Francesco Papafava
Così nacque "Noi Giovani" di Nello Rosselli e Gualtiero Cividalli
A Firenze, nel gennaio-giugno 1917
Estratto da Nuova antologia - n. 2221, gennaio-marzo 2002, Firenze, Le Monnier
Nel libro di Alessandro Levi, Ricordi dei fratelli Rosselli (Firenze, 1947) è ricordato che «in un certo giornaletto poligrafato, che s'intitolava 'Noi Giovani' ed era fatto da alcuni studenti delle scuole secondarie fiorentine, e del quale - s'intende - i quasi soli lettori erano coloro stessi che vi collaboravano, appare qualche articolo di spicciola sociologia e politica, che era firmato Civis: era lo pseudonimo di Carlo Rosselli. Chi potesse avere fra le mani questi modesti foglietti, forse delle primizie del poco più che adolescente scrittore, potrebbe trarre qualche indicazione intorno ai suoi futuri orientamenti. Ma io non ho tale fortuna: ignoro se anche una sola copia d'un solo numero di quell'effimero giornaletto si sia potuta sottrarre al fuoco e all'oblio».
Una copia originale di «quei modesti foglietti», si trovava fino al febbraio 2001 nella casa di Bona e Lia Cividalli a Ramat Khen, un borgo-giardino della municipalità di Ramat Gan, satellite di Tel Aviv. Si tratta di sei numeri (due quartini 32 x 21,5 ciascuno al prezzo di cent. 15, stampati nello Stabilimento Tipografico Attilio Vallecchi, pertanto non «poligrafati») usciti regolarmente dal gennaio al giugno 1917 e preceduti da un «numero doppio straordinario», non numerato, del dicembre 1916: 16 pagine di un formato più piccolo, queste sì poligrafate; saranno ripetute (meno l'inizio di una novella che non avrà più séguito) nel successivo numero uno. Li aveva conservati il loro padre, Gualtiero Cividalli, promotore insieme a Nello Rosselli del periodico studentesco. Oggi, grazie a Paola, Piero, Bona, Gabriel e Lia, figli di Gualtiero, si possono leggere alla Fondazione Giovanni Spadolini.
I lettori non dovettero limitarsi a «coloro stessi che collaboravano» al mensile, perché gli abbonamenti semestrali, acquisiti col «numero doppio straordinario» (si tratta del n. 0 poligrafato), permisero di sostenere i costi della stampa. «Per abbonamenti semplici L. 1,00 semestrali. Per abbonamenti sostenitori L. 2,50 semestrali».
Gli articoli furono scritti fra il novembre 1916 e il maggio 1917. Essi, è specificato nel primo numero, «non saranno firmati che da pseudonimi [...] a evitare che la collaborazione nel giornale, che serve soprattutto a diffondere buone e nobili idee, non si scambi invece in una odiosa e inopportuna smania di far pubblico il proprio nome».
L'iniziativa era germogliata fra i ragazzi del Liceo classico Michelangelo in casa Rosselli (via Giambologna, 2). «Le riunioni giovanili in casa nostra erano piene di elettricità», ricorda Amelia Rosselli Pincherle, la madre di Carlo e di Nello1.
Quell'elettricità era un'adesione ardente a quella che dai democratici era ritenuta non solo l'ultima guerra del Risorgimento, ma anche una giusta guerra di redenzione dall'assolutismo degli imperi germanici, oppressori delle nazionalità nell'Europa centrale. Nel mensile, l'impegno politico e letterario s'intrecciavano. Quei liceali si proponevano di manifestare partecipazione alla temperie di guerra, di testimoniare uno stile di vita conforme alle prove dei compagni maggiori al fronte, di sollecitare i coetanei ad avere coscienza dei sacrifici accettati coraggiosamente dai soldati combattenti, e di trame le conseguenze per la loro condotta. Gualtiero Cividalli, futuro padre di Bona e Lia, e Nello Rosselli presero su di loro la redazione del mensile. Gualtiero, con un ben evidente proposito di elevata pulizia interiore, propose la testata «Noi Giovani», come lui stesso ricorda in una nota dattiloscritta del 29 maggio 1983; era infatti il titolo di un libro di Hans Wegener, che trattava del problema sessuale, sostenendo la tesi della necessità della castità prematrimoniale, anche maschile.
Dallo stesso libro Gualtiero prese il motto «Purezza, Forza, Amore» che appare nella testata, mentre l'altro motto che pure vi appare: «Non volge chi a stella è fiso» fu indicato da Nello e prefigura il carattere fermissimo del futuro antifascista intransigente.
Nicola Tranfaglia ha avuto «fra le mani quei modesti foglietti», perché nel suo Carlo Rosselli dall'interventismo a 'Giustizia e Libertà' (Bari, 1968) riporta alcuni brani degli articoli di Carlo. È probabile che li abbia letti all'Apparita in comune di Bagno a Ripoli, con vista su Firenze, in casa di Maria Rosselli, la vedova di Nello, alla quale li aveva regalati Gualtiero Cividalli in una delle sue visite periodiche a Maria nel dopoguerra e dopo avere letto il libro di Alessandro Levi.
Gli articoli di Civis, alias Carlo Rosselli, sono quattro, forse cinque, in tutto. Due riguardano i provvedimenti governativi per la limitazione del consumo della carne e dei dolci (Mangiamo meno!, n. 1, e I ragazzi e i dolci, n. 2) per evitarne l'importazione, interessanti per il fondamento morale, condiviso da tutto quel gruppo di liceali, dell'interventismo di Carlo: invita la borghesia abbiente e gli studenti a non lamentarsi di quelle restrizioni e a rispettare la legge per essere partecipi dello sforzo bellico, anche nelle cose apparentemente secondarie.
Probabile articolo di Carlo è la recensione (n. 1), assai positiva, a Gli animali alla guerra, di Giulio Caprin, un libro che racconta il loro impiego al fronte. Di quel testo Carlo riporta un raccontino, uno dei tanti inventati dal Caprin, sintomatico di quella stagione e oggi non più «spiritoso e divertente» come egli sostiene, che paragona gli austriaci e i turchi ai suini. Due articoli sono d'impegno politico rilevante, testimoniano della maturità pensosa del diciottenne e rivelano posizioni teoriche e morali che egli in séguito svilupperà negli scritti e applicherà nella vita d'attivo oppositore alla dittatura. In Libera Russia (aprile 1917, n. 4) saluta con entusiasmo la Rivoluzione del Febbraio 1917 (marzo per il calendario gregoriano), tuttavia, presago di esiti estremisti, è preoccupato perché, avendo concesso il suffragio universale, «si delinea l'eccesso che si trova in tutte le rivoluzioni e l'eccesso che è molto, molto pericoloso [...] Il convalescente che si fa uscire per la prima volta non si fa camminare per delle ore [...] ma piano con delle enormi cautele, che le ricadute sono ancora peggiori del male». In Wilson (maggio 1917, n. 5), Carlo Rosselli esalta il presidente americano, che, sebbene pacifista, dopo avere cercato «di mettere pace [...] si decise per la guerra» e che per un «ideale, irraggiungibile coi mezzi pacifici, egli ha dato il suo popolo, ha giocato la sua popolarità».
In tre brevi componimenti letterari, due novelle e un bozzetto in un atto, Nello Rosselli, sedicenne, manifesta un fervente patriottismo interventista con accenti ingenui.
Davvero singolare è il primo racconto Don Gennaro (n. 1, gennaio). Gennaro è un giovane prete in terra irredenta, che, sebbene mitissimo d'animo, sdegnato perché «ufficiali austriaci, superbi, crudeli, feroci lo trattavano come un cane», passate le linee, conduce, impugnando una croce, animato da «una forza irresistibile, un ardore smisurato», i «pochi che lo avevano seguito» a un conclusivo assalto cruentissimo alla baionetta della sua chiesina trasformata in caposaldo dal nemico. «E mentre valorosamente menava colpi a dritta e a sinistra, facendo strage dei nemici, un austriaco ferito lo assalì alle spalle, gli ficcò un coltello nella schiena. Il prete valoroso cadde; cadde in ginocchio dinanzi all'altare. In uno sforzo supremo levò la testa, gettò il grido degli eroi italiani: Viva l'Italia!».
Accenti ingenui e caricati, ma leggendo quelle composizioni non bisogna scordare l'atmosfera di elevati sentimenti patriottici che animava la famiglia Rosselli e la tragedia che per quei sentimenti l'aveva colpita. Aldo, il fratello maggiore, il 27 marzo dell'anno precedente2, era caduto, non ancora ventunenne, medaglia d'argento al valore militare, in azione sul fronte della Carnia col grado di tenente di fanteria. Prima ancora d'essere richiamato, aveva volutamente scansato il privilegio di servire nella Croce Rossa, perché studente in medicina. Alla madre che gli rammentava quell'opportunità ebbe a rispondere: «Ti pare che potrei mai rassegnarmi a fare il 'pappino', al sicuro, dopo aver gridato per mesi in piazza 'Viva la guerra' e che migliaia di disgraziati che non sanno perché la fanno, che non l'hanno né voluta né invocata sono mandati al fronte? Ti parrebbe che sarebbe bello?»3.
In Una rinunzia (n. 3, marzo), Nello scrive il dialogo di una servetta, Marietta, che aveva perso al fronte «il suo Beppino» (s'era «battuto come un leone»), con la giovane e vanesia padrona Olga che converte alla rinuncia di un costoso vestito per un ballo a favore del Prestito Nazionale. Un invito esplicito ai coetanei borghesi a prendere in considerazione con animo propenso i ceti popolari, ed è forse degno di nota che non prese ad esempio un operaio o un'operaia.
In Idillio di guerra (n. 5, maggio). Brunetta, una fioraia, s'innamora corrisposta di un «bel tenentino» pilota che in séguito precipita in azione di guerra. Ai funerali scopre che il «valoroso ufficiale» era sposato con «una giovane signora, la cui bellezza, le lacrime non potevano offuscare». Marietta, dopo «uno schianto al cuore», seguito da uno scatto d'ira ritenuto, «chinando la testa, si allontanò inghiottendo le lacrime [...] Ed ella pensò all'innocente che palpitava dentro di sé, che sarebbe stato la sua vergogna, il suo dolore, la sua gioia. Allora, cogli occhi di pianto, guardò lontano, verso il cimitero, e perdonò».
Traspare evidente dalle righe, anche queste ingenue, insieme al patriottismo, l'attenzione di Nello alla classe subalterna e la piena coscienza dei sacrifici tragici che le si andava chiedendo senza compensi. Non a caso concludendo Una Rinunzia, Olga, rivolta al marito, stupito per la rinuncia al vestito, recita «(lentamente) - Mi sono ricordata che c'è la guerra e che al fronte c'è chi muore per noi!».
Ben strutturate criticamente e rivelatrici del futuro acuto e politicamente impegnato storico di scuola salveminiana, sono le recensioni di libri d'attualità bellica: Che avverrà? (il domani del mondo) di H.G. Wells (n. 5) e il postumo Esame di coscienza di un letterato (n. 6) di Renato Serra, caduto sul Podgora nel luglio 1915.
Inoltre Nello in «Un'epigrafe di Ferdinando Martini» scrive un concorde commento alla sarcastica risposta che il sapido scrittore ed ex ministro propina a chi lo aveva criticato per una troppo accentuatamente antiaustriaca scritta lapidea in memoria di Cesare Battisti.
Di Nello forse anche Spigolando (n. 1). Sono tre brevi componimenti: uno dedicato alla famiglia Battisti dopo l'esecuzione di Cesare; il secondo alle piccole industrie di guerra; l'ultimo a progetti d'invasione aerea dell'Inghilterra.
Nello Rosselli firmava cogli pseudonimi di Juvenis, di Nero e di Il Bibliofilo.
Carlo nel 1918 sarà al fronte in Valtellina come sottotenente degli alpini. Anche Nello, classe 1900, presterà servizio militare nel '18, ma, sottotenente di artiglieria, dopo il corso allievi ufficiali4, non sarà inviato al fronte per il sopravvenuto armistizio di Villa Giusti.
Gualtiero Cividalli, in una nota dattiloscritta forse degli anni Settanta, dalla quale queste precisazioni sono desunte (altre precisazioni del Cividalli sono nella citata nota dattiloscritta e datata a mano «29.5.83»), attribuisce la paternità anche ad altri pseudonimi del mensile5.
Con due asterischi firmava Leonfrancesco, figlio di Angiolo e Laura Orvieto, autore di tre poesie liriche (Canzone e Meriggio estivo, n. 2; Visione, n. 3) e traduttore dall'inglese della novella Michele e il minatore di Mrs. Craik (autrice del John Halifax, gentiluomo), uscita a puntate e non finita, per l'interruzione definitiva del mensile al sesto numero.
Anglus era Angelo Benaim, chiamato comunemente «Nino». Egli scrive in Incoraggiamo le industrie nazionali della necessità per l'economia italiana di ridurre le importazioni. Nino, anglo-italiano, figlio di Elisa Rosselli, era molto amico di Nello. Sebbene cittadino inglese, Nino, classe 1900, la stessa di Nello, si arruolò volontario nell'esercito italiano. Prese in séguito la cittadinanza italiana e sposò nel 1924 Elena d'Ancona. Brillante avvocato, da sempre fermo antifascista, nel settembre 1938, per le leggi razziali, fu costretto a emigrare con la moglie, il figlio e la figlia, ormai ragazzi, in Inghilterra, dove morirà nel maggio 19406. In Studenti e Russia imperiale del maggio 1917 egli descrive le condizioni miserande degli studenti russi per la noncuranza del governo autocratico e prevede che, grazie alla Rivoluzione, sarebbero diventate analoghe a quelle dei Paesi democratici.
Leo Ferrero, futuro scrittore di drammi e racconti, esule per antifascismo nel 1928, è probabilmente presente con la poesia Ritorno col pseudonimo di Icaro (n. 1).
Degli altri pseudonimi: Il Cristallino, forse di un certo Cavallo, secondo un'annotazione manoscritta del Cividalli su una copia del n. 3 (Il nostro dovere, n. 3; Maggio, n. 5); Miosotide o Mysotide, probabilmente un certo Meucci, come dalla lettera di Nello Rosselli a Gualtiero Cividalli più avanti citata (due componimenti poetici, «Addio», n. 3 e Ideale perduto, n. 4); Rex (Mens sana in corpore sano, n. 3 e Ognuno al suo posto, n. 5); Ireo (Piccoli doveri, piccoli sacrifici, n. 5); un asterisco (Sacrificio, n. 4, probabilmente, così la mano del Cividalli su di una copia del mensile, lo stesso Nello Rosselli); tre asterischi disposti a triangolo (Madre e Patria, n. 4, riferibile a una certa Nencini: lo si desume dal sommario dello stesso numero 4, annunciato a Gualtiero da Nello nella stessa lettera). Tutti «articolisti» in onda coi propositi di Gualtiero e di Nello, che lo stesso Gualtiero annota di non ricordare chi fossero.
Rimarrebbero innominati gli pseudonimi di Rex e di Ireo. Non è da escludere che celino i nomi di Jean Luchaire, il figliastro di Salvemini fucilato in Francia nel secondo dopoguerra per collaborazione coi nazisti, e di Alessandro Pavolini, finito appeso in piazzale Loreto. Le radici interventiste, per quanto d'orientamento non nazionalistico e democratico, potevano portare a esiti ben diversi.
La molto probabile collaborazione di J. Luchaire è documentata da una lettera dello stesso, intestata alla «Lega Latina della Gioventù - comitato italiano - 25, Piazza d'Azeglio» e datata 10 gennaio 19177, a Nello Rosselli, nella quale chiede all'amico un appuntamento per comunicargli «alcune osservazioni» che egli presume possano giovare a «Noi Giovani».
Che Gualtiero Cividalli e Nello Rosselli fossero i due responsabili del periodico è testimoniato da una lettera, non datata ma presumibilmente del marzo 19178, nella quale Nello comunica a Gualtiero il sommario del n. 4. In quella lettera racconta anche di una «scenata» (una leticata per motivi redazionali) col «Meucci», probabilmente il poeta che firmava Mysotide, come lascia intendere il previsto sommario stesso.
Gualtiero Cividalli firmava i suoi pezzi col pseudonimo La Direzione oppure con tre asterischi in fìla. Egli s'impegna in due componimenti letterari (Il Volo, n. 5, esaltazione dell'aeroplano, e Giovannino, n. 6, storia di un giovane accecato in combattimento sul Carso), nel promuovere lo sport (I piaceri dello sport, n. 4) e, dialogando con Nello, progetta la fondazione di una biblioteca per i giovani (Per una biblioteca, n. 6). Suoi sono i fondi dei primi due numeri e del sesto: Il nostro programma (n. 1), concordato con Nello, e un'esortazione ai compagni ad essere puri «nell'anima e nel corpo» per poter affrontare convenientemente le responsabilità dell'ora; in Custodi dell'avvenire (n. 2), incita i coetanei troppo giovani per combattere a perseverare nel compito, affidato dai «nostri fratelli maggiori», soldati al fronte, di prepararsi a «riparare tutti i guasti, tutte le rovine, tutte le miserie» del dopo la guerra; All'Opera (n. 6) è la confessione di non essere riusciti a coinvolgere nel giornale un numero di studenti sperato e l'incitamento a perseverare.
La chiamata alle armi di Gualtiero (classe Novantanove), di un anno più anziano di Nello, determinerà la fine di «Noi Giovani». Il Cividalli, riferendosi a una «lettera di Maria» (Maria D'Ancona, sua futura consorte, compagna di classe di Nello9), annota il 3 novembre 1917 su di un foglietto: «Meucci è tornato a Firenze e così pure di passaggio Nello. R. Biagiotti è arrabbiato con quest'ultimo perché non studia più, torna ancora via e pensa proprio di non dare più gli esami di scienze a ottobre. Mi ha detto che sta preparando il numero 7 di 'Noi Giovani' ma sarà difficile che possa uscire, perché i direttori più sfaccendati non se ne occupano»10. Il Biagiotti non era un insegnante. Era tuttavia una figura importante al Liceo Michelangelo, perché autorevole bidello molto amato dagli studenti11.
Al fronte dall'aprile 1918, Gualtiero Cividalli, ufficiale di prima nomina nel genio telegrafisti, presto promosso al grado di sottotenente, riceverà il battesimo del fuoco sul monte Grappa. Prende parte ai combattimenti del giugno e poi all'avanzata su Vittorio Veneto, durante la quale è il responsabile dei collegamenti telefonici. Sotto il fuoco nemico, li assicura tra i reparti d'artiglieria dipendenti dalla 70a Divisione di fanteria, dislocata in prima linea, e le compagnie mitraglieri: è decorato con la croce al merito di guerra.
Nel 1924 sposa Maria D'Ancona. Antifascista militante, sfugge alla sanguinosa notte fiorentina del 3-4 ottobre 1925 (tre antifascisti e un fascista uccisi) organizzata dai fascisti con la complicità dei tutori dell'ordine. La banda che avrebbe ucciso Consolo e Pilati lo aveva cercato a casa, ma era occasionalmente assente: era un sabato e aveva raggiunto la moglie Maria D'Ancona in casa dei suoceri a Volognano, una collina sopra Rignano sull'Arno12. In quei giorni Carlo e Nello Rosselli troveranno rifugio nella Villa di Metelliano, in quel di Camucia (Cortona), ospiti di Umberto Morra di Lavriano.
Per non coinvolgere la famiglia nella lotta politica, Gualtiero Cividalli si ritrarrà nel privato. Volge il suo interesse politico-sociale al sionismo e collabora al settimanale «Israel»; esercita l'ingegneria da libero professionista (iscritto all'albo fin dal 1926, data d'istituzione dello stesso, evitando d'iscriversi al Partito fascista) ed è consulente dell'INA per la costruzione e manutenzione degli immobili di quell'istituto. Condivide lo studio al n. 5 di via delle Terme con Ugo Giovannozzi. Suo il progetto di restauro e ristrutturazione del Palazzo Strozzi13. Per le leggi razziali del settembre-ottobre 1938 gli viene revocato l'incarico, ed è addirittura radiato dall'Unione Nazionale Ufficiali in Congedo. Prevedendo le conseguenze di quelle leggi infami, dalla Appendice della Treccani definite umoristicamente «tendenti a separare dalla razza italiana quella ebraica senza assumere alcun carattere persecutorio», emigra in Palestina con la moglie Maria D'Ancona e cinque figlioletti. Partecipa attivamente alla fondazione dello Stato di Israele, ingegnere impiegato nelle fortificazioni nella zona di Tel Aviv. I tre figli maggiori, Paola, Piero e Bona combattono nelle file dell'Hagana. Paola sarà un'importante collezionista di libri e fotografie della Palestina, oggi vive a Parigi col marito; Piero sarà pittore, soprattutto noto negli USA; Bona, architetto, costruirà fino alla pensione per l'edilizia pubblica; anche i due fratelli minori, Gabriel e Lia, impegneranno le loro vite a un livello alto di professionalità. Il primo è tuttora primario nell'ospedale di Hadassa, la seconda, biologa, fino alla pensione ha lavorato nei laboratori dell'Istituto Weizman di Rehevot14.
Essi hanno donato alla Fondazione Giovanni Spadolini quelle copie originali del numero zero e dei sei numeri di «Noi Giovani», e carte relative, che ho citato in questo scritto e delle quali mi sono servito per scriverlo.
Gualtiero Cividalli era dotato di spirito profetico. Il 21 giugno 1967, una decina di giorni dopo la fulminea vittoria delle armi israeliane, condividendo le affermazioni di un amico, scriveva: «Soltanto se riconosceremo agli arabi tutti i diritti e li tratteremo veramente come fratelli e non come nemici, sarà possibile raggiungere la vera pace»15.
Francesco Papafava
1 A. ROSSELLI, Memorie, a cura di Marina Calloni, il Mulino, Bologna, 2001, p. 139.
2 Cfr. N. TRANFAGLIA, Carlo Rosselli, dall'irredentismo a Giustizia e Libertà. Laterza, Bari, 1968, p. 12 e nota 8.
3 Cfr. A. ROSSELLI. op. cit., p. 160.
4 A. ROSSELLI. op. cit., p. 144.
5 Gualtiero Cividalli, le due note si trovano alla Fondazione Giovanni Spadolini.
6 Elisa Benaim Sarfatti, lettera del 5 dicembre 2001 a chi scrive.
7 Jean Luchaire, la lettera si trova alla Fondazione Giovanni Spadolini.
8 Nello Rosselli, la lettera si trova alla Fondazione Giovanni Spadolini.
9 Bona Cividalli, lettera del 15 febbraio 2002 a chi scrive.
10 Gualtiero Cividalli, il foglietto manoscritto si trova alla Fondazione Giovanni Spadolini.
11 Bona Cividalli, lettera del 1° luglio 2001 a chi scrive.
12 Gualtiero Cividalli, copia fotostatica dell'annotazione manoscritta datata «Volognano, 8 Ottobre 1925» si trova alla Fondazione Giovanni Spadolini.
13 D. LAMBERTINI, Palazzo Strozzi metà millennio – 1489-1989, in Atti del Convegno di Studi. Firenze, 3-6 luglio 1989, Istituto della Enciclopedia Italiana.
14 Bona Cividalli, lettera del 20 aprile 2001 a chi scrive.
15 Gualtiero Cividalli. copia fotostatica delle pagine dattiloscritte 9 giugno 1967, si trovano alla Fondazione Giovanni Spadolini.
DAL DIARIO INEDITO DI GUALTIERO CIVIDALLI
(9-22 giugno 1967)
Riproduciamo in appendice al testo di Francesco Papafava, per gentile concessione della famiglia, alcune pagine del diario inedito di Gualtiero Cividalli del giugno 1967, relative a Gerusalemme, nella delicata fase della guerra arabo-israeliana.
Venerdì 9 giugno 1967
Ieri nel pomeriggio, mentre la macchina correva verso Gerusalemme, abbiano sorpassato un uomo che camminava diritto davanti a sé portando un gran cartello in cima a un lungo bastone. «Elaih, Ierushalaim, bareghel». Lo abbiamo incontrato di nuovo al ritorno, molto prima di Ramle, una ventina di chilometri più in là del punto dove lo avevamo visto all'andata. Mi è sembrato un simbolo di questo nostro strano popolo. Dove mai potrebbe accadere qualche cosa di simile? Alla notizia della liberazione della città vecchia quest'uomo deve essersi messo in cammino come guidato da un comando interiore improvviso. Per andare in su non ci sarebbe stato difficoltà a trovare posto in qualche macchina. (Abbiamo raccattato gente per strada anche noi). Ma l'essenziale per lui era di «salire» a piedi. Queste reazioni irrazionali hanno forse un valore più grande di tutti gli argomenti storici politici od economici come affermazione di un diritto e garanzia dell'avvenire. C'è più sicurezza in questa «pazzia» che nella ben coordinata forza di tutte le armi.
Martedì 13/6. Vigilia di Shavuotha.
«Soltanto la pazzia potrà salvarci» mi diceva Pacifici venerdì scorso, quando sono andato da lui a Kfar-Haroé seguendo un impulso al quale non potevo resistere. La Margalit mi ha accolto quasi con una specie di imbarazzo domandandomi quale era il mio stato d'animo e come avevo accolto le grandi notizie, forse per mettermi in guardia che la reazione del padre non era simile a quella generale, di esaltato entusiasmo. Non c'era bisogno che me lo dicesse. Non ero anch'io in uno stato di sbigottito smarrimento? Da principio non ha voluto dir nulla prima che io avessi cercato di esprimergli quello che sentivo, quello che avevo sentito durante gli ultimi giorni, l'incomprensibile senso di paura – Irat Shamaim - che mi aveva colto, proprio nel momento in cui per tanti altri era cessata la paura, la vera e semplice che io non aveva mai provata. Poi ha cominciato a parlare lui. Se questa conversazione di due ore fosse stata registrata credo che a sentirla molli penserebbero di aver a che tare con dei pazzi. Riferire una conversazione è sempre difficile, ma una conversazione con Pacifici addirittura impossibile. La mescolanza di sentimenti e di idee, di concetti logici e giuridici con il senso del soprannaturale, di proposte politiche concrete con affermazioni di fede assoluta che non ammettono discussione, di sottigliezze di casistica con i problemi dell'avvenire del popolo di Israele e dell'umanità, del razionale e dell'irrazionale, dell'osservanza delle mizvoth con la pace del mondo. Su molti argomenti le nostre opinioni sono agli antipodi. Eppure qualche cosa nel fondo ci unisce e ci possiamo comprendere meglio che con qualsiasi altro. A lui la mia visita ha fatto bene e ne sono stato contento, perché ho capito che in questa giornata si era sentito un isolato, molto più di me.
Ha cominciato a raccontarmi di alcune lettere scritte negli ultimi giorni prima dello scoppio della guerra, una a certi amici che erano partiti per l'Italia con i loro bambini, un'altra a Castiglioni. Nelle due settimane prima della guerra era stato colto da vera angoscia, specialmente pensando ai bambini. Avrebbe voluto far pervenire a qualche istituzione internazionale (ONU o Croce Rossa) una proposta di riunire i bambini di tutte e due le parti in località determinate che venissero dichiarate immuni da bombardamenti e da attacchi. Aveva cominciato a parlarne con qualcuno, e anche scritto per ottenere che venisse preparato qualche incontro; alla fine se non sbaglio ha scritto direttamente al Presidente Shazar. Intanto ha capito che non c'era più tempo per un'azione internazionale e ha pensato alla necessità di evacuare almeno i bimbi della nostra parte, mandandoli presso comunità di altri paesi insieme con un certo numero di mamme. Dei rabbini con i quali ha parlato gli avevano dato la loro approvazione, ma invece le prime opposizioni sono venute dalle figlie che lo hanno esortato ad abbandonare qualsiasi idea del genere, lo stesso vi ho scritto della reazione di Matilde alla offerta di Eugenio per le sue bimbe e della mia opinione che avesse fatto bene. Non vi avevo detto però che Gabriel non aveva trovato l'offerta ingiustificata e aveva espresso l'opinione che, se ci fosse stata una pratica possibilità, non sarebbe stato contrario a mandar via le bimbe sue. Del resto offerte simili sono venute da tutte le parti del mondo e in un certo senso la lettera di Bernard e Marthel suggeriva qualche cosa di simile, quando diceva che i loro cuori e le loro porte erano aperte. «A posteriori» tutto questo può sembrare assurdo, ma dieci giorni fa il pericolo era imminente o non certo trascurabile.
21.6.67
Mettere in salvo i bimbi non avrebbe tolto nulla alla nostra forza di difesa e alla nostra decisione di mobilitare tutte le energie, ma nell'atto stesso c'è un riconoscimento di non assoluta fede nella vittoria e questa è forse una necessità nella lotta. Meglio rimanere tutti insieme e correre insieme tutti i rischi. Il problema non è nuovo nella nostra storia. Era maggiore l'eroismo dei ribelli di Mezzada o quello di Johanan Ben Zaccai? Dal punto di vista della storia e della sopravvivenza del popolo o dei suoi valori spirituali non credo ci sia dubbio.
Di questo non abbiamo parlato con Pacifici, che mi raccontava soltanto dei suoi tentativi di farsi udire negli ultimi due giorni. Stranamente la domenica mattina si era svegliato in uno stato diverso (quasi di esaltazione), come toccato da premonizioni messianiche, del tutto inconsuete per lui abituato a sentir la fede nel Mashiah come qualche cosa di lontano, alla fine dei giorni. Poi era stato ripreso dal senso della necessità di agire per salvare i bimbi e aveva avuto alcuni incontri ed approcci troncati subito dallo scoppio delle ostilità. I bombardamenti vicini, la città di Tul-Karem in fiamme, le prime notizie di vittorie, l'entrata nella città vecchia, il miracolo della fulminea occupazione di tutti i territori fino al Giordano e al canale di Suez, l'immensità dei problemi da risolvere con una popolazione araba numerosa quasi quanto la nostra.
Ci siamo interrotti per sentire le notizie che venivano trasmesse a ogni ora. Si sapeva che ancora seguitava la battaglia nel Nord, se pur non se ne parlava.
A una mia domanda relativa alle questioni connesse col Tempio è seguita una lunga spiegazione sui motivi per i quali non è permesso agli ebrei neppur di passare nell'area del Tempio. Molte diecine d'anni fa non lo sapeva ed era entrato nella Moschea di Ornar. Chi sa se Rav Goran è arrivato al Kotel Hamaaravì passando dall'esterno? La questione è collegata con le leggi di purità. Praticamente oggi nessun ebreo può esser puro della Tummat Mettim. La purificazione non può avvenire che con la cenere della Parà Adummà (una delle più oscure disposizioni della Torà) che deve esser raccolta da un uomo puro. Perché potesse esserci un uomo puro bisognerebbe aspettare che una donna incinta partorisse in un luogo isolato da tutte le parti (anche dal di sotto, e quindi una casa costruita sopra una caverna). Il bimbo dovrebbe crescere restando sempre lontano da ogni possibilità di trasmissione di impurità che avviene anche senza contatto diretto... Non garantisco l'esattezza di questi particolari. La sostanza, molto importante agli effetti delle prescrizioni religiose, è che non ci sono prospettive che sia religiosamente permesso agli ebrei di entrare nell'area del Tempio e ancor meno di pensare alla ricostruzione, con il problema connesso dei sacrifici. È cosa per i tempi messianici... Questo fatto elimina almeno per il momento i gravi problemi che si presenterebbero se non fossimo disposti a lasciare la Moschea di Omar così come si trova. Per fortuna non ci sono state discussioni sulla decisione di mettere la zona sotto la direzione delle autorità religiose musulmane. Ma come risolvere tutti gli altri problemi della convivenza fra arabi ed ebrei in uno spirito di pace, senza odio e desiderio di vendetta? Pacifici ha tirato fuori e mi ha letto alcuni brani di una lettera che scrisse ad Abba Evan, quando stava per entrare nel Governo, un anno e mezzo fa. Richiamandosi alla comunanza di coltura (per così dire classica occidentale) ed a certe affermazioni fatte da Evan in passato, gli suggeriva la necessità di affrontare il problema dei nostri rapporti con gli arabi su una base nuova, in certo senso religiosa. Bisogna persuadere gli arabi che questo pezzetto di terra è stato promesso a noi da Dio, anche secondo il Corano nel quale hanno fede. Il nostro diritto non viene dalle decisioni degli uomini, che non possono sradicare una popolazione per far posto ad un'altra, né dalla forza dalle armi. Procede da una promessa divina. Nello stesso tempo però bisognerebbe offrire vera pace, non soltanto a parole come sembra sia stato fatto finora, ma con le azioni. Soltanto se riconosceremo agli arabi tutti i diritti e li tratteremo veramente come fratelli e non come nemici sarà possibile raggiungere la pace. La lettera era lunga, piena di sentimento e di forza. (Quello die ho scritto sopra non è che un pallido riflesso non so neppure quanto esatto). Evan rispose di averla letta con interesse e con «emozione», termine non comune per un diplomatico. In quel momento era occupatissimo per la formazione del nuovo governo. Avrebbero potuto incontrarsi in seguito. L'incontro non è avvenuto, ma non è detto che le parole non abbiano avuto effetto. In questo mondo dove soltanto gli interessi materiali e i rapporti di potenza sembrano contar qualche cosa, richiamarsi a una promessa divina può sembrare ingenuo se non stupido. Tuttavia chi ha visto i giovani soldati, non religiosi, avvicinarsi piangendo al Kotel Hamaaravì, ha dovuto constatare con stupore quanto profondi siano certi richiami tradizionali. (Mi raccontava Bona di un ragazzo tornato al Kibbuz che raccontava le sue impressioni in una riunione. Parlava dello splendore della Moschea, delle cose per lui nuovissime e grandiose. E del Kotel, «non è bello, non c'è nulla di speciale... eppure è il più bello di tutto»).
Se non ho sentito male, il discorso di Abba Evan alle Nazioni Unite si è aperto con un accenno a quel piccolo popolo che più di duemila anni fa viveva qui e aveva dato all'umanità il suo messaggio. Non era molto, ma forse anche troppo per quell'assemblea dove la più cinica difesa degli interessi si ammanta di retorica sugli ideali di pace e di giustizia.
Quando ci siamo lasciati Pacifici sembrava come sollevato e anch'io mi sentivo meglio. Tornando verso casa ho incontrato lunghe file di autocarri di tutte le speci, autobus, automobili militari e civili, carichi di soldati che sventolavano bandiere giordane e dell'esercito di liberazione palestinese, prese nella zona di Gerusalemme. Si dirigevano verso il nord. Si pensava subito alla frontiera siriana dove ancora non c'erano stati i combattimenti seri. Infatti il giorno dopo, in quel sabato che è stata una delle giornate anche per me più snervanti, sono state conquistate tutte le alture lungo il confine della Siria. Era stata annunziata l'accettazione della cessazione del fuoco ma la nostra radio per tutta la giornata non aveva fatto altro che ripetere che i siriani bombardavano i kibbuzzim lungo il confine, senza parlare di combattimenti (come del resto aveva fatto anche nei giorni precedenti, non dando notizie se non dopo assicurato il successo). Dalle Nazioni Unite si sentivano intanto i delegati russo e siriano affermare che erano in corso battaglie violente, avanzate, conquiste di città, che venivano negate dal nostro rappresentante. Soltanto il giorno dopo si è cominciato a conoscere un po' della verità. Finalmente gli scontri cessavano. Avevamo raggiunto ovunque una linea che ci dava militarmente una certa sicurezza (Se la sicurezza venisse davvero dalle posizioni che si occupano). Ma intanto si sono aggiunte alle schiere dei profughi senza tetto alcune diecine di migliaia di persone, che contribuiranno a invelenire il problema. Se io ho poca fede nella possibilità di risolverà i problemi come conseguenza di uno scontro armato, è perché di solito chi vince si trova sempre costretto ad andare più avanti per difendersi. Non basta voler la pace se gli altri non la vogliono. La pax romana, anche se è durata di più, non era molto meglio di quella di Napoleone o di tanti altri imperatori. E da queste parti non è mai stata vera pace. Noi siamo un piccolo popolo circondato da diecine di milioni di arabi dispersi sopra una superficie smisurata. Anche se fossimo capaci di vincere e rivincere, perfino di conquistare stati interi come fecero i mammalucchi che erano una casta militare, ci si ritroverebbe sempre a dover cominciare da capo. Questa è la tragedia per chi pensa di far la guerra con la persuasione di risparmiarla ai suoi figli e di preparare una pace «giusta e duratura». Quando ero ragazzo ero persuaso che la guerra mondiale si combatteva per far cessare le guerre. «L'ultima guerra»! Ci avevamo partecipato noi; i nostri figli ne avrebbero sentito parlare come di una storia lontana e quasi favolosa. Infatti Piero ne ha già viste quattro.
Ed è inutile di illuderci che le guerre possano essere prive di crudeltà. Quando si scatena l'istinto di lotta e di distruzione non esistono freni. Pochi sanno mantenersi padroni di se stessi. Certo non mancano mai episodi di umanità e di spirito di sacrificio, accanto a quelli più atroci. Ma in realtà non si deve dare esagerata importanza neanche a questi ultimi, che spesso sono isolati a passeggeri. L'atto impulsivo o brutale può anche esser forse perdonato, dimenticato. Ma con quale spirito si affronteranno gli altri problemi, quelli della pace? È questo che fa paura.
In quella serata del mercoledì in cui fu presa la città vecchia e tutta la parte occidentale della Giordania, ero andato da Joel. Anche lui e Eliahus erano emozionati e commossi come di fronte a un miracolo. Pensavamo alle ansiose giornate che avevamo passato. Tutto era cambiato fulmineamente. Parlavamo adesso tranquilli nella loro stanzetta, pur presi come da sbigottimento. Ho chiesto: «Sapete quante persone saranno in questo momento raccolte tremanti nelle loro case, paurose di un massacro, o fuggenti nella notte senza saper dove? o decise a vendicarsi alla prima occasione?». «Gli ebrei non commetteranno crudeltà», mi hanno risposto. Pur non volendo di fronte a non ebrei mettere in dubbio questa persuasione, ho pubblicato che in guerra ci sono sempre degli episodi crudeli, ma che la cosa più terribile era la paura e l'odio e l'impossibilità di eliminarli. La vittoria fulminea in se stessa non prova nulla. Anche Hitler ha vinto fulmineamente. «Ma qui è la vittoria per una causa giusta», mi ha detto. Lo so. E non dubito della giustezza della nostra causa. Ma non bisogna dimenticare che la fulmineità di una vittoria non prova che la causa è giusta. Bisogna anche sapersi mettere dalla parte degli altri. C'è qui una popolazione che abita da secoli su queste terre. Centinaia di migliaia vivono ora profughi senza una casa. Non basta dire che la colpa è loro o dei loro governanti, che quando noi siamo venuti qui abbiamo offerto collaborazione e aiuto in un pacifico sviluppo. Per loro siamo degli stranieri, degli usurpatori. Anche per quelli che hanno tratto beneficio materiale dalla nostra presenza. Se fra loro ci sono dai fanatici, pronti a cogliere l'occasione per ammazzare, a tradimento, e farsi ammazzare, come dovremo definirli? Banditi, assassini, eroi? La colpa non sarà nostra ma lo spirito di avversione e di odio non e diminuito in cinquanta anni, bensì moltiplicato, specialmente negli ultimi vent'anni.
Non so se potremo mantenere i confini raggiunti o altri che diano una parvenza di sicurezza, ma la vera sicurezza non ci sarà mai finché rimanga l'odio di qua e di là dal confine.
Non c'è dubbio che i confini dell'armistizio erano assurdi. Lo disse anche qualcuno dei nostri ospiti, mi pare un non ebreo, il Papafava, mentre tracciava con la mano la linea del Giordano. Non c'è dubbio che la logica della natura impone in questa piccola zona uno stato unitario, anche se diviso in regioni autonome. Il miracolo è che questa unione sia avvenuta improvvisamente, in pochi giorni, anche se per ora sotto forma di conquista militare (che nei tempi moderni sembra non sia ammessa). Pur sentendo questa necessità, rifuggivamo nel passato da pensarci come a una cosa possibile. L'idea di una conquista ripugnava ed io credo che non ci saremmo mai decisi ad attaccare se gli arabi ci avessero dato un po' di pace. Anche dopo l'inizio delle ostilità con l'Egitto si dice che abbiamo offerto a Hussein di stare fermi se non ci attaccava. «Quos Jupiter vult perdere...». Il patto con Nasser, i primi colpi di cannone sparati dalla parte giordana, perfino l'attacco al palazzo dell'ONU. Tutto sembra che sia accaduto per render possibile quello che nessuno avrebbe osato di immaginare. Su questo confino non c'è dubbio chi sia stato il primo.
Del resto questa faccenda di chi è stato il primo a sparare è una questione di lana caprina. Ci vuole l'animosità di un De Gaulle (verso l'America specialmente) per prenderla a base di una dichiarazione politica. Ho assistito una volta a un litigio fra due autisti a Gerusalemme a proposito del posto dove si erano fermati con la macchina. Hanno cominciato a discutere, sono scesi dalla macchina, si sono scambiate invettive e improperi, poi minacce, pugni alzati, braccia che si incontrano in difesa o in offesa, finché ci sono stati i colpi violenti, la zuffa il sangue e l'arrivo della polizia. Per fortuna non avevano armi. Io ero a pochi passi. Tutto è durato pochi istanti. Ho visto e udito tutto. Non sarei assolutamente stato capace di dire chi aveva ragione e quale dei due aveva picchiato per primo. Nel nostro caso le armi c'erano, eccome. La polizia se mai ha pensato bene di andarsene, e non c'è dubbio su chi ha chiesto che se ne andasse via. Questo fatto, insieme con la concentrazione di un grandissimo esercito sul confine e la provocazione della dichiarazione di blocco non sono sufficienti a definire una aggressione? Da questo punto di vista l'impostazione giuridica della Russia non mi sembra così giustificabile, se in queste faccende la giustizia contasse molto. Tuttavia per me il problema rimane aperto. Era veramente inevitabile la guerra? Se così fosse non si può rimproverare al minacciato di essersi mosso un istante prima di essere buttato a terra. Per quanto un po' contorta la frase di un comandante che ha detto che noi ci siamo messi in moto per respingere il nemico che «stava avviandosi verso il confine», la verità è che noi non pensavamo certo ad attaccare l'Egitto quando questo ha mobilitato, o che se le forze dell'ONU fossero state sul posto non ci saremmo mossi. Ma non si può pretendere che si aspetti di esser feriti a morte per cominciare a difendersi. Purtroppo il nostro successo stesso ha dimostrato l'importanza di dare il primo colpo. La lezione non andrà perduta. La prossima volta chi vorrà la guerra si muoverà rapidamente per primo, come fecero i giapponesi a Pearl Harbour. A loro è andata a finir male, ma per un paese piccolo come il nostro e senza retroterra la prospettiva non è piacevole. Può indurre a cercar di esser sempre i primi.
Se rileggo dopo quattro settimane quello che avevo scritto e che è stato così clamorosamente smentito dai fatti, non trovo nonostante tutto molto da cambiare. La cosa fondamentale sulla quale mi ero sbagliato (e con me evidentemente molti altri che avrebbero dovuto saperla più lunga) era la nostra preparazione e capacità militare. Ma l'interrogativo rimane. Era inevitabile la guerra? Tutti qui sostengono che gli egiziani avrebbero attaccato, che l'ordine era già stato dato e la data fissata. Che i piani d'attacco ci fossero con tutti i particolari è naturale. Nessuno Stato Maggiore può permettersi di non averli pronti, e in certi casi di distribuirli anche ai comandi perché li studino. Ma non credo che nessuno farebbe conoscere la data fissata e l'ora, con molto anticipo, se non ai comandi più elevati e sempre con la possibilità di un contrordine. Probabilmente non lo sapremo mai con sicurezza, ma io ancora penso che Nasser e i russi preferissero atti di sabotaggio a una vera guerra, e che sperassero di aver ottenuto la loro vittoria a poco prezzo, senza scatenare il conflitto. La nostra vittoria fulminea è stata probabilmente una sorpresa per tutti, e credo che anche i nostri «amici» avrebbero preferito che non fosse così completa. Gli americani non hanno ottenuto niente di quello che volevano. Il governo siriano filo-sovietico e Nasser sono in sella più stabilmente di prima. Hussein è ridotto a mal partito. Tutti gli stati arabi sono violentemente anti-occidentali. Gli inglesi perdono il petrolio e il canale di Suez, almeno per un certo tempo, e vedono l'insurrezione a Aden. I russi hanno subito uno smacco e una grossa perdita ma sono già al lavoro par sfruttare la situazione a loro vantaggio. Chi sa che la fermata del Presidente in Jugoslavia non segni un accordo, finora mai raggiunto, per basi navali nel Mediterraneo. Che cosa staranno combinando adesso con Nasser? Non mi riesce di essere ottimista, perché non vedo in qual modo le grandi potenze possano mettersi d'accordo per cercar di convincer gli arabi a far la pace con noi. Finché ognuno pensa di poter sfruttare il nostro dissidio a suo vantaggio saranno guai. Esiste una possibilità di persuadere la Russia che non perderebbe nulla se facesse meno la nemica di Israel, o gli arabi che una pace concordala potrebbe risolvere il problema dei profughi e consentire lo sviluppo di uno stato federale, senza intaccare la loro libertà o migliorando le condizioni sociali di tutti? Credo che siano utopie, ma tutti i nostri sforzi dovrebbero essere tesi in questa direzione, pur sapendo che ci vorranno diecine d'anni per creare un'atmosfera che consenta un vero accordo, se mai sarà possibile. Ma non ci arriveremo di certo con una politica intransigente. Sulla decisione di iniziare l'attacco si racconta che ci siano state molte discussioni. Forse tutto era ancora veramente in sospeso quella domenica nella quale, dopo il discorso di Eshkol, Lia aveva detto: «Abbiamo rinunziato alla guerra». Forse il patto Nasser-Hussein ha fatto precipitare le cose e l'entrata nel governo di Dajan e Beghin ha significato, come un po' immaginavo, la decisione di agire? Tutta storia passata ormai. Quello che conta è il futuro.
In quel famoso mercoledì, dopo aver sentito alla radio le parole di Dajan vicino al Kotel Hamaaravì, Jolanda mi ha telefonato. Aveva sentito il bisogno di sfogare l'emozione e anche di farmi notare l'analogia con il «ci siamo e ci resteremo!». In realtà Dajan non aveva espressamente parlato di tutta Gerusalemme, ma riferendosi all'emozione di trovarsi di nuovo al Kotel Hamaaravì. aveva detto: «Siamo tornati a questi luoghi sacri per non esser mai più separati da loro». Oggi non credo che nessuna pressione esterna riuscirebbe a farci rinunciare a Gerusalemme, anche se non sono escluse delle forme di extra-territorialità per i Luoghi Santi. Ma chi ci aiuterà a trovare la soluzione per un milione e mezzo di arabi che si trovano ora con noi? Chi cercherà veramente di arrivare alla pace? Le Nazioni Unite ben lungi da essere un'assemblea di giudici imparziali è il luogo dove avvengono i più cinici baratti di interessi. Solo degli uomini pazzi (Pacifici ricordava anche La Pira), fra noi e fra gli arabi e nel mondo, potranno forse un giorno estricare questo piccolo paese dalle lotte dei grandi, e condurci alla pace. senza la quale il nostro destino è segnato.
Gualtiero Cividalli