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Gino Bianco

"Crisi con i novatori"

Tratto da Critica sociale, aprile 1963
Pubblicato in Gino Bianco, Socialismo libertario. Scritti dal 1960 al 1972. Prefazione di Alan J. Day, quaderni dell'altra tradizione, 5, Una città, 2011

Tra le posizioni di pensiero espressa dall’intellighentia italiana esule in Francia negli anni Trenta, singolarmente viva e anticipatrice rispetto a posizioni e idee formulate più tardi1 fu quella che maturata all’interno del movimento antifascista «Giustizia e Libertà» mise capo alla cosiddetta «crisi dei novatori» e quindi alla separazione dal movimento di GL, nel 1936, di Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Mario Levi e Renzo Giua1bis. Vi si trova un modo originale di intendere la politica e la «società» che coinvolge i temi sulla funzione e il ruolo degli intellettuali, del rapporto tra élites e rivoluzione, tra minoranze intellettuali e apparati politici.
L’analisi della società di massa e del totalitarismo nel mondo contemporaneo è anticipata nel pensiero dei «novatori» con singolare acutezza; Caffi e Chiaromonte spingono la critica oltre ogni superficialità e senza concedere alla genericità e all’improvvisazione riconducono l’analisi del totalitarismo fascista a fenomeni più complessi e in primo luogo alla crisi della civiltà europea di cui la prima guerra mondiale rappresentò la tumultuosa e sanguinosa espressione. Quel che la guerra aveva soprattutto colpito -insisteva Chiaromonte- erano i valori sul riconoscimento dei quali l’uomo della nostra civiltà regolava i suoi rapporti sociali, la sua visione d’avvenire, la sua scelta nei conflitti dell’esistenza; nello scritto «La morte si chiama fascismo», che è forse l’analisi più penetrante della crisi dello Stato di diritto pubblicata dai Quaderni di Giustizia e Libertà, indicava nella disgregazione morale, sociale, politica ed economica dell’Europa dal ‘14 in poi, l’origine del dilagare in tutta Europa dell’ondata fascista. Il gigantismo dello Stato contemporaneo che pletoricamente aveva esteso sempre più le sue funzioni e la complessità delle moderne tecniche di governo erano all’origine del fatto che «lo Stato moderno ha finito per essere uno Stato informe, strumento di forze senza legge: cominciando dalle influenze sotterranee e capillari delle tradizioni morte che non è capace di riassorbire; continuando coll’industrialismo, il capitalismo e la tecnica, cui non è capace di dare una legge, ma soltanto di lasciarli fare o d’intralciarli con «regolamenti» che in fondo aumentano l’informità e accelerano il processo di crisi dello Stato; e terminando ai poteri dello Stato stesso, principalmente polizia, burocrazia e forza armata, del cui funzionamento la comunità può, nel più felice dei casi, rendersi conto, ma non dispone di strumento politico abbastanza efficace per controllarli, e finisce per subirli. Quando in uno Stato, al posto della forma politica s’installa l’amministrazione, al posto della legge, il comando, questa amministrazione e il sistema dei comandi potranno essere foltissimi, ma lo Stato non esiste più, perché non ha più nessuna forma. Diventa una pirateria organizzata ai danni della società, ai danni della vita stessa, nel senso più profondo e radicale: opprime tutto e falsifica tutto. È uno Stato fuori legge. Lo Stato fascista»2.
In una situazione siffatta, di radicale disintegrazione della società, l’inattività dell’individuo non ha più motivi e ragioni, punti d’appoggio e punti di riferimento; e l’attività dello Stato totalitario ha pure come motivo dominante l’avventura: «non c‘è ragione perché il Danubio o l’Etiopia, l’unione con Berlino o l’amicizia gallica, un putsch a Memel, o un giro di valzer con Albione, l’amicizia polacca o un miliardo elargito a Mosca, siano l’una piuttosto che l’altra, la grande impresa di domani. E così si può esaltare Rossoni o Pirelli, la legge agraria o il ripristino dei privilegi nobiliari, il culto di Wotan o il pateracchio col Vaticano. Perché lo Stato è causa e fine di se stesso, suo essenziale attributo è quello di esistere»3.
Le tirannidi moderne hanno questo di tipico: che non possono esercitarsi altro che assoggettando tutti in nome di tutti; in altri termini che non si può dominare la situazione, cioè tenere a bada la massa, altro che in nome della massa. Ciò che praticamente vuol dire concentrazione di tutti gli interessi stabiliti in nome dello Stato. Ma vuol anche dire dissoluzione di tutti gli interessi stabiliti, di tutti i principi tradizionali, di tutte le «classi», in una parola di tutto il vecchio ordine sociale, in seno allo Stato. Vuoi dire acceleramento sfrenato di tutti i meccanismi che producono massa, non più limitati, distinti e controllati da un certo margine di democrazia, ma concentrati, diretti, manovrati a fini puramente politici e statali, cioè allo scopo di tener soggetta la massa. «Tener soggetta la massa non significa altro che mantenerla allo stato amorfo e indifferenziato di plebe, impedirle di diventare una società, sbarrare le porte all’ordine nuovo che le nuove condizioni di vita esigono, pena la morte per soffocazione».
Tratto caratteristico del fascismo è di rappresentare la massa, cioè quella poltiglia indefinibile, fatale prodotto della decomposizione della vecchia società... che sono le masse moderne e che in quanto tali sono sempre state il sostegno di tutte le inerzie sociali. Ne deriva una inconciliabilità radicale tra regimi di massa ed élites «e allora si capisce fino a che punto queste tirannie siano tiranniche, e devano realizzare un conformismo assoluto; non basta vietare ciò che è direttamente o velatamente contrario all’ordine stabilito, ma più direttamente tutto ciò che è diverso, che non è immediatamente utile alla conferma di esso ordine. Quindi non esiste un criterio per discriminare l’eresia dall’ortodossia; quindi di una organizzazione vera e propria del pensiero manovrato vorrebbero venire a capo questi regimi»4.
Per questo «la più radicale azione antifascista è quella che più radicalmente fomenta la creazione di élites che di fronte al totalitarismo che ha stravolto l’ordine dei problemi e non riesce più a pensare diritto, sappiano, almeno esse, ragionare e pensare. La creazione di una nuova élite è tanto più urgente e necessaria di fronte all’impotenza dei partiti rivoluzionari tradizionali a uscire dalla crisi generale in cui è precipitata la società moderna europea. Precipua missione di questi partiti sarebbe stato di fare l’unica rivoluzione che abbia senso e risponda alla realtà dei fatti: la rivoluzione democratica, ossia l’espropriazione e la redistribuzione del potere e delle ricchezze alle masse, sola via per fare di una plebe una società; (ma) a parte che la rivoluzione non si decide nei Congressi, i movimenti socialistici, per la direzione e lo sviluppo che ha preso il dogmatismo in regime di "democrazia” borghese, sono diventati incapaci di vera rivoluzione democratica, cioè di effettiva sovversione, e tendono piuttosto verso la statalizzione, a tutto vantaggio dell’ordine, o meglio: del disordine esistente. Per riuscire a un’azione efficace, dovrebbero cominciare col sovvertire se stessi»5.
Spettò a Caffi riprendere e approfondire i temi della formazione di una élite rivoluzionaria, e nello scritto «In margine a due lettere dall’Italia», Caffi sottolineava un’antitesi irriducibile tra rivoluzione e «società» (realtà infinitamente più ricca della politica). Tale antitesi tra rivoluzione e «società» Caffi esemplificava negli eventi della rivoluzione francese e di quella russa, che mostravano come «i capi di un movimento rivoluzionario» (emancipatore, giustiziere) sorgono come progenie diretta del «ceto scelto», al quale incombe di mantenere viva e sviluppare la cultura dello spirito». Né gli agenti del Comitato di salute Pubblica appartenevano all’élite impersonata precedentemente dai D’Alembert, Diderot, Voltaire, né i commissari dell’esercito rosso o della G.P.U. possono confondersi con la élite intellettuale russa. Nei due casi l’élite ha creato le idee, rovesciato «scale di valori», suscitato un modo nuovo di sentire e di comprendere i nuovi doveri verso l’umanità. Residui volgarizzati e irrigiditi di questi ordinamenti intellettuali e morali sono penetrati nelle «teste quadre» dove un unico pensiero si trasfonde in volontà indomabile. Ma tra gli uomini dei circoli degli Enciclopedisti e quelli dei club dei giacobini come tra quelli della società russa dell’Ottocento e i «rivoluzionari di professione» bolscevichi, rimaneva, nella filiazione, «l’abisso scavato dal modo diverso di intendere e valutare l’insieme di esperienze intime e di tradizioni accettate e amate che noi chiamiamo "cultura” o al modo latino "umanità”. Per il politico, anche quando sta sistemando le conquiste immediate di una rivoluzione, la cultura è qualcosa che serve la vita, per la élite essa è qualcosa che fa la vita». E tuttavia, la considerazione dell’elemento inumano della rivoluzione, dell’enorme distanza che sempre separa il mondo dei generosi e nobili progetti di sovversione radicale dalla «nuda realtà» che si è pur contribuito a creare, e addirittura la considerazione della sorte stessa riservata alle élites culturali che avevano preparato la rivoluzione dai loro successori ed esecutori pratici («mancherebbe una suprema consacrazione alla élite se non fosse suo destino di essere divorata dagli elementi che pure è precipua sua missione di scatenare») non dovrebbe impedire agli intellettuali di «capire la fatalità quasi provvidenziale di siffatti inumani eccessi, finché le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre, sono l’unico mezzo per portare rimedio (o solo un giusto compenso?) alle molto più turpi, prolungate, silenziose atrocità che ingenera quotidianamente l’ineguaglianza sociale»6. E nello scritto «Opinioni sulla Rivoluzione russa» Caffi, contrapponendo Proudhon a Marx, indicava una maniera diversa di concepire la «società umana» (e quindi quelle sue funzioni che sono la «libertà» e la «giustizia») contro una concezione che invece di liberare le spontanee energie della società, le volle aggiogare all’autorità dello Stato che uccide, falsifica, livella, riduce a vacue forme la realtà dei rapporti fra esseri umani... Ora (appunto) il socialismo, deriva dal suo stesso nome, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di «neo-umanesimo» proprio dal fatto che si è eretto a difesa della società contro gli inumani congegni dell’«ordinamento statale». Nell’abbandono dell’originario ideale del socialismo come moto tendente a perseguire «la completa emancipazione della società, delle concrete comunità di uomini vivi, dal coercitivo sistema dove gli uomini non figurano che come numeri, «soggetti», «schede», risiedevano -secondo Caffi- le ragioni della crisi del movimento socialista moderno. La «costituzione politica», risultato del movimento liberale del secolo XIX, doveva essere portata a compimento mediante la «costituzione sociale»... Limitando le prerogative e le funzioni dell’apparecchio statale, costringendolo a compenetrarsi esso stesso di «diritto sociale» si potrà giungere al complesso di varie autonomie che costituiranno la «democrazia industriale», poiché l’uomo è il vero fine del socialismo. I «partiti operai» invece si rivolgono unicamente al «cittadino», al fittizio «ente giuridico» che è il cittadino in tempi normali, e il sindacato si preoccupa unicamente del materiale, impersonale adattamento della «forza-lavoro» nel sistema tecnico-economico e quindi in definitiva di una sua integrazione nel sistema; né i partiti né i sindacati hanno dunque cura dell’uomo7.
Culturalmente e politicamente, di fronte alla generica atmosfera volontaristica e idealistica che è lo sfondo di G.L.8, appena filtrata da una più autentica esigenza di rigore «morale» (proprio per la sua genericità il volontarismo di GL dopotutto era abbastanza poco moderno perché scontava negli anni Trenta certo idealismo volgare dei primi del secolo). Caffi, Chiaromonte, Levi e Giua esprimono anzitutto la esigenza di esperienze schiette, di un autentico pensiero critico che apra «le vie a quella critica risolutiva che è l’azione rivoluzionaria», di una «profonda coerenza di atteggiamenti rifiutando ogni condiscendenza ai sussulti sensazionali dell’attualità», di una informazione più larga, di una rigorosa impostazione critica volta ad un serio riesame di tutte le idee e della realtà sociale contemporanea; di qui il rifiuto di ogni improvvisazione, del «successo facile e chiassoso, di ogni conformismo (dalle «sacre memorie» nazionali al culto di Stalin)9.
Invero Rosselli intuisce episodicamente la possibilità di atteggiamenti che non esauriscano l’azione di G.L. in certo «confusionismo agitatorio» di idee nuove, stimolanti; giustamente Garosci ha potuto scrivere: «fu Caffi che primo indusse Rosselli ad andare oltre quello che di troppo superficialmente entusiastico, di eredità mazziniana nel senso meno buono c’era in "socialismo liberale”, ad accentuare la polemica contro i vecchi partiti non limitandola alla loro inerzia solo rispetto al fascismo, ma estendendola al carattere antiquato, fisso e accademico delle loro dottrine»10.
Il «Comitato Centrale» di G.L. sembra anche consapevole della propria debolezza «ideale»; di qui il costante richiamo all’azione; nell’azione (eventuale) si cerca uno scampo dalle obbiezioni altrui, la sanatoria universale dei molti eclettismi (da cui forse anche gli inconfessabili complessi di inferiorità verso i comunisti11 e dall’altra parte verso Caffi che porta nel chiuso mondo del fuoruscitismo di G.L. una vasta esperienza di tradizioni rivoluzionarie eterodosse).
Nei confronti del gruppo Caffi, Chiaromonte, ecc., le distinzioni e i contrasti non erano soltanto questioni di sfumature psicologiche e neppure sono riconducibili semplicemente alla diversa natura della «scelta personale», come del resto chiaramente emerge dalla «memoria» indirizzata da Selva (Levi), Bittis (Giua), Luciano (Chiaromonte) e che può considerarsi la «piattaforma» ideologica-politica su cui avvenne la rottura del movimento di G.L.
«Respinta con sdegno la supposizione di potersi dire semplicemente una piccola accolta di uomini di buona volontà che stanno cercando la loro via, il movimento non ha voluto né darsi un’ossatura organizzata che ne avrebbe precisato le reali proporzioni, né stringersi in una vera società segreta di rivoluzionari professionali, la cui opera naturalmente rimarrebbe priva d’ogni alone pubblicitario. Né cenacolo, né partito, né tribuna libera, né setta di cospiratori, "Giustizia e Libertà” vorrebbe essere un po’ di tutto questo, e magari tutto questo insieme. Gli ibridi sono tutt’altro che geniali prodotti d’una vigorosa vita nuova. E un surrogato d’organizzazione politica è fatalmente trascinato verso l’incoerenza di sempre più piccole avventure, perché nella sua vita interna non c’è possibilità né di solida democrazia né di strenua gerarchia, e le mosse che decide un capo o un quadrumvirato praticamente insindacabili sono unicamente determinate dalla fuggevole occasione del giorno. Così in aria, senza nemmeno la base organizzativa e dogmatica di un partito, mettiamo, come il comunista, ciò equivale a lavorare per l’articoletto (invece che per il "rapporto”), per la notiziola, per l’auto-incensamento e la vanteria senza costrutto. Si spinge in tal modo all’assurdo, nel vuoto, il funesto errore del lavoro «per l’apparato» che ha condotto in vicoli ciechi i partiti rivoluzionari»12.
A riprova del dissenso che saparava i «novatori» da Rosselli e dal Movimento, si può ancora ricordare l’articolo di Chiaromonte «La Riforma socialista ovvera alla ricerca della vera questione»; in quell’articolo Chiaromonte sottolineava che «il carattere statale dei partiti porta il rivoluzionario a uscire dal terreno della politica, perché il «fascismo dovrebbe aver indotto le menti, tra le altre, a una constatazione semplicissima: i partiti sono organismi incapaci di resistere alla tirannide. ...Il primo semplice fatto è che i partiti moderni non sono dei «gruppi», delle associazioni integrali, ma delle «organizzazioni». Il secondo fatto è che tali organizzazioni derivano la loro esistenza dalla volontà dello Stato, per di più sono addirittura modellate sul tipo dell’organizzazione statale, più o meno democratica di forma, burocratica e autoritaria nella sostanza, cioè retta da un’oligarchia che appoggiata a una coorte di funzionari, tende a terminare nella nota figura del «leader», (il Capo, signori...). Se la condizione dei partiti in genere, nello stato moderno cosiddetto democratico, è assai precaria, quella dei partiti rivoluzionari volge irresistibilmente all’assurdo. Essi godono di una libertà elargita dallo Stato, che devono per natura impiegare contro l’ordine attuale, la cui difesa è il compito dello Stato medesimo. Ma l’essenziale, come i fatti dimostrano, è che l’atto da cui procede la loro esistenza è un atto di volontà dello Stato. La contraddizione, certo, deriva altrettanto dalla natura dello stato «democratico», dalla sua ibrida costituzione, autoritaria e gerarchica a forma liberale, che dalla natura ideologica e dalla struttura generica e formalistica dei partiti: in particolare, le esigenze da cui sono nati i partiti socialisti sono delle esigenze di fatto, poggiate su condizioni di fatto di ingiustizia sociale, e non si distruggono né con un ragionamento giuridico, né con la soppressione violenta delle formazioni politiche corrispondenti. Ma il risultato è uno: che i partiti sono annientati, e annientati per sempre, dal semplice atto della volontà statale che li dichiara illegali. Non c’è ricorso, fuori della guerra civile, perché il detentore della forza esecutiva è lo Stato... (e) accade precisamente che lo Stato in genere, e quello fascista con specialissima cura, sia attrezzato quasi esclusivamente in vista della guerra civile: al punto da affatto impedire che si venga a tanto, o da liquidare l’incidente in pochi giorni. Questa realtà primordiale del definitivo e disastroso squilibrio tra uno Stato monopolista di ogni forza, di ogni tecnica, di ogni arma, e la società inerme e immobilizzata su cui è installato, la realtà fascista, è quella con cui siamo chiamati a fare i conti. Ha il difetto di rimanere piuttosto indifferente agli ultimi ritrovati della dialettica, compresa la «linea Marx-Lenin-Stalin»...; si tratta di essere e volere integralmente fuori dallo Stato. Cioè fuori dal terreno schematico e semplicistico della politica (il quale giova ripeterlo, non esiste letteralmente più)... si tratta, per cominciare, di esercitarsi a pensare fuori dalla politica».
Rispondere a chi diceva che «si tratta per cominciare di esercitarsi a pensare fuori dalla politica» assumendosi la difesa del realismo politico, come faceva Rosselli, era inutile perché non di questo parlava Chiaromonte13.
Anche nei confronti della situazione italiana il compito principale di un gruppo politico all’estero -suggerivano i «novatori»- avrebbe dovuto essere quello di «esaminare alla radice i problemi cui si va incontro, prescindendo da ogni mito di attesa». In specie bisognerebbe non dimenticare che è implicito nella volontà rivoluzionaria di considerare gli avvenimenti secondo una prospettiva e, oseremmo dire, secondo un tempo, suoi propri, che sono quelli indicati dagli scopi ultimi di essa volontà al di là di ogni sollecitazione di attualità»14.
Ogni sforzo avrebbe dovuto essere rivolto alla creazione di un movimento politico effettivamente indipendente da ogni preconcetto relativo all’idea di nazione, da ogni pregiudizio di democratismo generico, ma capace di sviluppare e concretare in orientamenti politici di ordine generale i germi vitali del concetto di autonomia15. Ma premessa indispensabile per «ricominciare l’educazione del popolo, sostenerlo di nuovo fin da principio nella costruzione di ideali di dignità civile»16, sarebbe stata di illustrare giorno per giorno quel che è la realtà europea, partendo da un punto di vista rivoluzionario «ma appunto per ciò avverso a qualsiasi dogma, rispettoso della verità intera, ripudiante di ogni controllo di una «politica di partito» …e allo stesso tempo tentare una critica costruttiva delle ideologie e dell’azione svolta dai partiti operai di sinistra... (una) revisione dei principii e dei metodi della lotta per l’emancipazione dell’uomo (non di una anonima massa irreggimentata sotto l’insegna della «classe») dalla schiavitù politica, economica, spirituale; ...(una) denuncia spietata dell’ipocrisia «liberale» e della faciloneria democratica, riduzione all’assurdo delle speranze riposte in certe «combinazioni» della politica internazionale o in qualche generoso impulso dell’opinione pubblica nel cosiddetto «mondo civile»; ... contribuire a dare il senso dei «fatti così come sono», a ricercare la verità anche dove essa significa sfrondamento dei nostri affetti, delle nostre più tenaci speranze17. E tuttavia agire efficacemente non si sarebbe potuto senza la consapevolezza che «la guerra, il dopoguerra e la crisi mondiale hanno profondamente modificato due fattori essenziali della società moderna: la struttura della stato (che implica pure i rapporti tra economia e politica) e la composizione, nonché le possibilità di azione collettiva, della classe operaia. Non possiamo esporre qui le questioni che sorgono da questi due vastissimi fenomeni. Accenneremo soltanto al problema delle «masse», senza la partecipazione attiva e cosciente delle quali non è pensabile un movimento politico di qualche efficacia. Agli effetti della disoccupazione, della razionalizzazione tecnica, dei parassitismi burocratici, si aggiunge, nei paesi fascisti, la profonda diseducazione delle masse popolari, e del proletariato industriale in particolare. La ricostituzione di solidarietà autonome, di una coscienza di classe, d’un atteggiamento critico (cioè libero e combattivo) dell’uomo sfruttato, irreggimentato, ridotto all’obbedienza passiva, è il compito urgente di ogni azione rivoluzionaria e quindi socialista. Ma non può riuscire che se si ha il coraggio di cominciare «dal basso», di consacrare le migliori forze non all’appariscente «agitazione», ma all’organizzazione salda di nuclei da cui rigermoglieranno -sotto forme probabilmente nuove- la solidarietà sindacale e cooperativa, le forme necessariamente molteplici di una vita sociale piena»18.
A una generica organizzazione politica qual era quella del movimento di G.L., del resto assai precaria, e a maggior ragione, alle cosiddette «organizzazioni di massa», i «novatori» contrapponevano la costituzione di gruppi ristretti, vere cellule organiche di vita, animate da un autentico spirito rivoluzionario, impegnate a svolgere un’azione nel vivo terreno delle strutture sociali per conseguirvi delle reali trasformazioni rivoluzionarie. Di qui anche la diffidenza profonda per l’impiego impreciso della parola e anche per la cosa antifascismo: «pensiamo che l’antifascismo debba essere di fatto il contrario del fascismo: cioè non solo affermare principii opposti, ma porre in una prospettiva, in un ordine di importanza, del tutto diversi le questioni e anche i fatti di «attualità»... La questione è in fondo se si aspetta una trasformazione sociale o il volgersi d’una banderuola»19.
Nemici delle «idee fatte», insofferenti per quanto di rozzamente «semplificato» c’è nell’ideologia giellista, («bisognerebbe riuscire a dimostrare che il mondo non si esaurisce in certe contrapposizioni inerti come, ad esempio, quella «comunismo-fascismo-liberalismo» a riportare l’attenzione sui fatti più semplici, e quindi a ridare il senso della vivacità dei problemi»), i «novatori» -con sensibilità schietta e libertaria- rivendicano in nome della società inerme e immobilizzata da una molteplicità di meccanismi di coercizione e di violenza, non delle libertà formali e astratte, ma «quel fatto più complesso che è un’esistenza, un mondo di rapporti concreti e determinati».

1. Limitatamente alla tradizione di pensiero socialista, si possono ad es. ricordare le «Tesi di Tolosa» («I socialisti, la guerra, e la pace ») redatte nel corso della 2a guerra mondiale da Caffi, Faravelli, Faraboli, ecc.; ma anche, più recentemente, le «Tesi di Critica Sociale» (1958).
1bis. Alla separazione dal Movimento di GL avvenuta «ufficialmente» nel gennaio del 1936, di Caffi, Chiaromonte, Levi e Giua, ha dedicato alcune pagine («Crisi con i novatori») Aldo Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Edizioni U. 1945, vol. II pagg. 97-102.
2. Cfr. Sincero (N. Chiaromonte), La morte si chiama fascismo, Quaderno di Giustizia e Libertà n. 12, serie II, gennaio 1935, pagg. 20-60.
3. A. Caffi e N. Chiaromonte, Sul corporativismo e su una certa tecnica; si tratta di una nota inedita conservata nelle «carte» caffiane.
4. Cfr. Sincero, Ufficio stampa. Quaderno di Giustizia e Libertà, n. 9, serie II, novembre 1933, pag. 80.
5. Cfr. Sincero, La morte ecc., cit.
6. Cfr. A.C. (Andrea Caffi), In margine a due lettere dall’Italia, Quaderno di Giustizia e Libertà, n. 11; serie II, giugno 1934, pp. 66-80.
7. Cfr. Onofrio (A. Caffi), Opinioni sulla rivoluzione russa. Quaderni di Giustizia e Libertà, n. 2, marzo 1932, pagg. 76-102; per una esposizione del pensiero di Caffi, Lamberto Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze 1951, pagg. 316-323.
8. Per questo aspetto di G.L., Cfr. soprattutto Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira, Storia del Fascismo: l’Italia dal 1919 al 1945, Roma 1952; ma anche L. Salvatorelli, L’opposizione democratica durante il fascismo, II secondo Risorgimento, Roma 1955, oltre naturalmente Aldo Garosci, La vita, ecc., già citato. La storiografia sul Movimento di G.L. è assai incompleta; una prima sistemazione del materiale di documentazione è rappresentata da un fondo abbastanza organico (archivio Rosselli custodito da Ernesto Rossi); altro materiale riguardante l’attività della centrale di G,L. in esilio è ora depositato presso l’Archivio generale dello Stato; per la corrispondenza del gruppo dirigente di G.L. con gli elementi del centro interno del PSI, ingente materiale è raccolto nell’archivio Tasca, depositato presso l’Istituto Feltrinelli. Questi ultimi documenti stanno per essere pubblicati negli Annali Feltrinelli in «appendice» ad una ricerca sull’attività svolta dal Centro interno del PSI, curata da Stefano Merli.
9. Cfr. la «memoria» indirizzata dal Gruppo dimissionario su Il Nuovo Avanti dell’8 febbraio 1936. Il Comitato centrale di G.L. rifiutò la pubblicazione della «memoria» sulla stampa del Movimento, ma pubblicò una lettera di protesta firmata da Luciano (Chiaromonte), Selva (Levi), Bittis (Giua), nella quale sono rapidamente ricostruiti gli antefatti che portarono alla scissione. La redazione del settimanale di G.L. faceva seguire alla lettera dei dimissionari una coda ovviamente polemica circa la sostanza del dissenso (settimanale Giustizia e Libertà, Separazione necessaria, del 17 gennaio 1936).
10. Cfr. Aldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953, pag. 248.
11. Un certo «complesso di borghesismo» che affliggeva il Comitato centrale di G.L. nei confronti dei comunisti è stato rilevato anche da Claudio Pavone in un recente studio (Le idee della Resistenza, Passato e Presente, n. 7, 1959. pag. 884, n. 1).
12. Cfr. «Memoria», ecc., cit.
13. Settimanale Giustizia e Libertà del 15 marzo 1935.
14. Cfr. «Memoria», ecc., cit.
15. Cfr. Sincero, Per un movimento internazionale libertario, Quaderno di G.L. n. 8, serie II, agosto 1933, pagg. 13-20.
16. Ibidem, cit.
17. Cfr. Andrea, Europaische Hefte, Giustizia e Libertà del 14 settembre 1934.
18. Cfr. « Memoria», ecc., cit.
19. Ibidem, cit.
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