Una città - anno V - n. 38 - gen.-feb. 1995

di 111e111oria PICCOLI PEZZI DI VITA Il problema drammatico di una memoria che non passa più nell'esperienza quotidiana e familiare. Lo spettacolo dell'orrore che rischia di suscitare rimozione e banalizzazione. Il surrogato dei film usati dalla scuola per consegnare la verità ai giovani. Arrivederci Ragazzi e Schindler's list. Di Andrea Canevaro. Andrea Canevaro insegna Pedagogia Speciale all'Università di Bologna. Di fronte al dolore, di fronte alla sofferenza, ciascuno può sentirsi coinvolto oppure lontano. O anche indifferente. Nel ruolo di spettatore posso applaudire, commuovermi, considerare lo spettacolo brutto, disgustoso, e anche coinvolgente, che mi tocca da vicino. Ma posso legittimamente considerare che lospettacolo avrà una fine: e quando abbandono il mio ruolo di spettatore, anche lo spettacolo è finito, si è concluso. E' circoscritto in una situazione che è propria della spettacolarità. Ecosì, può capitare che molte informazioni sono percepite, da un soggetto simile a me, come spettacolo; si ascoltano, se ne è informati, ci si commuove, ci si indigna, tutti i sentimenti sono possibili: ma è anche sempre possibile uscire dalla condizione dello spettacolo e tornare alla vita, che ci riguarda più propriamente. Questa doveva essere la situazione che un giovane tedesco, di nome Kurt Gerstein, poteva vivere nel sentire quanto accadeva nella sua patria, la Germania, negli anni alla fine del decennio '30-' 40. Kurt Gerstein era una persona "coltivata", si direbbe. Aveva dei buoni studi, una buona preparazione teologica, una conoscenza dell'umanesimo del suo paese, e viveva quello che stava accadendo senza sentirsi particolarmente coinvolto se non, diciamo noi, come spettatore che può uscire quando vuole dallo spettacolo. Ma accadde qualche cosa. Accadde che una persona della sua famiglia, con disturbi di carattere psichico, fosse individuata e avviata allo sterminio. Era la grande operazione che, con presupposti di carattere tecnico-scientifico, aveva come conseguenza lo sterminio dei malati psichici. Questo fatto non permise a Kurt Gerstein di mantenere il ruolo di spettatore e di sentire quello che stava accadendo come uno spettacolo. Il coinvolgimento cambiò intensità. Non era più solo il coinvolgimento emotivo, che si può avere nel sentire una notizia o nell'osservare una scena, ma era qualche cosa che penetrava in profondità nella stessa ragione esistenziale del giovane Kurt Gerstein. E Gerstein fece una scelta coraggiosa ma difficile da decifrare ancora oggi. Gerstein nel '40 venne a conoscenza dell'uccisione e dell"'eliminazione", come veniva piuttosto detto, dei malati psichiatrici; e venne a sapere che tra le persone eliminate vi era la propria cognata. A seguito di questo decise di entrare nelle SS. Questa decisione fu presa per avere più possibilità di sapere, cioè di avvicinare i fatti, di avere delle prove, e di cominciare a far sapere ad altri quanto stava accadendo. Si può immaginare che, quindi, le notizie non fossero del tutto chiare, fossero coperte da un linguaggio tecnico che permise in pochi mesi, dal gennaio ali' agosto del 1940, di eliminare 70273 malati di mente. L'espressione tecnica impiegata fu "eutanasia"; così come, per altre popolazioni, l'eliminazione era un'eliminazione per popolazioni biologicamente indegne. Dal momento, però, che l'eliminazione di una persona, su 70273, toccava personalmente la vita e la conoscenza di Gerstein, in lui scattò il desiderio di saperne di più per denunciare, o per far sapere. Iniziò, quindi, una vicenda umana tra le più difficili. Gerstein ottenne, dopo mesi di servizio, di poter inserirsi nella stessa organizzazione del!' eliminazione, non come esecutore materiale ma come personale tecnico che doveva fornire le sostanze per l'eliminazione e come controllore del progetto. Una condizione di questo genere non gli permise di avere una credibilità tale da poter essere riconosciuto, alla fine del conflitto, e, quindi, alla fine del nazismo, come persona che aveva fatto una scelta contro lo steminio. Rimase in una situazione di ambiguità che lo costrinse ad essere prigioniero, e su di lui fu necessario avere maggiore conoscenza, svolgere delle indagini. Questo fatto, questa difficoltà ulteriore, o la sua stessa figura di individuo che aveva molte cose da rivelare sulla implicita complicità tra vincitori e vinti, loportarono alla morte. Sulla morte di Gerstein non sappiamo dire molto di più, se non che fu un suicidio sospetto, che rimase l'idea che potesse essere stato portato al suicidio, o che il suo suicidio fosse stato messo in scena. Il sospetto, appunto, che la sua figura fosse troppo scomoda, e che la sua voce potesse raccontare le difficoltà avute nel- !' essere ascoltato, una volta in possesso delle prove dello sterminio. Perché Gerstein fece ogni tentativo di mettersi in contatto con rappresentanti di altri paesi, e anche con ecclesiastici, per far sapere al mondo quanto accadeva. Ma non fu creduto o, comunque, non ebbe la possibilità di sentirsi appoggiato nella sua impresa, che rimase nell'ambiguità. Una strana figura, questa, di un SS che, indubbiamente, prestò tutti i servizi propri di una SS, e che dichiarò di aver fatto questo per testimoniare e conoscere l'organizzazione dello sterminio. Quello che interessa mettere maggiormente in rilievo è la possibilità che un coinvolgimento diretto trasformi uno spettatore in un attore, non più di uno spettacolo, ma della sua stessa vita. Cambia allora la dimensione della nostra percezione: non è più l'indifferenza o la partecipazione emotiva a uno spettacolo che finisce, ma diventa l'invasione della nostra vita da parte di fatti, di avvenimenti che non possiamo più considerare a termine, che sono per tutta la nostra vita. E questo può farci riflettere su una storia recente che ha attraversato ogni famiglia. In Europa e in tanta parte del mondo, una storia di orrori non ha risparmiato nessuno, e non ha permesso di tenere così distinti come vorremmo i vincitori e i vinti, i giusti e gli ingiusti. Forse in ogni famiglia ci sono stati dei momenti di complicità col male, e in ogni famiglia si è vissuto il conflitto di sapere che vi era un giusto in un perdente e un ingiusto in un vincitore. Questo non significa relativizzare, tanto meno significa banalizzare. Al contrario. in ogni famiglia il conflitto ha lasciato traccia La banalizzazione è la tragedia dopo la tragedia; è la possibilità che lo sterminio compiuto nei confronti degli ebrei, degli zingari, e poi, ancora, degli omosessuali e degli avversari politici, in particolare dei comunisti, venga considerato nello stesso identico modo come tante altre tragedie che sembrano colpire continuamente l'umanità. E, quindi, possa essere ridotto a qualcosa di banale, che sembra endemico nella umanità, fa parte del modo di essere umani. Questa banalizzazione è il contrario della possibilità di scoprire che in ogni famiglia, se fare riferimento alla famiglia ha un senso, ma anche in ogni gruppo umano di questa parte del mondo e in questa parte di storia, il conflitto è passato e ha lasciato delle tracce. E dimenticare queste tracce può essere ri-assumere un'indifferenza pericolosa, perché può permettere che lo sterminio, l'orrore si ripeta senza sentirci custodi di unamemoria dell'offesa. Equindi di un impegno a che l'offesa non si ripeta. Il conflitto che entra nelle storie personali significa anche una memoria che riallaccia le storie delle persone anziane alle storie dei più giovani. Ed è uno dei più grandi e gravi problemi che ci troviamo a vivere: questa difficoltà ad allacciare le storie, a sentirle non raccontate in uno spettacolo, ma trasmesse dagli oggetti familiari, dai luoghi, dal volto, dalla convivenza. L'impossibilità di vivere questo è certamente dovuta a una crisi della convivenza familiare, interrotta, soffocata da tante altre dimensioni, di cui la televisione è forse la più spettacolare, e forse, anche, la più facile da ricordare. Ma anche senza televisione, o con una televisione ricondotta alla sua dimensione di elettrodomestico, la nostra vita sarebbe sempre in grande difficoltà a trovare i momenti, i tempi, la strada Bibl10eca Gino Banco da fare insieme tra persone di età avanzata e persone più giovani. Sembra quasi che ci sia un anello che manca a una trasmissione di memoria. E il recupero dell'anello è difficile attraverso lo spettacolo cinematografico o televisivo, proprio perché la spettacolarizzazione del- !' orrore emoziona e allontana nello stesso tempo. Essa compie, cioè, un grande sforzo per trasmettere delle conoscenze, ma non può collegarle a quelle conoscenze intime conflittuali che sono così importanti per lamaturazione di una coscienza delle storie e della storia. Sembra quasi che sia necessario farle passare nella carne certe cose, certe conoscenze. La vera conoscenza passa attraverso un elemento conflittuale che si può semplificare, e che semplifico volentieri, attraverso la storia di Olga Focherini, il cui padre, uomo dell'Azione Cattolica di Carpi, era considerato da tutti i figli come un padre affettuoso che dava molto tempo a tutti i figli in casa. Olga Focherini ha raccontato, in una conversazione, come per lei, bambina, vi fosse un grande stupore nel notare un cambiamento nei comportamenti del padre che, da un certo momento della loro Vita, ebbe meno tempo per i figli e si chiudesse, a volte, in salotto, chiedendo al resto della famiglia di non disturbarlo, con persone che erano, avrebbero dovuto essere lemeno adatte ad essere ospitate in quella casa e ad essere salutate come amici, perché erano ebrei e comunisti. Erano quindi delle persone che, senza essere state indicate o presentate come cattive, facevano parte però, per i bambini, delle persone non buone, non frequentabili. E invece, accadeva che questo padre amato si chiudesse in una camera a parlare a lungo con questi personaggi un po' misteriosi e un po' minacciosi, in un primo tempo. E poi li salutasse anche con abbracci. Questo padre amato e considerato da tutti come un uomo retto, un uomo religiosissimo, venne arrestato, e fu portato in prigione. E per una bambina, come era allora Olga, il fatto di avere un padre in prigione era uno sgomento, perché in prigione ci andavano i ladri e i cattivi. E poi fu portato al campo di Fosso li, dove la madre di Olga andò per cercare di comunicare attraverso il filo spinato; e lo videro nel campo delle persone che dovevano avere fatto qualche cosa di male, per essere dietro un filo spinato e per essere sorvegliati dalle sentinelle. E poi fu avviato ad altri campi: il campo di Bolzano, dapprima, e poi a Flossenburg; e le lettere che arrivavano confermavano che era in un campo di concentramento. E questo, per dei bambini, è un elemento di sbigottimento e di conflitto. Bisognava riorganizzare i valori, il bene e il male. Il padre onesto che va in prigione è qualcosa che mette in dubbio di avere capito come sia fatto il mondo e dove stia il bene e dove stia il male. Allora bisogna riorganizzarlo. vedere il padre appartato con uomini cattivi Ed è quello che ha dovuto fare Olga Focherini, ed è quello che hanno dovuto fare tante altre persone: riorganizzare le proprie conoscenze e i propri valori sulla base di quello che è entrato in casa, o sulla base di una conoscenza conflittuale, e difficile da sopportare, di quelle che sono state le scelte giuste e sbagliate dei nostri padri, delle nostre famiglie. E che sono da collegare con le informazioni che un buon cinema, una buona televisione, una buona letteratura può dare alle giovani generazioni. E allora si può immaginare come la vita di Gerstein possa diventare una sorta di paradigma che porta a capire come, finché si rimane spettatori, ci sia una possibilità di uscire e considerare lo spettacolo finito. Ma dal momento in cui ci si accorge che non è uno spettacolo ma sono elementi che entrano nella nostra vita e non ne .usciranno più, da quel momento possiamo provare una tale angoscia da doverci difendere e riallontanare questi elementi, e ricollocarli in una spettacolarizzazione. E, forse, essere così angosciati preventivamente, o timorosi di diventare angosciati da quanto è accaduto, fa davvero pensare che la banalizzazione può essere un modo per sentirci più tranquilli. Ma non lo sarà. Non lo sarà, e questo è l'inganno. E questo è l'elemento più drammatico di queste vicende, perché la banalizzazione non può che preparare nuove e più grandi sciagure, più coinvolgenti ancora di quello che può essere il coinvolgimento della memoria. Più coinvolgente perché non sarà più una memoria da rispettare e far diventare valore per la nostra vita attuale, ma sarà una nuova tragedia. Questo non lo si dice per un desiderio di essere severi nei confronti di chi non vuole capire o non può capire. Ma per avvisarci, e dire a tutti noi che il tradimento della memoria può essere questa brutta cosa che è la banalizzazione dell'orrore. Il successo di pubblico del film Schindler' s List ha proposto ali' attenzione di tutti il problema del rapporto fra la conoscenza di una vicenda storica tragica e la volgarizzazione attraverso le immagini. La spettacolarizzazione del dolore è stata ed è un modo di realizzare buoni indici di ascolto nei programmi televisivi. E questo ha creato non poche perplessità e opinioni contrastanti. Per un verso viene considerata positivamente la possibilità che un vasto pubblico entri in contatto con situazioni drammatiche; d'altra parte, vi è chi considera questa stessa possibilità un rischio di banalizzazione e di perdita del senso specifico di una tragedia. Chi, in particolare, ha ritenuto che televisione e cinema potessero funzionare come strumenti di conoscenza e di trasmissione per le giovani generazioni, ha avuto qualche esperienza fortemente deludente. L'impiego di film come quello atroce sugli effetti dell'uso delle bombe atomiche aHiroschima eNagasaki, ha avuto esiti poco belli in rappresentazioni per le scuole, con la sala cinematografica divisa in una maggioranza vociante e irridente e una minoranza doppiamente sconvolta dalle immagini e da come erano accolte dai coetanei, ragazzi e ragazze. i risultati deludenti delle proiezioni dei film sugli orrori Non si tratta di giovani cinici e perversi. Sono soltanto persone assuefatte allo spettacolo della mostruosità tragica, proposta in mille immagini quotidiane dalle televisioni. Il vero ed il falso si confondono, ed i corpi martoriati dei feriti da bomba atomica non sembrano distinguibili, e possono essere assimilati al verismo di certi film dell'orrore. Il film di Spilberg ha una caratteristica che potrebbe essere definita "onnipotenza del narratore". Il racconto permette di vedere tutto: non solo ciò che accade alle vittime ma anche la vita privata dei carnefici. Forse troppo, per mantenere una visione che consenta di collocarsi nella parte di chi ha sofferto. E l'onnipotenza del narratore ha fatto dipingere un ritratto fortemente patologico di uno dei responsabili del campo di sterminio. E' uno dei rischi che sono stati più segnalati dai superstiti che hanno testimoniato. Hannah Arendt ha parlato di banalità del male: chi ha avuto compiti esecutivi ed organizzativi nello sterminio era il più delle volte un individuo di sconcertante normalità, capace di vivere tutte quelle vicende con la pignoleria e la dedizione che avrebbe messo in un qualsiasi lavoro, e quindi trasformando una tragedia straordinaria in una ordinaria routine. Descrivendo un responsabile dell'ordine di un campo come un caso dalle tinte patologiche, corriamo il rischio di non capire per nulla quella banalità e nello stesso tempo, paradossalmente, di banalizzare le immagini tragiche -come si è dettopermettendone una confusa assimilazione con immagini horror della fiction. Spielberg ha avvertito questi pericoli. La scelta del bianco e nero per l'immagine, anche se non gli ha impedito la patologizzazione di cui si diceva, è legata a questa consapevolezza: ha scelto una formalizzazione che permetta la percezione del documento storico da parte dello spettatore. Ha voluto connotare con una piccola macchia di colore -il rosso di una sciarpa- una bambina, perché lo spettatore ne ritrovasse la presenza nel mucchio delle vittime. E se questo è un mezzo efficace sul piano spettacolare, è pero anche l'ammissione implicita che quell'onnipotenza del narratore deve poi ricorrere a qualche trucco, a qualche trovata intelligente per permettere, a tratti, un'identificazione particolare. La coralità è certo evidenziata da una conclusione che richiama i superstiti a presentarsi ed evocare gli scomparsi, ed a testimoniare la straordinaria vicenda della lista di Schindler. Ma anche la coralità è ottenuta attraverso un grande mestiere cinematografico, esercitato senza limiti, e nello stesso tempo con l'apparente accettazione dei limiti di chi vuole unicamente testimoniare. Il film di Spielberg vive questi contrasti contradittori, ed è in qualche modo un'opera esemplare per capire un problema che non può essere delegato unicamente al cinema ed ai suoi autori. E' il problema della trasmissione della storia passata, recente, che ha ancora fra noi una parte dei suoi testimoni diretti e quindi protagonisti. Periodicamente scopriamo la nostra ignoranza, e quella delle più giovani generazioni. Un'ignoranza che sembra confermata spettacolarmente dai gruppi di neonazisti giovanissimi. Pensare di vincere l'ignoranza esclusivamente con i film o con la televisione è un errore ingenuo. Una narrazione attraverso le immagini cinematografiche o televisive può essere valutata per la forza stilistica, per la qualità poetica; non dovrebbe essere necessariamente implicata nel problema della conoscenza della vita dei padri e delle madri, dei nonni e delle nonne. Può essere un motivo, un pretesto, per riprendere un dialogo o per cominciarlo. Perché la trasmissione di conoscenze della storia recente -e il recente non ha scadenze di calendario, ma sfuma e si intreccia con altre fonti ed altri tempi- ha bisogno della sedimentazione di un dialogo quotidiano. Il dramma del nostro tempo, nella nostra area geografica, è la scomparsa di molte delle occasioni e degli oggetti che quotidianamente potevano intrecciare e tessere il dialogo fra generazioni, con il non detto che cela le parti conflittuali, con le scoperte che le verità possono essere circoscritte ali' ambito familiare e che la famiglia di un compagno o una compagna di scuola può aver vissuto altre verità ... Mancando tutto questo, si vorrebbe che la scuola, o un film, consegnassero direttamente "la" verità ai più giovani. La scuola fa fatica a farlo e spera di servirsi di qualche strumento persuasivo anche tecnologicamente, come appunto può essere un film. Ma è una speranza vana. Ed è una prospettiva che può falsare la percezione ed il giudizio sui film che hanno testimoniato e narrato il genocidio nazista. Criticando in qualche modo l'assunzione di un punto di vista onnipotente, o meglio onnisciente, privilegiamo la narrazione che accetta il percorso dell'ignoranza, che è una parte non piccola della tragedia delle vittime. Ciascun autore ha il suo stile e la sua personalità, e questo aspetto fondamentale rende poco sensato un criterio di comparazione tematico. In altre parole: è inutile o. dannoso fare una classifica delle opere filmiche che hanno trattato il tema del genocidio nazista. E' utile invece ricordare il genocidio così come è implicato in narrazioni che wtrebbero essere percepite come lontane dal tema. Au revoir! les enfants, per esempio, è solo un racconto che affonda nel!' infanzia di Louis Malle o non può, a giusto titolo, essere collegato proprio alla complessità dell'organizzazione del genocidio nazista? Se è così -e credo che sia così- il quadro di riferimento cambia. Ma soprattutto cambia la ragione che può guidare la visione di un film. Non ci si aspetta l'opera che riveli un'epoca ed un evento, ma la narrazione che permetta di comprendere un pezzetto di vita su un certo sfondo. Non si attende "la" verità in assoluto, ma un contributo che risuonerà in ciascuno in modo particolare. Personalmente, credo che molte narrazioni cinematografiche mi ·al:>bianoaiutato non tanto a conoscere la •verità, quanto a comprendere la complicità . este~a che una tale tragedia -il genocidio nazista- ha implicato. i committenti e i lettori che non ci sono più In questo senso, i confini dei film che hanno trattato questo tema si dilatano. Ogni elaborazione narrativa, esige una doppia riflessione: sugli avvenimenti rappresentati o richiamati e sul tipo di narrazione. Questo secondo aspetto può aiutarci a capire le molte implicazioni contingenti, i molti vincoli che ogni autore incontra e con cui deve fare i conti. Anche gli aspetti ed i vincoli di carattere commerciale. Se questi condizionamenti siano tali da deformare la narrazione è uno degli elementi che sempre vanno considerati in qualsiasi opera. E ogni autore può avere più committenti. Nulla di scandaloso che vi sia anche il produttore. Ma oltre a questi, e magari anche in conflitto, vi possono essere altri committenti, moralmente molto impegnativi. Come per i libri di Primo Levi dove sembra chiaro, e fortemente impegnativo sul piano emotivo e su quello razionale, che il lettore che è vivo si affianca a lettori che sono scomparsi prima che il libro fosse scritto ma che sono stati committenti del lavoro dell'autore. Lo stesso può accadere per un film. E un eventuale motivo di impoverimento espressivo può essere dimenticare di narrare anche per coloro che non potranno vedere e di narrare come se potessero vedere. - UNA CITTA' 1 1

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