storie NOI SIAMO DI JUNGBUSCH Nel quartiere italiano di Mannheim, l'esperienza con un gruppo di giovani delle scuole differenziali che alla propria insicurezza reagiscono esaltando la loro differenza. Intervista a LisaMassetti. Jungbusch era il quartiere dei portuali, all'inizio del secolo, un porto fluviale, per cui c'erano locali a luci rosse e quell'atmosfera tipica delle zone cosiddette malfamate. Oggi ci abitano anche gli alternativi di sinistra, gli intellettuali, i bohemiens, eccetera. Sta di fatto che la popolazione di J ungbusch è multiculturale: la maggioranza è turca, poi ci sono italiani, jugoslavi, portoghesi, e una minoranza tedesca. Queste persone sono un po' gli emarginati, tra virgolette, della città. Lì si è raccolta tutta gente col problema comune dell'integrazione non solo nella città di Mannheim, ma nella società tedesca. Quando arrivi a Jungbusch hai l'impressione che sia un posto abbastanza piccolo, raccolto, ma di fatto questa situazione di raccoglimento non c'è: se tu entri nel quartiere e cominci a vivere lì ti rendi conto che le cose sono molto dispersive, che le varie nazionalità non hanno contatto tra di loro e ci sono vere e proprie nicchie di appartenenza. A Jungbusch c'è il Gemeinschaft Zentrum, letteralmente "centro di comunità", finanziato dal Comune di Mannheim, dalla Chiesa Evangelica e dalla Chiesa Cattolica, e va avanti con donazioni e elargizioni. Da due anni in questo centro c'è un nuovo direttore, abbastanza giovane, che si rende conto dei problemi di fondo, per cui cerca di fare progetti rivolti soprattutto ai giovani e ai bambini. A Jungbusch c'è già un consultorio familiare, che funziona bene, c'è la sede di un'Associazione turca, poi c'è la Jugendinitiative, che raccoglie tutti i ragazzi del quartiere. In teoria dovrebbe funzionare come luogo di incontro di diverse culture, ma, purtroppo, non è facile perché di fatto ognuno crea la propria nicchia e si chiude dentro. Fra l'altro ci sono situazioni di intolleranza e di razzismo grandissime. Guardando, per esempio, le piccole bande di questo quartiere, compresi i ragazzi con cui ho lavorato, il turco viene accettato solo se all'interno del gruppo ha un ruolo che è di supremazia, perché è più forte, perché è un dritto, magari perché ha dei piccoli giri di droga e permette agli altri di fumare gratis, ma non perché in realtà ci sia la voglia di conoscersi e stare insieme ... Gli obiettivi di innovazione del Zentrum sono di creare occasioni di incontro, di lavoro insieme nel tempo libero. Ma è molto difficile. Il mio progetto è nato da un incontro tra il direttore del centro e la psicologa Maura Lucci che conosceva le mie esperienze in Italia, le situazioni in cui ho lavorato: i tossicodipendenti, l'esperienza al manicomio di Imola, i bambini handicappati e così via. Ho scritto un progetto, che è stato accolto bene, e siamo partiti. Il progetto è stato presentato ai ragazzi come un laboratorio teatrale basato su tecniche d'mprovvisazione e finalizzato alla rappresentazione di uno spettacolo. Così i ragazzi hanno la "scusa" di fare teatro per mettere in scena uno spettacolo, imparando quindi tecniche teatrali, mentre noi cerchiamo di usare il teatro per cercare un filo di comunicazione e creare un ponte tra noi e loro, ma soprattutto fra di loro. Il direttore era un po' perplesso perché il teatro non era mai entrato al Zentrum, però istintivamente si è fidato, ha pensato che il teatro fosse uno strumento da verificare. Ma non aveva idea di che cosa avrei fatto. Ci sono state molte iscrizioni, in maggioranza di turchi e italiani. L'età dei ragazzi andava dai 15ai 20 anni ed erano in prevalenza maschi, solo un terzo erano ragazze. Di questi ragazzi nessuno ha un lavoro, vanno a scuola, ma in realtà sono solo iscritti, frequentano poco, qualcuno fa dei lavoretti. Dopo un certo periodo nel quale l'obbiettivo era conoscerci, c'è stata un' autoemarginazione dei turchi, per cui, alla fine, ho lavorato soprattutto coi ragazzi italiani, tutti di origine siciliana. Lì c'è un modo di stare insieme che è veramente la legge della jungla e passa attraverso il riconoscimento del capo, del più forte, di chi in quel momento, nel quartiere, è più stimato perché magari è più uno "dritto". Insieme non fanno esperienze, non comunicano tra di loro. comunicano sempre attraverso le mani, o condividono la droga, o fanno piccoli affari. Quindi non sanno cosa vuole dire entrare in comunicazione, non perché non abbiano gli strumenti per farlo, ma semplicemente perché vivono delle situazioni, dentro le loro case, dove non c'è nessuno che li ascolti, non c'è nessuno che si interessi di loro, non hanno proposte, non hanno stimoli, per cui si arrangiano, hanno sfiducia di poter cambiare, non hanno una visione del futuro. Non parliamo poi della fiducia in se stessi: si costruiscono la fiducia di sé su modelli stereotipati, che sono quelli che conosciamo, la forza, il potere ... Si può dire che, quando entriamo in contatto con la loro realtà, la loro sicurezza sia data solo dalla nostra insicurezza. C'è poi da dire che alcune di queste famiglie hanno morti di mafia e i ragazzi hanno vissuto dai racconti dei genitori, dei nonni, la storia della famiglia. E' una situazione difficile, smontano tutto quello che tu gli fai arrivare, sono molto provocatori. Ho vissuto situazioni di grande tensione, come quando è scoppiata una rissa fra due ragazzi: i due si menano, il gruppo fa cerchio, come succede in un branco, e quelli possono menarsi a sangue tranquillamente. lo intervengo ma vengo spinta fuori, allora chiedo aiuto a un altro e riusciamo a separarli. Una volta separati c'è un momento di grande silenzio e io dico che voglio di eutere di questo, sapere che cosa è successo, vorrei che tutti dicessero come hanno vissuto questa cosa. Uno dei due interviene e dice: "gli spaghetti una volta conditi non si scondiscono più ...". Questa frase vuole dire tutto, non c'è da discutere, è così e basta. Una ragazza dice: "è una cosa da maschi", quindi va risolta in questo modo, non esiste che si possa discutere. Ho chiesto se c'era qualcun altro che la pensasse come me e volesse discutere, visto che eravamo un gruppo di 15 persone. Piano piano sono venute fuori le loro posizioni, ma erano molto colpiti dalla mia richiesta, non sono abituati a mettersi in discussione perché certe cose vanno risolte in quel modo, anche dentro le loro case: "lui mi ha offeso, io lo meno e se posso lo faccio a pezzi", questa è la logica. Fra l'altro, all'interno del gruppo c'è la regola che se non lo fai sei un codardo e non sei più rispettato. Io ho battuto molto su questo punto, su cosa vuol dire il rispetto. Per loro è il rispetto della famiglia siciliana, il rispetto dei valori di supremazia di uno sull'altro. "Tutto a posto", ha detto uno, e l'altro invece non voleva parlare. Più tardi quest'ultimo ha spaccato una bottiglia di coca cola a terra perché aveva accumulato tanta aggressività repressa, come dire:" sì, lui mi ha picchiato ma io potrei fare di peggio con questa bottiglia". Dopo questa serata abbiamo fatto un incontro solo per discutere di questo e lì sono venute fuori le loro debolezze e le loro insicurezze: non sanno come difendersi, la loro difesa è aggredire prima di essere aggrediti. Sono stati, verbalmente, molto aggressivi anche nei miei confronti. Non penso che in questi cinque mesi si sia costituito un gruppo, io penso che sia stato un inizio, nel senso che questo gruppo, dopo la rappresentazione dello spettacolo, ha fatto delle richieste al centro in maniera unanime, quindi si sono dati un'identità di gruppo, ma senza, in realtà, averla ancora. Di sicuro in questo tempo è stato possibile creare un ponte comunicativo fra di loro. Per me questo è stato un successo al di là del fatto che lo spettacolo sia stato bello, con la giusta tensione. All'inizio erano molto diffidenti, mi dicevano: "tu stai qui tre settimane, poi te ne vai perché noi siamo di Jungbusch". "E cosa vuole dire essere di Jungbusch?", chiedevo io. "Tu non sai che noi siamo speciali?". "Fatemi vedere questa specialità ...". Allora rimanevano un po' disarmati, per loro bastava la parola: essere di Jungbusch vuol dire essere un po' mafiosi. lo dicevo che non sapevo niente e chiedevo di spiegarmeJo. ''Tu sai che siamo di Jungbusch e I rpaschio, è più duro, è riconosciuto come 16 UNA CITTA' perciò tu non puoi reggere con noi perché tu sei una che viene dal centro, sei una privilegiata, e non puoi reggere questo ambiente." Io ho sempre detto: "ragazzi, voi siete liberi". Liberi vuole dire: io ho degli strumenti, sono questi, vogliamo fare un progetto insieme? Chi vuole farlo continua a venire, chi non vuole è libero di non tornare, nessuno è obbligato a stare qui ... Vuole dire che io ti accolgo in questa tua diversità; diversità che forse fa paura perché, nonostante ci si definisca aperti, senza pregiudizi, in realtà il pregiudizio è dentro di noi. Per me questo punto è fondamentale, perché loro hanno una casa, teoricamente potrebbero andare a scuola, ma non hanno una casa che li accoglie e la scuola non è un ambito di accoglienza. Le scuole che questi ragazzi frequentano, per esempio, sono tutte scuole differenziali e ali' interno di questa struttura non sono accolti, se mai è un'area di parcheggio, è una scuola raccatta-scarti. Sono tutti ragazzi di 16 anni che vanno là per finire, per avere questo benedetto lasciapassare per entrare in un lavoro, ma non è un luogo dove si può fare un'esperienza di vita, un'esperienza di comunicazione, è un luogo che loro rifiutano. Al contrario, se c'è accoglienza è possibile instaurare un rapporto comunicativo. Quando io, in varie situazioni, ho difeso i ragazzi al Zentrum, l'ho fatto perché so cosa c'è dietro, da dove vengono, qual è il loro ambiente, per cui ho questa disponibilità. Loro chiaramente rifiutano la scuola, hanno sulla scuola dei luoghi comuni -che non serve a niente, che gli insegnanti li sgridano, che li mandano fuori dalla porta ...-, ma hanno anche dei comportamenti che non hanno niente di civile, perché non sanno come si sta in un certo luogo. Li ho portati a teatro, per molti è stata la prima volta, era uno spettacolo per ragazzi di quell'età e ne sono successe di tutti i colori, una comica. Loro si sentivano un po' insicuri perché non c'erano mai stati e hanno trasformato questa insicurezza in atteggiamenti aggressivi e arroganti. Tutti gli altri aspettavano il turno per prendere il biglietto ... loro hanno toccato tutto quello che c'era lì dentro, c'erano dei panini all'angolo del bar e in quattro e quattr'otto tutti avevano il panino in mano, li avevano presi senza chiederlo, poi volevano entrare senza aspettare il turno ... Si fa buio e tutto il gruppo si mette a fischiare e a gridare "fuori, fuori!" ... Facevano i commenti ad alta voce e, quando è uscita sul palcoscenico un 'attrice mezza nuda, ne hanno dette di tutti i colori, "puttana!" ... E' incredibile ... Sanno di avere questo ruolo e se lo giocano fino in fondo. Tuttavia, poi, vivono in modo conflittuale questa identificazione con il "cattivo" di Jungbusch, perché da un lato dicono "noi siamo di Jungbusch, siamo super ...", ma dall'altro dicono anche "però non mettiamo sul manifesto che siamo di Jungbusch...". Fino alla fine non hanno creduto che fosse possibile fare uno spettacolo davanti a un pubblico, con tutti i canoni del teatro. Ho sempre detto loro che nel palcoscenico si può fare e dire quello che si vuole, ma quando si esce dal palco ci sono delle regole, che sono il fatto che uno non può dirmi tutto quello che pensa o sfogare l'aggressività quando gli gira, mentre là sopra si può. Quindi ho sempre cercato di dare loro dei contesti, dei ruoli che provocano la dinamica, il dover parlare di sé. Un contesto era, per esempio, "siamo sulla strada, tu sei seduto e stai aspettando un tram, arriva un'altra persona che è della tua nazionalità, tu puoi decidere di essere quello che vuoi, italiano, tedesco, e poi arriva un negro, tu fai il negro", ed è una provocazione grandissima. In tutte le improvvisazioni la difficoltà che ho incontrato -a differenza del lavorare in una scuola in cui i ragazzi scelgono di fare il teatro come attività ludica, per cui viaggiano con la fantasia, credono ai ruoli, giocano come fanno i bambini, senza problemi- è che non giocano, quindi tutti i ruoli che scelgono nelle improvvisazioni sono crudi e veri, e quello che mi hanno mostrato in tutto il tempo, i ruoli che hanno scelto, le parole che hanno usato, sono le loro parole quotidiane, sono i loro gesti quotidiani. Non fanno per finta: recitano se stessi. ''Tu sei un vecchio che è stanco, come lo rappresenti?" Rappresentano il vecchio stanco che vedono nel quartiere, che ha la bottiglia, che è alcolizzato ... Oppure il nero, l'africano: chi fa l' africano? Nessuno vuole farlo. Chiedo perché. Hanno dei pregiudizi pazzeschi, "l'africano è peggio di noi". Nessuno vuole, poi uno finalmente si decide. Fa l'africano che parla con i verbi all'infinito, che puzza e che va allontanato. Questa improvvisazione l'ho fatta fare a tre per volta finché tutto il gruppo l'ha fatta ... Solo in una un ragazzo ha veramente interpretato l'africano, rispondendo a quello che gli veniva detto. lo inizio un gioco -era ancora la prima fase del lavoro in cui si lavorava sulla comunicazione non verbale, si usavano solo il corpo e i gesti- e cerco delle cose, trovo un oggetto e lo uso, devo fare vedere agli altri che cosa ho trovato nelle mie tasche e passarlo ai compagni accanto, quello accanto può tenerlo, può farci qualcosa o cercarne un altro nelle sue tasche. L'oggetto che avevo trovato era una spazzola, questa ragazza la prende e si spazzola sul sesso, davanti a tutti. Succede che tutto il gruppo si mette a ridere e lei anche. Io le chiedo che cosa sta facendo, lei non risponde e ride. Succede una bagarre, le allusioni sessuali sono tutt'una. lo dico che non c'è niente da ridere, che qui si può fare tutto, che è un gioco; lo può fare, ma lo deve fare bene, perché un'attrice lo fa bene, non tanto per fare. Non lo ha fatto più. Soprattutto le ragazze giocano sulla provocazione a livello di sesso sbragato, stravaccandosi, giocando su queste cose ali' interno del gruppo con i maschi, quella è la loro forza. I maschi hanno la forza fisica, le donne hanno le loro malizie provocatorie. Hodiscussoquestotemaanchecon il team, perché loro avevano delle perplessità, e invece io sostenevo la mia scelta di non reprimere, che ognuno è responsabile dei suoi gesti, delle sue parole, che questi ragazzi sono repressi continuamente e allora diamogli una cornice dove possono fare quello che vogliono. Se io avessi detto che lì dentro non bisognava fare quei gesti, o che non si può mandare affanculo qualcuno altrimenti li sbattevo fuori, non avrebbe funzionato. Sono sboccati, sono volgari, usano il loro linguaggio, devono stupirti perché non hanno niente altro, ma secondo me queste sono delle richieste affettive: "ascoltami, io ti provoco". E io li ho ascoltati in questo modo. Dicevo "bravo, ma se ti tocchi le palle lo devi fare bene, un attore non lo fa mica così...". Questo era parte del mio lavoro. Nel teatro si può fare tutto, l'uomo può fare la donna, tu pensi che qualcuno abbia assunto il ruolo femminile? Nessuno lo ha fatto perché non stanno giocando. Per loro produrre una fantasia è molto difficile, quello che loro hanno prodotto con l'improvvisazione è il loro mondo, e non può essere un altro perché un altro mondo non lo conoscono. Il ragazzo normale in un laboratorio teatrale è capace di giocare e divertirsi, magari è pieno di problemi lo stesso, ma è capace di produrre un altro da sé, loro no, loro producono il loro ambiente, quindi non c'è da stupirsi se tutto è negativo, tutto è poco bello. Ridono per dirmi che io non so niente e chissà dove vivo, che poi è anche vero. Quando si sono confidati è venuto fuori di tutto, e certe volte era dura per me perché poi accogli molta negatività, molta aggressività, e dopo tomi a casa e devi vivere con questo. Senti il conflitto dentro di te, a parte la rabbia che ti viene perché qua ci sono veramente cose di cui qualcuno è responsabile e allora pensi al tuo impegno, al sensq che ha e ti vengono queste domande. E sei molto sola in una situazione come questa -anche se tutto il team del centro ha collaborato e sostenuto il progetto-, sentendo quasi di dover convincere gli altri di quello che stai facendo. La rappresentazione poi è andata benissimo. Abbiamo preparato lo spettacolo in un mese, loro hanno scelto i loro ruoli, non hanno imparato niente a memoria, anche qui c'era uno scoglio grandissimo perché non vogliono leggere. E' venuta molta gente, anche il console di Stoccarda. Nel- !' attesa, prima dello spettacolo, c'era un silenzio sacrale. Ad ognuno ho regalato una rosa, come si fa agli attori. Erano disorientati: vestirsi, prepararsi, concentrarsi; gli dicevo che prima di entrare dentro si è da soli, lo spettacolo teatrale è come una messa ... Concentrarsi è la richiesta più grande che tu puoi fargli. Dopo lo spettacolo, pianti, abbracci, e mi hanno detto che avevo ragione. Non l'avrei mai creduto. Poi a tu per tu, nei giorni seguenti, quando ho preparato questa separazione da loro, alcuni mi hanno detto che volevano fare gli attori, perché poi i giornali hanno scritto delle buonissime critiche, con le loro foto. Questa è stata una grande gratificazione. Un ragazzo mi ha detto "c'è il console, ma allora è importante ...". Gli ho detto "non è importante perché c'è il console, ma perché ci siete voi lì sopra. Fate vedere chi siete voi di Jungbusch, senza paura ...". -
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