L'ERESIADELPASTORELUCIANO Proprio alla fine della mietitura venne la domenica. Luciano si stupiva ogni volta come le domeniche cadessero a intervalli ctsì uguali, l'una appresso all'altra come i chicchi di un rosario, e senza fare rumore. Luciano era un pastore che si trascinava la sua vita dietro a un gregge di pecore nei grandi pascoli della montagna e nella polvere senza fine delle strade maestre. Aveva un gran ombrellone di cerato verde, a tracolla, scarpe fangose che rassomigliavano a zoccoli di legno, e un vecchio abito di velluto. Poteva avere vent'anni; i suoi capelli erano cespugliosi e rossicci e i suoi occhi così chiari che parevano fatti di niente. Era un essere primitivo. I suoi genitori dovevano essersi dimenticati di lui, perchè, da tanti anni r,he l'avevano dato a garzone presso certi contadini di un podere di mezza montagna, non s'erano più fatti vivi. I contadini, da molto tempo, avevano compreso la gra~de semplicità di Luciano e si erano convinti che egli non avrebbe mai potuto aggiogare un paio di buoi ; e forse era vero. Così, senza fare un gran caso, perchè i contadini son gente che sa capire le cose, l'avevano messo a guardia delle pecore e Luciano, poco a poco, nella solitudine delle pasture, era dolcemente impazzito. Viveva VIA CONSOLARE FondazioneRuffilli- Forlì iacco.nto. di 1Jitto.iio. 730.niceUi pressapoco come il suo cane bastardo e solo con lui ormai sapeva parlare. Tornava al podere ogni tanto, nel giro rotondo delle stagioni, a rifornirsi e ogni volta i contadini lo ritrovavano sempre più strano e distaccato da loro e dalle loro cose. Quasi provavano avanti ai suoi occhi sempre più chiari una specie di soggezione segreta, che era fatta di un pò di ti.more e di un pò di rispetto. Essi credevano fermamente che Luciano sapesse parlare alle sue pecore, ai suoi montoni, ai suoi cani ; e forse era vero anche questo; a loro bastava. All'epoca dei grandi lavori stagionali essi lo richiamavano e Luciano era felice perchè allora venivano le domeniche. Nelle pasture Luciano non conosceva i giorni di festa: si regolava col sole e colle stagioni. Solo quand'era al podere egli si ricordava delle domeniche e le aspettava ansioso di giorno in giorno, come uno strano regalo piovuto così, dal cielo. Una strai:ia pausa al suo lavoro, che gli comunicava una specie di felicità misteriosa, e gli recava, da lontananze impossibili, gaiezza e rondini. Questa delle rondini era una cosa assolutamente incomprensibile per i contadini. Luciano andava con loro alla chiesa per la messa e per le rondini; lo diceva: per veder le rondini sciamare impazzite nella piccola piazza. C'erano infiniti voli di rondini intorno al campanile della parrocchia, romanico alla lontana, UJ! pò scrostato che tra mattone ·ci cresceva l'erba; ma così allegro col suo grappolo di campanine stonate che volgevano la gola fresca e canterina alle cime dei cipressi. A Luciano piaceva infinitamente guardare le rondini. Gli sembravano creature trafitte, così con l'ali spalancate in croce, e gli rammentavano Gesù crocefisso. La sua religione era così primitiva che egli non sapeva più; oramai, distaccare le rondini dall'immagine di Cristo sulla croce. E si meravigliava che nella chiesa non ci fossero rondini, almeno dipinte nella piccola cupola rotonda, tra il finto cielo turchino e le stelle di porporina. Quel giorno Luciano andò alla chiesa da solo e così presto, che non c'era nessuno ancora nella piazzetta. C'era soltanto un gran sole squillante nella limpida luce domenicale. E i cipressi spiegavano le loro stupide ombre massicce fino a tagliare il suolo a striscie polverose. Vicino al muro scrostato della canonica Luciano vide una macchia scura. Era un rondinino che doveva essere caduto dai nidi, sotto la grondaia. Luciano lo guardò a lungo, poi guardò in alto, poi' lo guardò 7
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