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Nicola Chiaromonte

La nuova sinistra


Tratto da «Tempo Presente», settembre-ottobre 1967
Pubblicato in Cesare Panizza (a cura di), Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una Città, 2009

In realtà, un’opinione di sinistra inorganica e fluttuante esisteva fin dall’immediato dopoguerra. Pochi di quelli che aderirono al partito comunista durante la guerra e dopo, e nessuno di quelli che gravitarono intorno al medesimo partito negli stessi anni, erano comunisti. Comunisti erano i dirigenti e i funzionari, mentre la massa operaia, tutto sommato, rimaneva nel solco della tradizione socialista; ma comunisti non erano certo i molti compagni di strada, simpatizzanti, anti-anticomunisti e intellettuali marxisteggianti che fecero, fino al 1956 circa, la fortuna e il prestigio dei partiti comunisti. Erano, quelli, i seguaci approssimativi e confusionari di un’estrema sinistra di fantasia che si mettevano dalla parte del comunismo sia perché ritenevano doveroso aggregarsi alla marcia della Storia, sia perché credevano di trovare lì quello che non si trovava da nessun’altra parte politica: l’Idea, più l’efficienza.
Esisteva, fin da allora, una sinistra indefinita e mollemente eretica; anzi, si può ben dire che la sinistra era quella: del nucleo duro del comunismo ufficiale si cercava d’ignorare l’esistenza, ed esso stesso si camuffava in varie fogge. Ma, da tre o quattro anni a questa parte, è venuta formandosi una corrente d’opinione politica la quale non solo è completamente fuori da ogni partito, ma sfugge anche a ogni definizione ideologica chiara. Negli Stati Uniti, ha preso il nome di «nuova sinistra».
S’è formata, questa «nuova sinistra», per dato e fatto della politica americana: a essere esatti, in seguito alla guerra del Vietnam. Negli Stati Uniti, il movimento degli studenti dell’Università di Berkeley (ormai disperso) prese forza dalla ripugnanza per quella guerra, oltre che dal desiderio di agire -e non soltanto parlare- in favore dell’eguaglianza civile della popolazione negra. Anche in Europa, la guerra del Vietnam ha fatto cristallizzare, specie fra i più giovani, una corrente (o meglio si direbbe: uno stato) d’opinione le cui componenti sono abbastanza ovvie: antiamericanismo considerato sinonimo di anticapitalismo (e di antimperialismo); anticapitalismo inteso come rifiuto di quella che si usa chiamare «civiltà dei consumi» ed è concepita come l’ultimo stadio della degradazione della società borghese occidentale, la quale società sarebbe destinata a esser spazzata via dalla rivolta delle genti di colore o comunque vittime dell’imperialismo, Cina e Cuba in testa, Paesi dell’America latina e dell’Africa al seguito, magari con l’aggiunta degli arabi, vittime del colonialismo israeliano.
Questa sequela di tesi, nella quale si possono facilmente distinguere le influenze di J. P. Sartre e di Frantz Fanon, ma che in sostanza rappresenta una specie di riduzione all’estremo di taluni concetti che chiameremo marxisti tanto per intenderci, non costituisce certo un corpo di dottrine. Non varrebbe la pena di discuterla se non fossero in massima parte dei giovani a propugnarla e se, d’altro canto, il campo della politica offrisse attualmente a questi giovani altre e migliori indicazioni per manifestare l’insofferenza per il presente, lo sdegno per l’ingiustizia e il disgusto per la falsità che sono le passioni diremmo doverose della gioventù.
La questione potrebbe finire qui: con la constatazione che i fatti giustificano il ribellismo, sia pure incoerente, di questi giovani e che, visto che nessuno sa offrir loro un ideale politico più valido, è naturale che essi si servano di quello che son riusciti a fabbricarsi con i relitti e residui delle idee che hanno ereditato dai loro padri e fratelli maggiori.
Ma non può finir qui, la questione. Per confusionari che siano, questi giovani vanno presi sul serio, e l’unico modo di non prenderli in giro è quello di trattarli da pari a pari, discutere le loro idee senza indulgenza né disprezzo.

Ora, il fatto è che le idee della «nuova sinistra» non peccano tanto per incoerenza quanto perché rappresentano un tentativo di uscire dal vicolo cieco in cui si dibatte da decenni la sinistra europea spingendo all’assurdo precisamente le tendenze che l’hanno portata nel vicolo cieco medesimo. Il che vale quanto dire che le idee della «nuova sinistra» non sono in realtà né un ripensamento delle idee socialiste o libertarie né un nudo, crudo e pragmatico piano d’azione, ma una mera operazione cerebrale: letteralmente, un sogno a soggetto politico, il quale può diventare tema di discorsi, e magari anche di libri, ma non per questo esce dall’irrealtà intrinseca che lo distingue. Giacché questi giovani e meno giovani aderenti della «nuova sinistra» non devono immaginare di essere i soli a riconoscere le ingiustizie, brutture, brutalità e insensatezze del mondo in cui viviamo. Che la guerra del Vietnam, per esempio, è orribile e assurda lo sanno anche i più alti dignitari del mondo cosiddetto «capitalista»: lo sa anche il Papa, oltre a saperlo la gente della sinistra vecchia e nuova. Il problema, per il Vietnam come per la questione dei negri e per le altre, è in qual modo efficace l’opinione contraria possa farsi valere. Ed è a questo punto che la «nuova sinistra» fugge per la tangente della rabbia, e proclama la guerra santa contro gli Stati Uniti o, per esser precisi, applaude alla guerriglia e alle sommosse razziali.
La nuova sinistra, cioè, non riconosce le cause, anzi la causa, da cui essa stessa ha origine. La quale non è la perversità dei governi o la pusillanimità dei socialdemocratici, ma l’impotenza apparentemente irrimediabile dell’opposizione, di ogni opposizione, nell’attuale condizione del corpo politico. È dall’esasperazione per l’apparente paralisi della politica interna (ossia della vita politica essa stessa) che nasce lo stato d’animo della «nuova sinistra». Ma quando poi si tratta di rispondere alle questioni di politica interna, tutto quel che essa sa produrre è o una surenchère massimalista sulla politica governativa o l’evasione nella politica estera.

Il fatto invece è che, in Europa come negli Stati Uniti, la questione cruciale oggi non è affatto quali scopi si debbano opporre alla politica governativa: in genere, basta mettere al negativo la politica del governo per avere un eccellente programma d’opposizione. Il problema è come fare perché il programma dell’opposizione diventi una politica: insomma, come fare perché, nelle attuali condizioni della società industriale, ci sia una vita politica e non soltanto delle decisioni che scendono dall’alto dopo esser state combinate negli altissimi consessi dei tecnici e dei burocrati, negli uffici di partito e nelle lobbies dei gruppi di potere.
Finché non si risolve questo problema, l’opposizione, ribellista o meno, rimarrà un fatto verbale e un sogno rabbioso. Verbo per verbo e sogno per sogno, tanto varrebbe allora ragionare sui dati elementari della situazione, mettendo fra parentesi ogni presupposto ideologico.
Ora, il dato più elementare della situazione è che l’attuale società industriale ammette in teoria prosperità quanta se ne vuole, e in più una grande e quasi illimitata libertà d’indifferenza (della quale anzi ha strettamente bisogno per funzionare); ma, quanto alla libertà politica in senso proprio, essa è tutta da restaurare: i meccanismi burocratici e tecnici l’hanno esautorata. Ora, la libertà politica non è un bisogno di massa, benché, senza libertà politica, tutto quel che le masse possono sperare è una porzione congrua di beni di consumo; di giustizia è inutile parlare; e, quanto alla pace, dipende dai calcoli geopolitici e strategici.
Dal che discende che la restaurazione della libertà politica (che poi è quanto dire di una vita politica reale e non cifrata) è oggi inevitabilmente compito di una minoranza di volontari, ed esige molta più risolutezza e tenacia che non ne occorra per propugnare la guerriglia in Paesi lontani.
Ma questo non è lavoro che si possa esigere dai giovani della «nuova sinistra». Dai padri e dai fratelli maggiori, essi hanno appreso a correr dritto alle conclusioni, non a esaminare le premesse; hanno appreso ad ammirare e seguire chi agisce in modo spettacolare, non chi ragiona; hanno imparato che il mondo è quello che è e bisogna prenderlo per quello che è, non sognarne un altro che non esiste. E allora, quando si trovano dinanzi a una realtà che non li soddisfa, non possono fare altro che decidere verbalmente in favore del più estremo e del più violento. Dunque si schierano con Mao Tse e con Guevara. A parole, s’intende. Infatti, oggi, un giovane europeo ribelle che cos’altro può fare se non dire di essere in favore della rivoluzione culturale in Cina e della guerriglia in America latina, nonché magari nelle città degli Stati Uniti, secondo predica Stokely Carmichael(*)? Non troverà neppure contraddittorio, un tal giovane, dopo aver detto cose simili, marciare per la pace e contro la bomba atomica. Quanto all’effetto di un tal dire, c’è la soddisfazione di sentirsi dalla parte non solo della giustizia, ma anche della potenza (nel caso della Cina) e della violenza avventurosa (in quello dei guerriglieri castristi).

In ultima analisi è il culto della potenza e della violenza che si diffonde, sotto specie di «nuova sinistra». E, con questo, il cerchio dell’involuzione della sinistra europea, cominciata nel 1914, si chiude.
Giacché è come rivolta contro la potenza e la violenza che la «sinistra» liberale, democratica e socialista nacque, in Europa. Anche se portò sempre in sé un certo culto romantico dell’azione violenta, il movimento libertario e socialista del secolo scorso rimase sempre, nel fondo, pacifico e pacifista. Il culto dell’azione e dell’eroe guerriero, liberali, democratici e socialisti lo lasciarono sempre ai reazionari, ai militaristi, ai nazionalisti. La cosa diventò più che chiara col fascismo e col nazismo. Ma la seconda guerra mondiale (senza parlare di ciò che l’aveva preceduta, in Russia e altrove) non scatenò soltanto la bestialità hitleriana, bensì dappertutto e in tutti (tranne un’infima minoranza) la convinzione «realista» che nulla, nella storia, si ottiene senza violenza e, per converso, con la violenza bene organizzata si ottiene tutto. 
Questo è il punto a cui siamo. A questi princìpi sta tornando, sotto specie di perfetta tecnicità, la società organizzata. Ma c’è da notare che, nel frattempo, i mezzi di far violenza sono diventati, più che efficaci, assoluti, e sono proprietà esclusiva dei ricchi e dei forti. Sicché l’appello alla violenza per il supposto riscatto dei deboli oppressi non può avere da ultimo altro risultato che di rafforzare i potenti. È quindi condannato a fallire, non foss’altro che perché si riduce ad affrontare l’avversario sul terreno sul quale esso è più forte, tattica sbagliata anche in termini guerreschi. 

(*) Stokely Carmichael (1941-1998), originario di Trinidad, ma emigrato negli Stati Uniti giovanissimo, uno dei leader del Student Nonviolent Coordinating Comittee (Sncc), organizzazione impegnata nella promozione dei diritti civili degli afroamericani, inizialmente su posizioni integrazioniste, spostatosi via via su posizioni più radicali, espulso nel 1967 dallo stesso Sncc, assunse una notevole celebrità divenendo il portavoce del Black Panter Parthy, che, influenzato dal marxismo, oppose al principio della non violenza, proprio dell’azione di Martin Luther King, quello della autodifesa come strumento di lotta, teorizzando per i neri non già l’integrazione nella società bianca, ma il suo rifiuto e la conquista violenta del potere. (Nota del curatore)
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