Giorgio Levi Della Vida
Ho litigato coll'imperatore
da Fantasmi ritrovati, Neri Pozza, Venezia 1966
Andare da Croce, avere una conversazione con Croce era per me una festa, e pregustandone il piacere quasi dimenticavo di essere incaricato di una missione specifica e ben definita, mentre mi avviavo verso il Senato, dove mi aveva dato appuntamento per la mattina del giorno in cui nel pomeriggio si sarebbe votato sulle dichiarazioni di Mussolini: il 25 o 26 giugno. [...] Da quel voto dipendevano le sorti del Governo, dipendevano anche, come conseguenza necessaria e fatale, le sorti d’Italia. Mi sorrideva ancora la speranza che il Senato desse voto contrario, sopra tutto se la massa degli incerti [...] si fosse lasciata rimorchiare dal gruppo che aveva appunto in Croce uno dei suoi membri più eminenti e che si distingueva dal gregge incolore per una certa tendenza a ragionare colla propria testa. Sapevo, è vero, che fin dall’inizio del movimento fascista Croce non gli era stato contrario, che aveva approvato tanto la chiamata di Mussolini a capo del governo quanto i primi provvedimenti del suo ministero. [...] Che questa, chiamiamola così, benevola aspettazione fosse stata alquanto scossa dal delitto Matteotti appariva molto verosimile, per quanto Croce stesso non avesse fatto alcuna dichiarazione pubblica sull’assassinio (nemmeno più tardi, del resto, lo ha menzionato tra i motivi del suo passaggio all’opposizione). Comunque, la mia, più che curiosità, ansietà di conoscere la sua opinione era grande.
La mia conoscenza di Croce era di vecchia data. Appena stabilitomi a Napoli alla fine di gennaio del 1914 gli ero stato presentato da un amico comune ed ero subito divenuto assiduo di quei deliziosi ricevimenti domenicali a casa sua, dove ogni ospite faceva quello che voleva e s’intratteneva con chi gli piaceva, mentre lui, in piedi dietro un’immensa tavola, andava prendendo in mano ora un libro ora un opuscolo ora una rivista e ne dava un breve commento e un rapido giudizio, qualche volta formulato con un’osservazione ponderata, altre volte invece compendiato in un frizzo pungente accompagnato dalla sua risata larga e dal veloce ammiccare delle palpebre. E divagava con ricordi, con citazioni, con aneddoti, i quali ultimi, per lo più relativi alle piccinerie e alle bizze degli intellettuali italiani oppure alla Napoli del passato e del presente, raccontava con una stupefacente precisione di nomi, di date, di circostanze, come se meritassero altrettanta attenzione quanta un venerabile documento storico o letterario.
[...]
Benché fossero passati ormai tre anni dal nostro ultimo incontro, Croce mi aveva conservato, evidentemente, la sua benevolenza, poiché mi ricevette con premurosa cordialità. Seduto sull’orlo di un divano in uno dei salottini di ricevimento di palazzo Madama, con una delle gambe troppo corte e troppo sottili distesa e l’altra ripiegata sotto questa, così da porle a sostegno all’addome alquanto prominente (era la postura abituale di Cavour, ma sono certo che non vi era da parte di Croce nessuna deliberata imitazione...), si preparava ad ascoltare quello che avevo da dirgli. Ma fin dalle prime parole la sua risposta sonò amara delusione. «Abbiamo discusso lungamente nel nostro gruppo la posizione da assumersi di fronte alle dichiarazioni di Mussolini» disse «e abbiamo deciso di dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci, fiducia condizionata. Nell’ordine del giorno che abbiamo redatto è detto esplicitamente che il Senato si aspetta che il Governo restauri la legalità e la giustizia, come del resto Mussolini ha promesso nel suo discorso. A questo modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a negargli la fiducia se non tiene fede alla parola data. Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento opportuno, e questo momento potremo sceglierlo noi, giacché la permanenza di Mussolini al potere è condizionata al nostro beneplacito».
Non potevo credere alle mie orecchie. E l’indignazione fu tanta da annullare in me ogni freno di rispetto e di venerazione: coll’indice accusatore teso verso di lui e colla voce alterata dall’emozione proruppi in questa concitata invettiva: «Come mai non v’accorgete che nella vostra condotta si uniscono sofisma e ingenuità? Il fascismo è stato un bene? un bene la violenza, le purghe, le bastonature, gli incendi, gli assassinii? un bene la continuazione dell’illegalità protetta, dopo che l’ascesa al potere dava a Mussolini la possibilità oltre che il dovere di stroncarla? E se è stato un bene, perché dovrebbe ora essere diventato un male? Forse per l’uccisione di Matteotti? Ma essa non si distingue dalle precedenti se non per la qualità di deputato della vittima e per la tecnica del ratto in pieno giorno: non da quella, poniamo, di don Minzoni. La realtà è diversa. La realtà è che voi, Croce, e con voi tanti altri, avete plaudito entusiasticamente al fascismo passando sopra alle sue infrazioni della moralità con uno "storicismo” un po’ sbrigativo, perché avete veduto in esso la salvezza dal paventato trionfo del comunismo, perché esso difendeva, nella carenza dello Stato del quale invocavate invano l’intervento, gli interessi dei "benpensanti”, vale a dire dei benestanti. Quando si farà la storia degli anni 1919-1921 si vedrà che un vero pericolo di rivoluzione in Italia non è mai esistito; si vedrà che, a parte la spiegabile infatuazione di qualche esaltato e gli altrettanto spiegabili, se anche non giustificabili, episodi di violenza che furono l’inconsiderata reazione alla prolungata compressione dei diritti delle masse operaie e alla dura e spesso irragionevole e arbitraria disciplina militare; a parte tutto ciò gli scioperi e le agitazioni hanno avuto cause economiche e la richiesta di salari più alti corrispondeva al normale aumento dei profitti dei datori di lavoro, anzi rimaneva molto al disotto di essi; per tacere del fatto che scioperi e agitazioni erano già in via di diminuzione e prossimi a cessare del tutto quando insorse la violenza fascista, la quale ebbe così agio di menar vanto della propria vittoria contro un nemico che non c’era più. Questa folle paura, che faceva immaginare l’Italia ridotta a breve scadenza a essere uno stato di stretta osservanza bolscevica, io non l’ho avuta, ma l’ho veduta diffondersi intorno a me [...] E voi, Croce, grosso proprietario terriero, critico del marxismo e liberista in economia, teorico di una libertà che non si preoccupa dei mezzi di sussistenza di coloro che dovrebbero goderne, sostenitore a Napoli di un’amministrazione municipale costituita da una coalizione di destra che s’intitolava profeticamente "Fascio dell’ordine”, avete avuto paura anche voi, e la paura vi ha indotto a rinunciare al vostro consueto acume critico e a prestar fede al mito dell’imminente rivoluzione bolscevica; vi siete fatto rimorchiare dall’aperto filofascismo dei nazionalisti, coi quali avevate flirtato più di una volta; e non avete riflettuto che, aperta la porta all’illegalità e alla violenza, non sarebbe più stato possibile richiuderla. E ora che la paura vi è passata e che vi state accorgendo da che parte sta il pericolo vero, ora mi venite a raccontare che il voto favorevole del Senato condiziona Mussolini, che lo tiene prigioniero, che sarete voi, Senato, a scegliere il momento più opportuno per mandarlo a casa! Si può essere più ingenui di così? Ma non v’accorgete che col vostro voto date a Mussolini la pausa della quale ha bisogno per riprendere il controllo del paese che è in via di sfuggirgli, per riorganizzare il suo partito che sta disgregandosi? Durante le vacanze estive, sottratto a qualunque controllo parlamentare, avrà agio di emanare quanti decreti legge gli piacerà per legare le mani all’opposizione e per spianare la via all’avvento della dittatura legalizzata. [...] V’illudete di tenerlo prigioniero, di essere in grado di controllare e determinare la sua condotta futura. E in che modo lo farete? Se non mantiene le promesse fatte (e c’è da scommettere che non le manterrà) avrete forse l’ardire di convocarvi in sessione straordinaria per condannare la sua politica o addirittura per metterlo in stato d’accusa? Sarebbe un atto rivoluzionario, di fatto se non di nome, al quale non so quanti di voi si sentano preparati: i senatori, in genere, sono amici del quieto vivere. Che ve ne rendiate conto o no, col vostro voto di fiducia voi fate gettito dell’ultima carta che potrebbe giocarsi dagli organi costituzionali dello Stato, voi perdete l’ultima occasione di restaurare, non a parole ma di fatto, la giustizia e la libertà delle quali il fascismo ha fatto scempio e delle quali continuerà a fare scempio in avvenire, grazie a una vostra complicità della quale sarà diffìcile che, domani, la storia vi assolva».
Ho litigato coll’Imperatore: in sogno in sogno, si capisce; alle Lor Maestà con tal candore parlar, da desti, non si ardisce.
Questa deliziosa quartina della Germania di Heine si addice a puntino al caso mio, giacché, come il lettore emunctae naris ha già capito, non una sillaba fu pronunciata della fiera rampogna trascritta qui sopra, che rimuginai fra me e me nel tornarmene a casa, forse con qualche differenza testuale, ma sostanzialmente identica. Il timore reverenziale fu, naturalmente, quello che in prima linea m’impedì di parlare, ma a esso si aggiunse, lo rammento molto bene, la sensazione precisa che ebbi, che parlare sarebbe stato assolutamente tempo perso, e che Croce, mente eccelsa nel campo del pensiero teoretico, sul piano pratico della politica valeva poco o nulla. Che di ciò egli stesso si sia reso conto più tardi (dell’errore commesso, se non pure delle sue cause profonde, ebbe ad accorgersi quasi subito) fa onore alla sua intelligenza; fa onore alla sua onestà che l’abbia candidamente riconosciuto in poche ma definitive parole che, se non erro, appartengono all’ultimo periodo della sua vita: «... fascismo, che considerai, a dire il vero poco accortamente [il corsivo è mio], un episodio del dopoguerra, con alcuni tratti di reazione giovanile e patriottica, che si sarebbe dissipato senza far male e anzi lasciando dietro a sé qualche effetto buono. Non mi veniva lontanamente nel pensiero che l’Italia potesse farsi togliere dalle mani la libertà, che le era costata tanti sforzi e tanto sangue e si teneva dalla mia generazione un acquisto per sempre. Ma l’inverisimile accadde...». Se la grandezza dell’uomo non facesse sonare irriverente il paragone colla vecchietta proverbiale, verrebbe voglia di esclamare, come Huss sul rogo: Sancta simplicitas! [...]