cesare Balbo scriveva che la liherazione del Lombardo-Veneto si sa4 BibliotecaGino Bianco
L'Irredentismo rebbe avuta solo quando fosse caduto l'Impero turco, e l'Austria, estendendosi verso oriente, avesse dovuto, per non turbare l'equilibrio europeo, rinunziare ai dominì italiani; e fin nel settembre del 1847 Massimo D' Azeglio dichiarava che la liberazione delle provincie italiane soggette all'Austria si doveva aspettare dal lontano avvenire. Ma intanto il movimento liberale, al quale. Pio IX aveva dato senza volerlo la spinta, si era andato nel 1847 intensificando; sui primi del '48 il partito rivoluzionario appariva in Italia padrone della situazione. I nobili moderati capirono che i loro privilegi erano seriamente minacciati e si buttarono subito a fare una !)ropaganda di odio feroce contro l'Austria. Il principe piu minacciato dalla rivoluzione, perché confinante e.on la Francia e con la Svizzera e perché il piu reazionario di tutti, era Carlo Alberto; l'aristocrazia piu di tutte reazionaria e carica di privilegi era la piemontese. Centro del movimento irredentista fu il Piemonte e capo del movimento il marchese Massimo D'Azeglio. Il 12 'gennaio del 1848 Palermo insorgeva e la rivoluzione vittoriosa si estendeva a Napoli, e tutti i principi italiani erano obbligati per contraccolpo a dare delle costituzioni; e subito Massimo D'Azeglio, prendendo occasione dalle repressioni avvenute a Milano sui primi di gennaio, pubblicava un opuscolo violentissimo (I lutti di Lombardia) e proclamava che l'ora era venuta di scacciare dall'Italia i barbari. I democratici naturalmente andarono in visibilio; si strinsero tutti intorno ai moderati e cominciarono a gridare da tutte le parti: concordia, concordia! Bisognava preparare la guerra contro l'Austria, raccogliersi quindi intorno ai principi, incoraggiarli alla lotta, non spaventarli con richieste importune di libertà; bisognava far un fascio di tutte le forze per conquistare l'indipendenza e lasciare impregiudicata la questione delle libertà interne. Giuseppe Ferrari, che allora viveva in Francia, comprese il tranello, in cui il partito democratico si preparava a cadere, e il 10 gennaio 1848 - si noti la data - pubblicava nella Revue lndépendante un articolo intitolato: ,La rivoluzione e le riforme in ltalia.2 Gravissimo errore dei democratici e disegno di tradimento nei moderati, egli diceva, è l'abbandonare il movimento rivoluzionario per ottenere le libertà interne e darsi a predicare la concordia fra principi e popoli per far la guerra all'Austria.• La prima conseguenza sarà il dover subire la dominazione dei principi, dei loro amici, dei loro cortigiani, dei loro generali; la rivoluzione scomparirà e tutta la questione si ridurrà a soddisfare le ambizioni territor~ali di un principe. La guerra contro l'Austria servirà a moderare la rivoluzione all'interno. I Ieri la Corte di Torino era alleata dell'Austria, oggi se ne stacca; scoppi la riyoluzione, suoni l'ora del combattere, la Corte assolutista ricadrà atterrita nell'alleanza austriaca, salvo poi accarezzare .la rivoluzione se questa non fallisce che per metà. La Coste 2 Opuscoli politici e letterari, Capolago, Tipografia Elvetica, 1852, pp. 367 sgg. I • 5 BibliotecaGino Bianco
" Come siamo andati in Libia " e altri scritti dal 1900 al 1915 di Torino scherza coll'agitazione. ancora inoffensiva, e garbatamente la prega a parlare d'indipendenza e niente affatto di libertà. È agevole intenderla: l'indipendenza è la conquista della Lombardia. L'idea dell'indipendenza anticipata svia i liberali piemontesi: affezionati al loro re, lo rappresentano qual futuro liberatore militare dell'Italia; vogliono conquistare l'indipendenza italiana, per poscia terminare la questione interna siccome una querela domestica. Sventuratamente il tempo incalza, i liberali non pongonsi in condizione di combattere; non sono padroni della loro indipendenza personale; come mai potrebbero conquistare l'indipendenza d'una nazione? Conquistino adunque la propria loro libertà, e cancellino le secolari vergogne del Piemonte! Si ostinano i liberali nel cercare una vana indipendenza differendo la libertà? Falliranno l'una e l'altra. . E spiegava che la sola tattica utile alla democrazia era quella di provocare delle rivoluzioni nei singoli stati italiani; cosi si dava un terribile esempio di sovversione ai lombardo-veneti, e l'Austria avrebbe dovuto o fare anch'essa delle concessioni o capitolare innanzi a un'insurrezione popolare. Ma le parole di Ferrari furono buttate al vento. I democratici, messisi una volta fuori strada, non capivano piu nulla; essi non sapevano che gridare: morte agli austriaci, fuori i barbari; e dimenticavano che i barbari non stavano solo nelle provincie soggette all'Austria, ma anche nella Corte, nei tribunali, nei reggimenti, negli uffizi di polizia di Carlo Alberto. Scoppia a un tratto l'insurrezione delle Cinque Giornate. Le strade di Torino si riempiono di popolo che domanda al Governo che accorra in aiuto dei milanesi; il Governo scioglie le dimostrazioni, impedisce ai giovani di correre in aiuto di Milano, assiste alla insurrezione sperando che venga repressa. Il popolo di Torino si raduna all'armeria e cerca di fornirsi d'armi; è la rivoluzione pronta a scoppiare; Brofferio e Sineo, democratici, vengono a calmare la folla e ad assicurarla che il Governo farà la guerra. Nello stesso tempo Carlo Alberto faceva assicurare l'ambasciatore austriaco della sua amicizia; la posizione di Milano appariva disperata e "la Corte assolutista ricadeva atterrita nell'alleanza austriaca." Il 23 marzo arrivava la notizia della liberazione di Milano; bisogna "accarezzare la rivoluzione se questa non fallisce che per metà." Carlo Alberto si dichiara pronto a fare la guerra all'Austria per liberare la Lombardia: i democratici vanno in visibilio, applaudono pazzamente; Mazzini si dichiara pronto a tutto sacrificare per l'indipendenza, invita gli amici a dimenticare le questioni interne per raccogliere tutti gli sforzi contro l'Austria. E intanto, il 23 marzo stesso, Carlo Alberto dichiarava al rappresentante inglese e all'austriaco che egli prendeva le armi solo per impedire il sorgere della repubblica in Lombardia e in Piemonte. Lo scopo per la Lombardia fu ottenuto. Carlo Alberto si baloccò per quattro mesi sul Mincio, si lasciò sconfiggere a Custoza, consegnò Miiano agli austriaci e ritornò dond'era venuto, dietro il Ticino. Il pericolo di una repubblica in Lombardia era evitato. Restava tuttora il pericolo in Piemonte. La guerra del 1848 era stata fatta sotto la responsabilità del Ministero conservatore_;perciò, dopo Custoza, 6 BibliotecaGino Bianco
L'Irredentismo il partito democratico estese in Piemonte la sua influenza; Genova era in ebullizione, in Toscana e negli Stati romani sorgevano due repubbliche; l'esempio pareva dovesse esser imitato in Piemonte. Ma c'era sempre la valvola di sicurezza contro l'Austria. Questa volta Carlo Alberto prese per ministri dei democratici e si dichiarò pronto a rinnovare la guerra con l'Austria. Invano Giuseppe Ferrari ripeteva nel febbraio del '49 i suoi insegnamenti alla democrazia : Tu hai due nemici a com9attere, interno l'uno, esterno l'altro: li assali l'un dopo l'altro. L'Austria è al di là del Po e del Ticino: bisogna dimenticarla. Comincia combattendo il nemico interno. Non anticipare la guerra sulla rivoluzione, non differire la libertà per riguardi all'indipendenza, ecco l'unico principio che deve sciogliere i problemi dell'Italia. 3 Parole inutili! I democratici piemontesi erano piu accecati che mai nell'odio contro l'Austria. A preparare la guerra davano al Ministero pieni poteri; e il Ministero non faceva nulla per la guerra e si serviva dei pieni poteri per prendere provvedimenti, coi quali rinforzava all'interno la posizione dei militari e dei conservatori. Finalmente si rompeva la guerra in marzo del '49. A Mortara e a Novara la massima parte dell'esercito si rifiutò di combattere, e gli austriaci ebbero facile vittoria. Ora finalmente i democratici nazionalisti piemontesi si ricordarono che, oltre alla guerra esterna, c'era da fare una rivoluzione interna e insorsero a Genova. Ma era troppo tardi: discreditati dal disastro di Novara, del quale era naturale addossare ad essi la responsabilità, essi non erano piu in grado di trascinarsi dietro un popolo accasciato dalle sventure. Dopo la disfatta di Novara il partito conservatore ebbe agio di riconquistare tutte le posizioni perdute dopo la sconfitta di Custoza, e il dominio del Piemonte rimase indiscusso nelle sue mani fino ai giorni nostri. * Ognuno vede quanto la politica nazionalista, seguita dalla democrazia nel 1848 e '49, sia somigliante a quella, in cui gli irredentisti vorrebbero trascinare la democrazia ai giorni nostri. Finché l'irredentismo fosse fatto dai monarchici, non ci sarebbe nulla da ridire: per essi questioni interne in Italia non ne esistono e chi dice il contrario è un sovversivo; sotto le nostre beneamate istituzioni tutto va bene nel migliore dei modi possibili e chi dice il contrario bisogna mandarlo in galera; l'Italia è libera, l'Italia è ricca, l'Italia è felice, e chi dice il contrario bisogna fucilarlo. Unire quindi alla nostra cara Italia i fratelli di Trento e di Trieste vuol dire metterli in grado di godere anch'essi di tutte le gioie e delizie delle nostre istituzioni monarchiche. 3 Opuscoli, pp. 120, 133. 7 BibliotecaGino Bianco
,,. ·• Come siamo andati in Libia" e altri scritti dal 1900 a! 1915 Ma ai democratici e ai repubblicani, i quali non fanno se non protestare contro il malgoverno dei nostri padroni e nello stesso tempo piangono a calde lacrime sulla sventura dei fratelli irredenti perché non sono sudditi dei padroni sullodati, oggi come nel '48 si possono rivolgere le parole del Ferrari: Prima di andare a liberare gli altri, cominciate dal liberare voi stessi! conquistate adunque la vostra propria libertà e cancellate le secolari vergogne dell'Italia! Di irredenti al di qua dell'Isonzo non ce ne sono forse abbastanza, perché vi assumiate la protezione degli irredenti del di là· dell'Isonzo? La perfetta analogia fra il movimento nazionalista democratico del '48 e '49 e il movimento irredentista piu o meno pseudo-repubblicano dei giorni nostri appare ancora piu evidente, quando si studi l'atteggiamento dei partiti di fronte alla quistione nazionale nel '48 e oggi. Mezzo secolo addietro, nel Piemonte - che dai conservatori e dai democratici tre volte buoni veniva proclamato la terra redenta per eccellenza, nonostante il gesuitismo, il militarismo, le esecuzioni capitali, la corruzione amministrativa, giudiziaria e poliziesca, la prepotenza di una aristocrazia cocciuta e degenere come... la moderna - nel Piemonte il partito conservatore fu alleato fedele dell'Austria fino al 1848, salvo diventare a un tratto antiaustriaco per salvare la propria posizione, e il partito democratico spasimava di odio contro l'Austria. Cosi oggi in Italia - il paese redento, secondo il parere degli irredentisti, nonostante gli stati d'assedio, i -frezzamenti, i processi Notarbartolo e le guerre africane - il partito monarchico è alleato del1' Austria, salvo far dell'irredentismo all'acqua di rose nella Società "Dante Alighieri" e far di tanto in tanto l'occhiolino dolce agli irredentisti anche se repubblicani (?); viceversa molti democratici - non possiamo dire tutto il partito, perché non lo conosciamo - guardano l'Austria come l'orco e compiangono i poveri triestini oppressi dal feroce dispotismo dei croati. È vero che a Trieste gli italiani fanno dimostrazioni, tengono comizi, dicono corna del Governo nel Consiglio municipale e non sono sciolti; questo non vuol dire; l'on. Barzilai dice che i triestini sono irredenti e solo abbracciando i regnicoli potrebbero redimersi; e chi non gli crede è un uomo che "sottomette ai vili pregiudizi economici le alte idealità morali della nazione. " Nel 1848 l'atteggiamento dei partiti si capovolgeva appena si entrava nei paesi austriaci. Nella Lombardia e nel Veneto i nobili reazionari erano tutti ammiratori delle istituzioni piemontesi, e ambivano solo cacciar via l'Austria per impadronirsi essi del Governo, protetti dall'esercito piemontese - è precisamente ciò che avvenne nel 1859 -; ma i democratici invece, rappresentati splendidamente dal Cattaneo, se la sentivano poco coll'Austria, ma se la sentivano ancor meno col magnanimo Carlo Alberto. E sfido io l'on. Barzilai a dar loro torto! Per quanto i lombardi fossero irredenti, essi non avevano in casa i gesuiti, non avevano assistito a nessuna esecuzione capitale dal 1814 al 1848, avevano un buon sistema comunale e provinciale, ottime leggi civili, una relativa tolleranza nella stampa; precisa8 BibliotecaGino Bianco
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