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Arturo Colombo

Appello alla ragione in piazza e sulla scena. Anticonformismo e intransigenza di Nicola Chiaromonte

Corriere della Sera, 4 giugno 1976


Nicola Chiaromonte resta ancora un italiano da scoprire, una di quelle figure -sempre più rare- di intellettuali intransigenti e severi, che si sono rifiutati di piegarsi alle facili (ma equivoche) lusinghe delle «mode», convinti che il dovere dell'uomo di cultura sia quello di fuggire; a tutti i costi, il pericolo di ripetere, come diceva Julien Benda, il tradimento dei chierici.
Chiaromonte è morto da quattro anni; ma adesso un contributo certamente decisivo a favore di quest'opera di necessaria valorizzazione del suo forte talento e del suo impegno di scrittore lo offre l'iniziativa di pubblicare col titolo «Scritti politici e civili» (Bompiani, pp. 343, L. 6000) la raccolta delle pagine più caratteristiche, che segnano il suo itinerario, dalla giovanile adesione al gruppo di «Giustizia e libertà» fino agli interventi, lucidi e penetranti, su «Tempo presente», la rivista da lui fondata insieme a Ignazio Silone.
Sono tre i motivi di fondo, che emergono e legano insieme questi saggi, dove domina «un'intransigenza estrema» e una fedeltà costante ai «valori dello spirito», che Leo Valiani mette bene in luce nelle pagine introduttive, tracciando un vivido profilo di Chiaromonte e del suo coraggio nei momenti duri della lotta (nel 1934, non ancora trentenne, aveva dovuto fuggire in Francia, nel '36 era stato in Spagna a combattere, «dalla parte della repubblica», nella squadriglia aerea comandata da Andre Malraux, poi era andato in Algerla e in Marocco nel periodo terribile della guerra). Primo: il fascismo aveva trovato subito nel giovanissimo Chiaromonte un avversario irriducibile, che del regime non respingeva soltanto gli obbiettivi politici ma, soprattutto, non poteva sopportare «l'asfissiante demagogia», la «morale bassezza», e quella «imposizione d'una idolatria oscena» destinata a metter capo allo stato tirannico e totalitario, in completa antitesi con la tradizione di difesa e garanzia dei diritti del cittadino, di cui il risorgimento e il sistema liberal-parlamentare avevano dato esempi concreti.
Vitalità
Da qui il suo richiamo all'antifascismo eroico e protestante di Gobetti e la sua adesione a quel movimento internazionale libertario che trovava un simbolico punto di confluenza nelle proposte del socialismo liberale di Carlo Rosselli. Da qui la sua collaborazione, insieme a uomini come Salvemini o Lussu, Salvatorelli o Trentin, Foa o Ginzburg, ai famosi «quaderni», che Rosselli stampava clandestinamente all'insegna dell'imperativo «insorgere per risorgere», come diceva il motto perentorio di «Giustizia e libertà».
Secondo: se il rifiuto della violenza era stato il motivo dominante della battaglia civile o culturale di Chiaromonte «la morte si chiama fascismo» dirà nel '35 in un saggio acutissimo, dove vibrava l'eco del «non mollare di Salvemini», le successive polemiche che avrà coi comunisti, specie durante il periodo della «guerra fredda», trovano nella implacabile denuncia dello stalinismo e dei suoi orrori un punto di riferimento, tanto più impavido e appassionato, appena si considera che Chiaromonte è sempre rimasto fedele alla linea laica e progressista di quella sinistra democratica, di cui sono stati coerenti portavoci «II Mondo» di Pannunzio. e «L'Espresso» di Benedetti.
Del resto, il lungo soggiorno americano, durante e dopo gli anni del conflitto, gli aveva messo addosso una singolare dote di anticonformismo, che rimane tutt'oggi uno dei segreti della vitalità della sua lezione di intellettuale di razza, che non si lascia incantare né sedurre dalle false ricette dei manichei di qualunque colore; anzi, dalla drastica condanna di tutte «le rivolte prive di senso e le rivendicazioni idiote» (a cominciare dal maccartismo) trae spunto per un costante appello alla ragione, tipico di un neo-illuminista quale fu Chiaromonte fino all'ultimo giorno (e infatti, ogniqualvolta si accorgeva di quanto fosse rischioso perdere l'indipendenza e l'autonomia individuale nel grigiore del qualunquismo inerte, si affrettava a respingere gli ingranaggi alienanti di qualunque potere illiberale, e a ripetere contro le gelide prospettive del sonno della ragione che «dalla caverna non si esce in massa, ma solo uno per uno»: come a dire che per salvarci, gli spazi di libertà dobbiamo conquistarceli da soli, senza attese messianiche né miraggi di palingenesi).
Diritto al dubbio
Terzo: l'abitudine, anzi la forma mentis di parlare chiaro, specie in un paese come il nostro dove si preferiscono le parole sfumate e le perifrasi ammiccanti, può dare l'impressione che Chiaromonte fosse un personaggio difficile, o addirittura scomodo. E invece, malgrado l'estremo riserbo del suo temperamento sensibilissimo, proprio l'esperienza internazionale gli aveva dato un'apertura e una «coscienza europea» che mantengono attuali i tanti richiami dei suoi scritti etico-politici, e che si avvertono anche nella specifica attività di Chiaromonte come critico militante.
Non intendo -è ovvio- arrogarmi competenze che sono dell'amico Roberto De Monticelli. Ma anche un profano, a leggere le pagine di un altro libro di Chiaromonte, appena uscito col titolo «Scritti sul teatro» (Einaudi, pp. 293, L. 8000) si accorge che i motivi della polemica contro i piccoli orizzonti nazionalistici e autarchici non mancano di fare da sfondo anche a quella che per un ventennio (dal 1953 al '68 sul «Mondo», e poi su «L'Espresso») è stata la sua costante «fatica» di critico drammatico, di cui Mary McCarthy ci lascia una bella immagine nel saggio introduttivo.
Che affronti Cecov. Ibsen o Pirandello (sottolineando «il mirabile gioco» fra personaggi e attori, anzi fra «personaggi-fantasmi e attori-realtà», oppure faccia l'elogio di Beckett e di lonesco, o denunci le «contraddizioni grossolane» di Brecht, si sente che Chiaromonte non sopporta né gli artifici gratuiti né gli istrionismi ambigui o pseudo-stravaganti: che esistono in teatro, ma che deturpano anche la scena del nostro vivere quotidiano...
E questa lezione di coerenza e di stile riflette il suo ideale serio e severo dell'intellettuale, che non si chiude nel guscio del proprio egoismo e neppure ap-plaude a! padrone di turno, ma rivendica ogni volta -come Nicola Chiaromonte ha sempre saputo fare- «il diritto al dubbio e alla critica, il senso del vero e del falso, il rifiuto delle menzogne inutili».
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