Aldo Garosci
Un grande sconosciutoLa Sera di Roma, 1971
Ignoto, piuttosto che dimenticato, per quasi tutta l'elite intellettuale italiana, lo scrittore internazionale Andrea Caffi (1887-1955). Nato a Pietrotourgo, studente e cospiratore nella Russia zarista, universitario a Berlino, intellettuale nella Parigi di prima del '14, volontario di guerra in Francia e al fronte italiano nella prima guerra mondiale, partecipe di tutte le passioni del dopoguerra italiano e russo, fuoruscito e indipendente pensatore sovversivo nella Parigi tra te due guerre, morto «lettore» di Gallimard e sempre tuttavia fuori dalla cornice d'ogni convenzionale aggruppamento, Caffi non ha lasciato, volontariamente, un'«opera» sistemata in volumi né un «gruppo» di discepoli. Ma la sua influenza è stata decisiva su molti della sua generazione, e ora cominciano a uscire dalle mani di chi li teneva come un messaggio personale scritti suoi che danno l'indicazione più precisa della vastità e intelligenza di una visione non meno importante per il «pathos» e forse più penetrante e equilibrata di quella di una Weil, di un Bernanos. Gli scritti di Caffi usciti quest'anno sono: un programma che egli scrisse nel 1942 per i socialisti democratici italiani (pubblicato prima nella «Critica sociale» e raccolto in opuscolo nei «Quaderni del Gobetti», 1, col titolo «i socialisti la guerra e la pace»), e tre scritti nei numeri 1, 3 e 5 di «Tempo Presente», uno dei cui direttori, Nicola Chiaromonte, si può considerare di Caffi allievo e sodale. Vi balena il suo disprezzo per i luoghi comuni accompagnato da una curiosità critica di vedere più a fondo in queste idee e sentimenti che conducono ia gente, il senso vivo e religioso della giustizia, il rifiuto di ogni ipocrisia, la lunga esperienza dei sogni che accompagnano l’azione rivoluzionaria e delle azioni che ne nascono. Ma anche l'immensa dottrina e la padronanza dei grandi fenomeni dell'antichità, la conoscenza -da umanista slavo del grande momento rinascimentale russo- dell'opera dell'ellenismo e del moto religioso alla fine del mondo antico.
E' appunto di quest'ordine di pensieri che parla lo scritto «Cristianesimo e Ellenismo» -nato come postilla al Dawson- pubblicato nel numero odierno (5) di «Tempo Presente». Senza alcuna faciloneria, egli riporta a un comune, geniale momento intellettuale etico i l messaggio cristiano rispetto alla Legge ebraica e quello greco rispetto ai miti. "… Un certo livello di valori umani e di verità spirituali il cristianesimo non è riuscito a sorpassare. Il suo immenso merito è di essere stata una «religione di schiavi». Ma se si parla della «civiltà occidentale» ossia dell'energia che fa della società un'integrazione d'esseri intelligenti e liberi, bisogna dire che essa non fu salvata dal cristianesimo, bensì dalla persistenza dell'ellenismo...”. "La rivoluzione, o piuttosto la «rivelazione» cristiana sta tutta nei Losh’a di Gesù...».
Lo svolgimento ecclesiastico del cristianesimo rispetto a quello secolare della grecità viene soprattutto dal fatto che, a differenza del momento di angoscia in cui nacque il secondo, la "società" era, nelle città elleniche, in piena fioritura quando il primo si affermò.
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