Una città - anno III - n. 28 - dicembre 1993

• dice,nbre LA FATICA DI NAPOLI. Dopo le elezioni Cesare Moreno ci parla della situazione di Napoli e della priorità del problema dell'istruzione. C'ERA UNA VOLTA UN PONTE di Miso Morie è l'omaggio funebre al vecchio ponte mussulmano crollato sotto i bombardamenti. L'UMANIZZAZIONE ATTRAVERSO L'ASCOLTO è, per "stazioni", l'intervento di Gianluca _Manzi. In seconda e terza. LA FINE DI MIRAFIORI. Marco Revelli ci spiega come la globalizzazione dell'economia abbia fatto crollare i pilastri della sinistra novecentesca: il partito, il sindacato, lo stato sociale. E come, fra difesa del vecchio e apologia del nuovo, si possa praticare una terza via, l'antico mutualismo operaio. In quarta e quinta. ULTIMA RATIO è la divisione dell'Italia, se fallisse il federalismo. Da Umberto Melotti, sociologo, un'analisi "aperturista" del fenomeno "Lega". NEI MAGAZZINI DEI CARRUGI è l'intervista a Sa/eh Zaghloul, sulle conseguenze degli scontri fra abitanti del centro storico di Genova e immigrati. Con ORTI DI GUERRA di Edoardo A/binati, in sesta e settima. L'ETICADELL'INDECISIONE è l'intervista al filosofo Carlo Sini sulla crisi della politica, forse epocale, sulla fine dell"'uomo universale", sulle possibilità che i popoli mediterranei possano lanciare un ponte verso l'oriente. In ottava e nona. IL SOFFIO DI HARMATTAN, è un racconto di Alessandro Carrera. SGUARDI DALL'ALTIPIANO sono le impressioni di viaggio in Guatemala di Giulia Apollonia. In decima e undicesima. LA RIVALSA DELSACRO è l'intervista a Adolfo Morganti e Andrea Piras, "tradizionalisti" cattolici. IL MISERABILE REGISTRO è /"'attacco" di Vincenzo Buglioni alla pedagogia di don Mi/ani e di tutti i missionari dediti alle salvezze da imporre agli altri. In dodicesima e tredicesima. LA GRANDE NORMA. Nell'intervista a Elena Del Grosso e Anna Garbesi la critica al "progetto genoma", che vuol spiegare tutto con un unico linguaggio e sul quale si appuntano interessi non solo scientifici. L'IRRIDUCIBILELIBRO è l'intervento di Alessandro Quattrone e OLTRE L'EUTANASIA quello di don Sergio Sala. In quattordicesima e quindicesima. UNO SCRICCIOLO DI FRONTEA HITLER. Nei ricordi di Giacoma Limentani il clima delle persecuzioni razziali e l'amarezza per il rischio che tutto venga dimenticato. In ultima • 1anco

un mese di un anno Se si dovesse scegliere un 'immagine per ricordare il '93sicuramente sarebbe quella che ritrae il ponte che non c'è più. A Mostar. Quel crollo ha già fatto dimenticare l'altro, di tre anni fa, quello di un muro costruito per tenere divisi. In questo numero si discute apertamente, ed è giusto così, se sia un bene mantenere l'unità d'Italia. Ma che la divisione a noi sembrerebbe una iattura tristissima, anche nel caso potesse avvenire senza spargimenti di sangue e distruzioni, lo vogliamo dire. Girando per questo numero, da Mirafiori a Napoli, dal ghetto romano ai carrugi genovesi, abbiamo fatto presto a riscoprire che l'Italia è bella perché varia. E che le differenze possono essere ricchezza ce lo spiega Sini nella sua intervista, dove ci suggerisce anche che a unirci intimamente sono stati cattolicesimo e pittura. Allora? Alla fine, al di là di tutti i pro e i contro più o meno razionali, resta la sensazione che si rischierà di dividersi solo perché sant'Ambrogio preferisce non sanguinare alla sua festa. Ne varrà le pene? Nel nostro piccolissimo cercheremo di andare in giro, restando fedeli, così, all'intento originario di fare un giornale "vario". Non abbiamo "linee", ma vogliamo coniugare duf! sentimenti che si guardano reciprocamente: la curiosità per tutto ciò che ci circonda con la cura di ·se, della propria libertà intellettuale, voglia di amicizia e spirito cooperativo. Auguri a tutti. E viva l'Italia con tutti i suoi ponti. I.A FATICA DI POLI Riparare le strade va bene se serve a ristabilire un senso comunitario. La grande novità dell'associazionismo. La priorità dell'istruzione, vera base di ogni sviluppo economico. Intervista a Cesare Moreno. Cesare Moreno, da sempre impegnato nella realtà napoletana, è maestro elementare ed esperto dei problemi de/- l'infanzia e de/l'istruzione. I risultati elettorali potrebbero far dire" A Napoli sono diventati tutti fascisti". Com'è in realtà la situazione? Forse la cosa più interessante è dire che la Mussolini ha avuto successo, come del resto è già capitato con Bossi, perché è esattamente al livello dei suoi elettori: la sua stupidità e insipienza, invece di essere un fatto negativo, per certe persone è diventato un pregio. Ma c'è stata anche tanta gente che ha detto "Beh, in fondo questa è più cretina di me" e non l'ha votata. Se questo è vero allora non è questione di fascismo e antifascismo: semplicemente c'è stata gente che si è resa conto che con i discorsi solo "contro", generici, non si va avanti. La ragione del successo della Mussolini è che c'è una fetta della città che è fatta di gente che vive al di fuori di qualsiasi regola, persone che si basano su rapporti elementari di forza, di prepotenza. E' una realtà estremamente diffusa e quando uno fa il prepotente tutti i giorni, un po' per vocazione un po' pernecessità, e si afferma non per cultura, ragionamento, modo di affrontare i problemi, ma per la capacità di imporsi, poi non si vede perché non dovrebbe votare per chi si presenta con gli stessi atteggiamenti. E la cosa grave non è che abbiano votato la Mussolini, è che sono così tutti i giorni. Di fascisti ne incontriamo tutti i giorni, il problema è che ne incontriamo molti di più di quelli che hanno votato per lei, li incontriamo anche schierati da altre parti. Di gente profondamente autoritaria, incapace di affrontare i problemi e di avere un rapporto umano positivo con gli altri ce n'è tanta. Inoltre, in questa città le barriere di classe, di cultura, addirittura fra "zone bene" e "zone male", sono fortissime. Ci sono almeno due città, forse anche di più, ci sono dei ghetti interni e la capacità dei fascisti è stata quella di riuscire a pescare in entrambi i ghetti, in quello dorato e in quello miserabile, senza farli entrare in contatto. Li mettono uno contro l'altro, dicendo cose diverse agli uni e agli altri ... Secondo me, però, la preoccupazione vera non deve essere per i fascisti, ma per il fatto che c'è troppa gente che sta fuori da tutto. Una fetta notevole dei napoletani, più del 30%, è priva di ogni forma di rappresentanza, il che significa che è gente che non ha speranza, neppure speranze distorte come quelle che offriva il clientelismo. Praticamente è il dramma di una città in cui il 30% si è schierato, senza grandi entusiasmi, per un qualche cambiamento, per il meno peggio, e l'altro 70% è fuori; è fuori perché conduce una vita che impedisce ogni possibilità di discorso. Se le cose stanno così, allora qualunque sindaco è votato al disastro. Non qualunque sindaco, ma qualunque sindaco che non assuma questa questione come problema principale. Non è che ci sia semplicemente da ricostruire un'amministrazione che non è mai esistita, qua bisogna ricostruire le regole elementari di convivenza. La vera novità, la speranza, sarebbe stata una persona che avesse saputo produrre un discorso centrato su questa ricostruzione civile, che avesse messo insieme gruppi e persone su questo tema. Queste elezioni sono state senz'anima perché, quando si vive in una città in cui tutto è distrutto, dove per fare un chilometro di strada bisogna fare una gimkana tra buche che se ci vai dentro ti si scassa la macchina e ti rompi tutto pure tu, chi è che non dice che bisogna tappare le buche, che bisogna aggiustare gli autobus? Poi ci sono delle cose che non sono scontate, cioè il come si esce da tutto questo: se con le grandi opere, i o grandi investimenti statali, cioè la linea che è stata dei ladroni, oppure se si esce con interventi più puntuali e mirati. Su questo ci sono le differenze, che non sono tanto fra progressisti e non progressisti, ma fra interventi efficaci o inefficaci. In una situazione del genere mettersi a costruire grandi autostrade, fare grandi investimenti è inefficace; non è di destra o di sinistra: non funziona. Invece fare del le cose più mirate funziona. Però, anche se ci si può distinguere un po' sulle soluzioni, fondamentalmente è l'obiettivo strategico che dovrebbe distinguere e l'obiettivo strategico è: lavoriamo per costruire una nuova convivenza nella città, un modo di star bene nella città, un modo di avere rapporti tra persone che sia degno di essere vissuto, altrimenti edifichiamo una città materialmente fatta un pochino meglio, in cui però si continua a star male. Ame il fatto che vengano eliminate le buche nelle strade interessa poi relativamente ... Nella Bibbia c'è un passo in cui si contrappone la città con le mura e le torri, la città chiusa dove è importante accumulare, dove gli uomini sono legati dal fatto che hanno un muro intorno, alla città della tenda, dove la comunità non è legata dal fatto di avere un muro intorno, ma dai vincoli tra le persone che sono più forti di un muro. Quindi il problema è: o la città come struttura fisica e produttiva, di servizi, di presenza dello Stato, o la città come comunità, come luogo di vita, casa comune. Ecco, la città come casa comune io non la vedo, nessuno ne ha parlato in queste elezioni, tanto meno i cosiddetti progressisti, invece a me interessava questo. Se la riparazione delle buche serve a ricostruire questo cemento tra le persone mi va bene, se invece serve soltanto a dire "abbiamo le strade senza buche·•, non che io sia contrario, però non mi interessa eccessivamente. La questione è che o si fa leva sulla possibilità che la gente riconosca che si sta costruendo il bene comune, oppure prevale la logica dell"'interesse generale", che è un processo di astrazione, di gestione astratta di un potere comunque distante perché non può mai essere espressione diretta della vita. Quindi bene comune, mete comuni, obiettivi condivisi: è un processo in cui si deve mettere al centro il modo in cui si arriva a stabilire le cose che possiamo fare insieme; invece nell "'interesse generale" il problema di come viene costruita questa cosa non esiste proprio. L'ipotesi di cui parli presuppone l'esistenza di elaborazioni specifiche e un tessuto democratico di associazioni, di gruppi di base ... Il problema è coniugare i rapporti sociali. "Coniugare" significa, letteralmente, "mettere sotto lo stesso giogo", cioè congiungere la gente: questa è una cosa che non può essere elaborata e poi calata nella realtà. E' qualcosa che o viene prodotta direttamente nei rapporti sociali quotidiani oppure non c'è. Cose di questo genere circolano da decenni, ma sono rimaste nella letteratura sociologica, e non a caso perché non c'è nessuna forza politica e culturale che le abbia fatte proprie in un modo profondo, attivo. Queste ipotesi adesso cominciano a circolare nel nuovo associazionismo, quello che pone al centro il bene comune a partire dai rapporti fra vicini, dalla conoscenza diretta delle persone che si organizzano e che cercano di avere nuove forme di rappresentanza. Da questo punto di vista a Napoli c'è movimento, molto di più di quello che si racconta o di quanto noi stessi sappiamo. E' un movimento che spesso non ha i mezzi culturali e la forza per affermare la propria indipendenza, ed infatti -cosa che a me è dispiaciuta molto, ma era inevitabile- in queste elezioni c'è stata una chiamata a raccolta di tutte SUPERMERCATI queste organizzazioni e praticamente tutti, con pochissime eccezioni, hanno accettato che l'essere rappresentati in politica passasse attraverso l'affiliazione di partito, cosa che, secondo me, è completamente sbagliata. La cosiddetta "società civile" è un'astrazione, un guazzabuglio che non esiste. La "società civile" o è l'organizzazione concreta dei cittadini che lavorano per mete comuni, per obiettivi condivisi, oppure è un'astrazione con cui ci si sciacqua la bocca. E avere un'organizzazione del la "società civile" significa che queste organizzazioni fanno il loro mestiere, cioè sono contrapposte -non in senso strategico, ma perché sono "altre" dall'organizzazione politica o produttiva-ed ognuno fa la sua parte. Invece, purtroppo, continua ad esserci una logica che confonde luoghi diversi. Il cittadino deve fare il cittadino, l'amministratore deve amministrare, il politico deve fare il politico, quando si confondono questi ruoli chi ci "scapita" è sempre il più debole, e il più debole è sempre il cittadino. Io sono intervenuto nella campagna elettorale per propagandare esattamente a questa idea. Tra l'altro, abbiamo fatto un convegno intitolato "Napoli per le generazioni future", che era stato preparato a giugno, in tempi non sospetti, quando neppure si sapeva che l'amministrazione sarebbe caduta, ed era stato preparato proprio come strumento di battaglia culturale nei confronti di qualsiasi amministrazione pubblica di Napoli. E così il problema dell'infanzia, della scuola, dei giovani, è stato presente nella campagna elettorale, in controtendenza rispetto alla città perché nei sondaggi di opinione il problema del traffico riscuoteva, come priorità, 1'80% dei consensi, mentre il problema della scuola solo il 3%, sebbene la scuola a Napoli sia ridotta malissimo. Alla fine si sono concentrate su queste posizioni ben dodici organizzazioni, culturali e di insegnanti, che si sono unite proprio dicendo "Vogliamo avere con la futura amministrazione un rapporto da cittadino ad amministrazione, non un rapporto di sudditanza strumentale". Questo dovrebbe essere un modello del come i parti ti possano rapportarsi con la società civile: il partito dovrebbe essere ridotto ai minimi termini e le cinghie di trasmissione devono essere semplicemente tagliate. Si pensa, soprattutto a sinistra, che il tessuto democratico e lo sviJuppo culturale della società meridionaJe ci saranno solo se si risolverà il problema dell'occupazione. E' così? Il processo di organizzazione di cui parlavo c'è nonostante la debolezza del tessuto produttivo, anche perché le forme di organizzazione sui diritti dovrebbero largamente prescindere dall'occupazione. In altre parole: un disoccupato ha diritti civili? La risposta, ovviamente, è sì, però nella pratica quel che si è detto, e che c'è nella testa della sinistra, è che prima viene la produzione, che si porterebbe dietro lo sviluppo culturale e della società civile. E si dice, altra banalità, "Con lapancia vuota non si ragiona bene". E' vero, però è altrettanto vero che, se per treni' anni non ho ragionato e improvvisamente mi trovo davanti ad una tavola imbandita, il fatto di riempirmi la pancia non mi riempie il cervello. Quindi i diritti civili devono essere esercitati e ci deve essere un'azione per rivendicarli insieme ai diritti produttivi, forse prima ancora. Se negli anni passati la questione dell'istruzione fosse stata messa al centro, innanzitutto come strumento per la dignità e la sovranità del cittadino, non si sarebbe certo eliminata la disoccupazione, però forse si sarebbe eliminato un modo passivo, negativo, di porsi di fronte al problema della disoccupazione. Se si va a vedere la storia dei paesi che, sia nel passato LA FORTEZZA SINTESI s.r.l. 47034 FORLIMPOPOLI (FO) - 1TALV Via dell'Artigiano, 17/19 Tel. (0543) 744504 (5 linee r.a.) Telefax (0543) 744520 -== GRUPPO ~ ORW'FZ/.A l J L

che recentemente, hanno avuto grossi sviluppi economici, si vede che sono paesi che hanno fallo dei grossissimi investimenti per l'educazione. L'impero Austro-Ungarico aveva l'istruzione fino ai quattordici anni già alla fine dell" 800 e ancora adesso il Friuli Venezia Giulia e altre tre o quallro regioni che erano nell'impero Austro-Ungarico sono quelle che hanno il più alto livello di istruzione d'Italia. E non è vero che i paesi che hanno fallo dei grossi investimenti educativi li abbiano falli dopo gli investimellli industriali, li hanno falli prima. Le rivoluzioni culturali precedono le rivoluzioni economiche perché le idee diventano forza materiale, ma le forze materiali difftci Imente diventano idee. Non è che propongo di innovare il rapporto fra le forze materiali e il pensiero, ma certamellle la cultura di un popolo, se per cultura si intende il modo di costruire la vita comune, viene prima degli strumenti pratici che poi si dà per produrre. Per questo un disoccupato consapevole dei propri mezzi, dignitoso, sovrano, certamente sarebbe stato molto meno sensibile al richiamo del cliemelismo di bassa lega, che ci sarebbe stato lo stesso, però in forme più accettabili. Perlomeno, invece di essereun clientelismo individuale, basato sullo scambio mercificato, sarebbe stato un clientelismo più democratico, basato sullo scambio di obiettivi e non sullo scambio monetario. E' vero che chi vive in una situazione dura, di miseria, di illegalità è esposto più di altri al rischio del clientelismo e della corruzione, però bisogna anche dire che se questa persona ha fatto un'esperienza escludente attraverso le prime strutture sociali - cioè le scuole, le strutture amministrative elementari, quelle che garantiscono i diritti di tutti i giorni-, si trova in una situazione di disperazione in cui è disponibile per chiunque gli offra qualcosa. A chi, nel passato, mi diceva "Siamo tutti sulla stessa barca" io rispondevo che non era vero, ma oggi anch'io dico che siamo sulla stessa barca. Siamo su una barca vecchia e scassata,con toppe messeper farla sembrare nuova, con un comandante incapace ed inetto e un equipaggio infedele, fatto di irresponsabili, incompetenti e banditi, e abbiamo dei poveri cristi di passeggeri, alcuni dei quali indubbiamente stanno in prima classe e se la godono, ma ce ne sono tanti che stanno su questa nave per necessità; e allora che si fa? Ad un certo punto, siccome anche nell'equipaggio c'è chi è meno incapace, meno inetto, alcuni possono ritenere che basti sostituire il comandante con uno che sappia individuare la rotta perché le cose vadano bene, ma è chiaro che in piena tempesta un buon comandante può sì stabilire la rotta, ma se la nave è scassata affonderà comunque. E questo non va bene. Un altro può dire ·'Siamo sulla stessa barca. è ben vero che qualcuno se la gode e qualcuno stamale, però aquesto punto lasituazione èdrammatica e se tra i passeggeri c'è qualcuno capace si faccia avanti e vediamo come gestire la sorte comune" cd è possibile che in questo modo si trovi chi sia bravo a rare le riparazioni alla fiancata, altri in grado di sostituire l'equipaggio infedele e in grado di sorvegliare che non rubino pcrlìno durante la tempesta. Che ognuno faccia la sua parte, insomma ... Che ognuno faccia la sua pane e conduca in porto questa barca scalcagnata. li confronto è meno simbolico di quanto sembri. Mio figlio scrive racconti di fantascienza e una caralleristica di questi racconti è il paragone fra il pianeta terra e una nave: in lui e in molti giovani c'è questa coscienza planetaria, per cui noi siamo l'equipaggio di una nave in viaggio che deve vedere come gestire la situazione. La cosa interessante di questa idea è che non possiamo gestire le cosegli uni contro gli altri proprio perché siamo un equipaggio su una nave. Ragionare in questi termini non significa, secondo me, eliminare i conflitti, significa che i conflitti si gestiscono in un modo compatibile col fallo che siamo sulla stessabarca ed è proprio per questo che mi devo liberare dei cialtroni, degli incompetenti, dei ladroni ... Me ne devo liberare mollo più decisamente che non se avessi la speranza di unapalingenesi rivoluzionaria ...Un tempo mi sono fortemente dichiarato ':rivoluzionario" e in modo altrettanto forte oggi mi dichiaro "non rivoluzionario", però sono più radicale oggi che non allora, nel senso che oggi vedo la necessità e l'urgenza del cambiamento, mentre nel passato la speranza di palingenesi non dico mi facesseaccettare l'ingiustizia immediata, ma mi portava adandareoltre con lo sguardo e a non pretendere che la realtà cambiasse subito. Aspettavamo la resa dei conti, per cui dicevamo "A te ti tengo puntato" piuttosto che" Ti devi levare subito". Mi sento più radicale oggi e più indignato delle schifezze. Oltretutto molte cosenon hanno spiegazione, io credo nell'influsso della stupidità nella storia: ci sono meno complotti nelle cose e contemporaneamente c'è un gigantesco complotto fatto dall' insipienza umana, che è il peggiore dei complotti, perché non si riesce mai a beccare il "grande vecchio" perché non c'è, perché sta nella testa della gente, perché sono meccanismi automatici .. Nei discorsi della Lega viene detto che l'assistenzialismo, oltre a dissipare grandi risorse, ha tarpato le ali allo sviluppo del sud... L'accetto con totale tranquillità, le cose stanno esattamente così, c'è poco da discutere. L'unica cosa da contestare a Bossi, e secondo me anche a tanti altri, è che in questi calcoli sui trasferimenti vengono dette delle grandi balle. Faccio 1• esempio più banale: 1•operaio che ha lavorato trent'anni alla Fiat e che una volta in pensione se ne ritorna in Calabria; quando si fanno questi comi si dice "Al sud arrivano tot miliardi come trasferimento", e per trasferimento si intendono appunto pensioni e annessi, cioè trasferimenti cli denaro. Ma il problema è che questi operai la ricchezza l'hanno prodolla al nord, in Australia, in America ... Non solo, ma gli investimenti in edilizia privata falli nel sud in questi anni, compresi i macelli che hanno fatto sulle coste della Calabria, con quali soldi sono stati fatti? Con i soldi di questi che andavano in Svizzera a lavorare e accumulavano pochissimi milioni con le loro braccia ... Ma al nord bisognerebbe anche raccontare che al sud si fa tanta fatica e c'è poco lavoro. C'è gente che cava il sangue dalle pietre, gente che si è costruita le case da sola, mallonc su mattone e ha coltivato i campi levando le pietre. Uno del nord di origine contadina ha detto, tornato al suo paese dal sud ·'Dovreste provare a zappare la terra della Calabria, come è dura e sassosa, invece questa come è morbida..." E' chiaro che la terra del sud non è dura dappertullo, il terreno del Vesuvio èmorbido, però in altri posti ... C'è mancanza di acqua, ci sono dei fallori climatici, quindi c'è tanta fatica e poco lavoro. E molta di questa fatica non dà luogo a un'autonomia monetaria nel senso più moderno del termine. E' indubbio, poi, che ci sono le false pensioni di invalidità, le grandi opere pubbliche, ma tulio questo era notissimo, non l'ha detto Bossi, tulla la letteratura sul sollosviluppo da anni dice esattamente questo: che gli aiuti allo sviluppo in realtà aiutano il sottosviluppo. • ------------------------------stazioni L'UMANIZZAZIONE ATTRAVERSOL'ASCOLTO Molti di noi ricorderanno la scena finale dell'ultimo film di Federico Fellini, La voce della luna (un po' tutte le televisioni, per uno strano scherzo del destino, l'hanno ritrasmessa in occasione della sua mot1e): Benigni, avanzando con il suo incedere sonnambolico e balordo nel falto di una brughiera rischiarata dalla luna e animata dal rumore degli animali notturni, prima di raggiungere un misterioso pozzo si volgeva verso lo spettatore dicendo: "Eppure io credo che se si facesse un po' più di silenzio, se tutti tacessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire." Un'osservazione molto semplice, forse ingenua, che, però, ci segnala umilmente, in questo mondo frastornato, confuso dai messaggi, come una speranza possa sempre maturare nel silenzio. Chiunque, in effetti, abbia veramente detto qualcosa, ha conosciuto, almeno inizialmente, un proprio deset1o. Lo stesso Cristo, prima della predicazione, ha ritenuto necessario ritirarsi, per ricevere, solo al termine di quell'ascesi, da Giovanni, /'eremita, l'uomo del deset1o, il verbo nunzia/e delle acque. Nel silenzio, infatti, non solo ha luogo un vero e proprio combattimento spirituale, il più temerario: quello contro noi stessi, ma cresce l'ascolto, e con l'ascolto la parola che sana, che sorprende, la parola dell'altro. Maestri e allievi si avvicendano così, come ci insegna il buddismo, in un flusso ininterrotto dall'origine alla sorgente. In fondo, notava lo scultore Fabio Melotti, a separarmi da Cristo sono appena venti esistenze. Per quanto ci si adoperi nel moltiplicare le occasioni di discussione o di dibattito, nell'interrogare "lepiazze", ancor oggi gli incontri più significativi fra gli uomini avvengono fuori dagli spazi deputa ti: nei corridoi delle sale di congressi, in aereo o in treno, e più facilmente all'estero, quando ciascuno è facilmente libero da ciò che, malgrado tutto, rappresenta o gli viene attribuito. Quante volte amici, coniugi, amanti, si confessano il loro amore dopo essersi resi conto dell'abiezione alla quale un litigio, nato da un confronto Bibl10eca Gino Bianco su un tema ordinario, li aveva condotti? Persino il mondo che quotidianamente ci appare opaco, ostile al nostro desiderio di pianificazione, assume un senso diverso allorché, spenta la radio, interrotta la conversazione, apriamo lo spot1ello della nostra macchina per una breve sosta in mezzo alla campagna; oppure ad un improvviso mancare della luce, quando un cielo stellato sembra irrompere dalla finestra. Non è dunque un caso che per accedere al segreto dell'at1e, anche noi, come l'at1ista, dobbiamo far lo sforzo di tacere: in silenzio ascoltiamo, infatti, un brano musicale o una rappresentazione teatrale, in perfetta solitudine leggiamo un libro o scriviamo. Che cosa ci impedisce di riservare al resto un uguale trattamento? Che cosa ci impedisce di trattare ogni uomo, ogni cosa, persino l'azione più umile, come quella di lavare le stoviglie o di pulire la casa, alla maniera di un'opera d'arte, così come ha dovuto fare l'artista per ritrarla? I motivi possono essere molti, alcuni comprensibili: l'emarginazione, la malattia, l'ignoranza, una banale stanchezza; altri meno, ma spesso più tenaci e meschini: l'avidità, il benessere, l'impazienza, la superbia; tutti comunque alimentati da una cultura della funzionalità e del sospetto che, pur riconoscendo la sua miseria e il suo disincanto, non ci pensa minimamente ad aprirsi, a mostrare la sua arrendevolezza, se non per consumare, digerire, disprezzare. Una mancanza di fede, perciò di assiduità, di esercizio nel coltivare la libet1à, un silenzio, che non essendo soggetto né a sé né agli altri, ci permetterebbe di valutare e di contemplare le nostre azioni, ciò che ci circonda, come fatti del mondo. "L'umanizzazione", recita un aforisma di una scrittrice brasiliana, Marcia de Sà Cavalcante, "si fa nell'ascolto", eppure niente è così oltraggiato, aggredito, vilipeso come colui che ascolta, il solo, come diceva Anuro Martini, che con il suo silenzio "rende il linguaggio chiaro". Gianluca Manzi C'ERA UNA V011'A UN PONl'E Lunedì 8 novembre '93 ho avuto un lutto in famiglia. Fino a tarda notte è squillato il telefono. Hanno chiamato da lontano gli amici e i conoscenti per farmi le condoglianze. L'indomani sui giornali c'erano i necrologi e le foto. In queste foto, nonostante gli anni, sembrava giovane, snello e sano. Non era ancora tempo per morire, quando se ne vanno quelli che amiamo, è sempre troppo presto, ma quando muoiono di colpo, di morte non naturale, il dolore è più profondo, acuto, persistente. Sopra le verdi acque di Neretva, vivaci come le puledre ed eterne come la vita, in profonda vecchiaia è stato vergognosamente massacrato il più visto e vecchio cittadino di Mostar. Sul luogo dove è nato e vissuto 427 anni, dignitosi e ben portati, amoreggiando con Neretva e facendo amicizia con gli uomini. Nell'estate scorsa l'hanno ferito i "non nuotatori" della riva sinistra e, finito il lavoro sporco, i "non nuotatori" della riva destra. Suonatori di "gusle" {1) e i cantanti di "gange" (2), gente di mente oscura e non abituata ai ponti, ai fiumi e alla città, dalle quali sempre fuggiva e che, nei tempi propizi, saccheggiava e poi distruggeva e bruciava per nascondere le tracce dei misfatti compiuti. Poche città al mondo si sono identificate con le loro costruzioni più belle come Mostar col suo Ponte, che chiamava chissà perché "Vecchio", nonostante fosse lui più giovanile e immacolato di tutti gli altri ponti della città. Per la "funzione" era come tutti gli altri ponti, un loro fratello, ma, per l'età, era un bisnonno. Tutti i fratelli minori hanno fatto scomparire davanti agli occhi del più grande e amato. Lui, Stari Most, li ha accompagnati con tristezza. E' grande giustizia ma scarsa consolazione che siano tutti insieme nell'abbraccio dell'Unica che hanno amato. I ponti sono i più fedeli amanti sotto la cupola celeste. I ponti si fanno per non dovere compiere un lungo percorso, scorciatoia per arrivare prima dove si voglia andare. Con loro le sponde si danno la mano e si maritano. I ponti sono le anime pietrificate degli arcobaleni nati e morti sulle acque. Nessuna delle costruzioni pensate con la testa e col cuore dell'uomo ha tanta "anima" quanto il ponte. Nessuna gli è tanto vicina. li ponte è dell'uomo il cugino più prossimo. I cugini sono tanti e a volte si somigliano molto gli uni agli altri. Lui somigliava solo a se stesso o alla curva lunare che si rispecchia nelle acque di Neretva nelle notti silenziose. Tutti i ponti, con le radici sanguinanti di cemento o ferro, si annidano e crescono sulle rive. Solo Stari Most è cresciuto e vissuto nel verso: "Questo ponte è come il semicerchio dell'arcobaleno, Esiste qualcosa di simile al mondo, Dio mio?" Così è scritto sulla prima pietra posta alle fondamenta nel 1566. Questo ponte lo portò, nella testa e nel cuore, Hairudin, costruttore di ponti ma poeta nell'essenza. Lo portò dalla Persia. Percorse terra e mari fino a farsi calli ai piedi, attraversando montagne e bagnandosi nei fiu• mi. E soltanto là, tra le spondé scoscese di Hum e Velez, sulla selvaggia e misteriosa acqua di Neretva, decise di dare carne al suo sogno. Per questo Stari Most non è solo strada di pietra sull'acqua. E' un sonetto di pietra bianca e tagliata, chiamata ''Tenelia"(3), sulla Neretva. Più poesia che ponte. La sera prima che il ponte si liberasse e fosse consegnato festosamente alla vista e all'uso degli abitanti, quell'anno 1566, Hairudin, segretamente e senza ritorno, lasciò la città. li ponte non vedrà mai. Lo spaventò forse l'incontro con la bellezza che aveva creato, la paura che quel sogno, troppo alto e troppo snello, svanisse nel fiume. O forse era geloso dell'opera sua, che vivesse più a lungo di lui. Non si sa. Quanti sono venuti dopo e hanno guardato Stari Most, sono rimasti abbagliati dalla bellezza. I poeti l'hanno cantato, i narratori narrato, pittori dipinto, la gente, come la gente, vi ha camminato. Per primo ne ha scritto il viaggiatore e scrittore Evlia Celebia: "Ecco, si sappia, che io, umile e povero schiavo di Dio, Evlia, visti e percorsi sedici regni, un così alto ponte, che sovrasta due rocche guizzanti verso il cielo, mai ho visto." L'ameranno e proveranno stupore i viaggiatori e passanti nel corso dei secoli. Nell'Ottocento Bozur e Somet, scrittori. Un secolo prima, nel viaggio verso l'Oriente, il francese Bulè scriveva: «Per costruzione è più audace ed ampio del Ponte Rialto a Venezia, nonostante il ponte di Venezia sia da tutti considerato una meraviglia». Anche Ivo Andric', scrittore, premio Nobel, intingerà la sua penna nella tinta scura della Neretva notturna per rendergli omaggio con la sua scrittura. Intorno al ponte si incontra la gente e si allarga la città. li ponte è più giovane della sua città. Col nome Mostar la città si nomina, per la prima volta, il primo giugno 1474 nel consiglio della Repubblica di Dubrovnik, dove si discute di come premiare Skender "subascia"(4). Non si sa quale premio offrissero i nobili di Dubrovnik a Skender, però si sa che la città ha preso il nome dai guardiani del primo ponte di legno. Ignoriamo quale nome abbia avuto Stari Most nella sua giovinezza. Nella storia di Stari Most è stato l'esame di maturità per i ragazzi di Mostar, i ragazzi che avevano fretta di crescere e si lanciavano dall'alto del ponte verso l'acqua. La maturità si conquistava col pericolo di tre/quattro secondi dal punto più alto del Ponte verso Neretva. Dalle acque fresche e turbolente di Neretva uscivano adulti. Si tuffavano dal ponte anche le ragazze di Mostar, per fuggire da amori infelici e da una vita opprimente. Erano donne bellissime, ingenue e giovani di Mostar. D'inverno, dal Sud, da Dubrovnik e da Makarska, arrivavano i gabbiani. Giravano e svolazzavano intorno e sotto al ponte, da dove i bambini poveri gli gettavano il pane. Gli irrequieti gabbiani, sulle acque, sembravano sponde frananti. Igabbiani ci lasciavano con i primi alberi fioriti. Se i gabbiani da sotto questo ponte "al nord", trovavano il sud, allora Stari Most era il ponte europeo più a sud. Credo più alle bussole naturali dei gabbiani che a t4tli i cartografi del mondo che pongono Mostar più a nord di Dubrovnik e di Makarska. Ecco, questo ponte non c'è più. Ucciso e sprofondato nelle acque, soprawissuto nella gente. Cosa fare? Non desidero che queste righe siano un "In memorandum". Gli abitanti di Mostar sapevano dire: «Che al ponte non succeda niente, altrimenti ne faremo uno nuovo ancora più bello e "vecchio"». Forse così bello e "vecchio" non sapremo più farlo, però possiamo e dobbiamo, ai pazzi, mettere le camicie cucite per loro dalle bandiere nazionaliste; ai veri cittadini di Mostar restituire le chiavi dorate della città e al ponte Stari Most fare un monumento, un monumento che per snellezza nel portamento, bontà e di- .gnità nelle fondamenta sia uguale al primo. Farlo di quella pietra bianca, chiamata "Tenelia", come un sonetto sull'acqua. Un "Ponte Giovane", segno di gratitudine, amore e ricordo eterno a Stari Most e agli uomini, come monito ai "non uomini", sperando che un'umanità più cosciente lo protegga finché non diventi forte e lo consegni da amare alle generazioni future, specialmente quando sia diventato vecchio. Credo che così sia giusto. Miso Maric' Scritto nel novembre 1993 a Exeter, Inghilterra, in esilio, in onore a dove c'era una volta un ponte che ora è solamente un silenzio sepolcrale. Dedicato a tutti i vivi e i morti di Mostar ea tutti gli amici di questa città e agli amici dei ponti che hanno orecchie per sentire. 1) Strumenti musicali della tradizione serba. 2)Can• zoni tradizionali dei Croati dell'Erzegovina occidentale. 3) Pietra bianca usata in Erzegovina. 4) Grado militare nell'Armata turca UNA CITTA' IO numeri .,0000 lire. C. C. I'. N.12405478 intc,tatoaCoop. L1naCitt11a r.l. l'.za Dante 21. 47 I 00 Forlì - Tcl. e fa,: 054.,/21422. La rcdationc ~ apertatutti i giorni. certamentedalle 17 alle l'J. Una cill<Ì si pui>tro\'are nelle lihn:rie: ""h•ltrinelli"". "Tempi 1110,krni".L'Libreria !),·Ile Molinc ,1Bologna. "Dedalu,". "lkllini" ""\linena·· a Ce,ena. "\lob~ Did."" a Facn1a. ··pe,aro Libri" a Pesaro: a Milano: ndk tre ""Feltrinelli". alla 'Ttopia··. ;tlk librerie della S111111lt'. "Cl 1EM" di Via Festa del l'a1rn1w e ··ct:ESI'"" di Via Con,en alorio: a l'a\'ia: alla "Libreria d"a11<:Cardano". alla ··coopL·ra1i,a Libreria llni,er,itaria··. alla "'Libreria (iar1an1i'". alla ""LihrL·rialncon1rn··. alla "Libreria TiL·inum". ;1lla"Libreria Il ddlìno". a "I.a Libreria". UNA CITTA' 3

di operai e altro Partito, sindacato generale, stato sociale: i pilastri della sinistra novecentesca crollati sotto i colpi della globalizzazione dell'economia. La perdita di significato dell'unità nazionale. La fine del modello fordista e dell'idea di una produzione che producesse la società. Il monismo egemonico del toyotismo. Il ritorno al mutualismo delle origini come terza via fra difesa del vecchio e apologia del nuovo. Intervista a Marco Revelli. Marco Revelli, storico, da sempre impegnato nel movimento operaio torinese, lavora al Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università di Alessandria ed è redattore della rivista l'Indice. casa madre negli Stati Uniti, via satellite, in tempo reale, utilizzando, grazie ai fusi orari, gli impianti che sono lasciati liberi dai lavoratori americani che a quell'ora stanno dormendo, ci accorgiamo di aver di fronte un processo lavorativo in tempo Parliamo di sinistra e di movimento_ reale ai due estremi del mondo. operaio. Come vedi la situazione? La transnazionalizzazione dell'economia Sono convinto che in questa fine secolo e l'acquisizione di una formidabile mobiuna serie di grandi pilastri culturali e istitu- · · lità del capitale che può spostarsi in tempi zionali su cui si era formata la sinistra straordinariamente rapidi in ogni parte del novecentesca, stiano crollando e con essi mondo, fa sì che possa scegliersi quelle una serie di tabù o di luoghi comuni: il localizzazioni che gli danno maggiori gaprimato dello stato rispetto a ogni altra ranzie dal punto di vista delle condizioni forma di socialità; la dimensione generale delle forze lavoro, delle infrastrutture, deldell'organizzazione da preferirsi alle dimensioni particolari; l'assistenza pub biica anziché forme di solidarismo che non passino attraverso la mediazione dello stato; l'unità nazionale come valore all'interno del quale il movimento operaio può costruire una politica molto più adeguata che su una base di tipo localista. Questi punti fermi sono stati erosi da una serie di processi che stanno segnando la fine del novecento e che costituiscono una sfida molto J alta, che richiede fantasia, che richiede la capacità di tenere molto fermi i principi, ma molto flessibili le strategie e gli obiettivi. Occorre una capacità di inventare forme nuove, diverse, di stare insieme, di far politica, per rompere frontalmente con i tre elementi che costituiscono la tradizione consolidata della sinistra del novecento, più o meno dagli anni venti in poi, in tutte le sue varianti, dal leninismo al laburismo, all'S.P.D., all'eurocomunismo: il sindacato generale, il partito di massa e lo stato sociale. Questa triade -la crucialità della rappresentanza degli interessi da parte del sindacato generale, il significato del partito come contenitore esclusivo dell'azione politica e lo stato sociale come garante del solidarismo e delJ'universalismo dei principi- è scardinata da due elementi: uno è la fine del fordismo taylorista, cioè la fine di un modello di organizzazione del lavoro e della produzione basato sulla produzione di massa e sulla razionalizzazione del lavoro di grande fabbrica; l'altro è' il venir meno del modello keinesiano di rapporto tra politica ed economia, un modello basato sulla coincidenza fra spazio della politica e spazio dell'economia, fra stato nazionale e mercato nazionale. E a provocare la fine di questi due modelli sono i processi di globalizzazione dell'economia. Questo forse è l'elemento nuovo, radicale, che sta segnando la svolta. E il processo di globalizzazione non è semplicemente il commercio internazionale, non è l'economia capitalista che spazia in tutto il mondo neIJo scambio delle merci. E' che tutto il mondo oggi è diventato disponibile alle attività produttive in termini istantanei, che oggi è possibile comunicare in tempo reale con qualsiasi punto del pianeta e non solo dal punto di vista delle telecomunicazioni, ma anche del trasferimento delle merci. Spostare un semilavorato dall'Europa ali' Australia richiede al massimo diciotto ore. Questo significa che tutto il mondo può diventare un segmento di un processo di produzione globale. Il telelavoro è l'esempio classico. Cipputi è rimasto fermo al suo posto. Agnelli no. Se pensiamo che le grandi softer-house americane, produttrici di programmi per computer, impiegano nel loro ciclo lavorativo ingegneri indiani che, costando da sette a dieci volte di meno, producono i loro pezzi di programma collegati via em con gf elab;:tori ce~i della le politiche dei servizi che gli stati possono mettere a disposizione. Cipputi è rimasto inchiodato al suo territorio di fabbrica e non può prescinderne, ma Agnelli ha acquisito una mobilità straordinaria. Questo significa che le politiche economiche nazionali, che lo stato nazionale che, attraverso la leva fiscale e l'erogazione del reddito ridisegnava i rapporti tra le classi, è totalmente saltato, lo spazio dell'economia è diventato il mondo mentre lo spazio della politica è rimasto quello del territorio nazionale. E alla fine lo stato si riduce a praticare nei confronti del capitale quello che il capitale pratica nei confronti del cliente, tenta di interpretare i bisogni dei vari capitali edi offrire servizi e condizioni tali da attirare gli investimenti. Ci saranno anche funzioni di coordinamento dell'economia, normative, ma questa funzione la svolgono già i grandi organismi sovranazionali, la banca mondiale, il fondo monetario internazionale, la CEE, eccetera. Nel competere per le localizzazioni avranno addirittura maggiori chance singole regioni che non i mastodontici stati nazionali fra l'altro molto differenziati al loro interno. Microregioni o macroregioni che potranno anche attraversare i confini degli stati, ridisegnare aree, Torino potrebbe avere delle ·e Riù forti con Lione che con Milano o o con Venezia. Questa è la dimensione. E se questo da una parte ha messo in crisi il modello di stato keinesiano, dall'altra parte ha fatto saltare il modello fordistataylorista. Cioè un modello che era fondato sull'idea del carattere relativamente illimitato della domanda di beni di consumo durevole, di una domanda, estendibile a tutta l'umanità, di tutti i prodotti del I' industria elettromeccanica, prodotti nuovi, prodotti legati alla modernità avanzata. L'idea, cioè, del primato del produttore sul consumatore, che chi decide i volumi produttivi e la qualità del prodotto ha mano libera, è in grado di imporre queste scelte al mercato. Si credeva, in fondo, che la produzione producesse la società, che il relativo disordine incontrollabile della società potesse essere razionalizzato a partire dalla produzione di fabbrica. Il modello gramsciano era questo: conquistando il potere nella produzione costruivi la società nuova, diversa, razionale. la fabbrica toyotista: . ' . non p1umeccanismo, ma organismo Ma nel momento in cui il mercato diventa globale e la produzione anche, nel momento in cui ha conquistato l'intero globo, paradossalmente, ha misurato i propri confini. Ha verificato che la domanda è un'entità finita, non infinita. li mercato non assorbe tutto il prodotto, il mercato non può coincidere con tutta l'umanità. Ci sono dei vincoli, non solo di saturazione del mercato, ma ecologici, dei vincoli determinati dall'eco-sistema, dei limiti di sopportabilità che non possono essere rolli. Se solo il 7% della popolazione mondiale possiede l'auto, il produltore fordista pensava all'altro 93%. Ma questo 7% di consumatori di auto sta rendendo invivibile il pianeta. Figuriamoci se a questo 7% si aggiungesse anche solo una parte del restante 93%. Il genere di consumi che il '900 ha trasformato in way of life per se stesso, e che immaginava generalizzabile, non è tale, è un way of Iife per privilegiati che tale deve rimanere, altrimenti sarebbe una catastrofe. Lazio ha calcolato quante tonnellate di rifiuti produrrà nella propria vita un bambino nato oggi negli Stati Uniti e quanti alberi si sarà costretti ad abbaltere per soddisfare i suoi bisogni e quanti milioni di litri di acqua consumerà ... Sono cifre spaventose che se dovessero essere estese al resto dell'umanità farebbero immediatamente saltare tulle le soglie di pericolo su tutti i campi. Quindi il mercato globale è anche un mercato che misura i propri limiti strutturali. Allora, in questo mercato, non più infinito ma finito, la competitività globale impone ad ogni produttore di ridurre al minimo i propri costi, di pensare a un mercato non più prodotto dal produttore ma che produce il produttore o che, comunque, retroagisce sul produttore in una misura così forte e impegnativa da mettere in discussione le logiche produtlive, a cominciare da quello che ha caratterizzato la produzione di massa che è l'economia di scala. La produzione di massa finora aveva risolto tutti i propri problemi con dei salti di scala, il problema dei costi, soprattutto dei costi fissi, era stato risolto aumentando il numero di pezzi su cui ripartirli. Questa è stata la logica della produzione di massa. La fine del 900 ci dice che è finita. Se noi andiamo a vedere il modello Toyota, il modello della qualità totale, il modello della fabbrica integrata -esce adesso da Einaudi "Lo spirito Toyota" di Taiichi Ohno- cogliamo subito questo carattere che se, per molti aspetti, radicalizza e completa il modello fordista-taylorista nella sua ossessione di sincronismo produttivo, di gestione scientifica del tempo di lavoro, di massimizzazione del rendimento del lavoro, su un punto è rivoluzionario: nel rapporto tra produttore e mercato, tra produttore e cliente. In questa filosofia il rapporto è esattamente rovesciato. La fabbrica non deve imporre la propria razionalità alla società, deve essere un organismo, non più un meccanismo, in presa diretta con la società e in grado continuamente di assorbirne il disordine e di adattarsi a questo disordine, perché il disordine della società non è riducibile. E devefarloeliminando al proprio interno tutte "le sacche di grasso", tutti gli sprechi di spazio, di tempo, di risorse, soprattutto sprechi di personale, che la produzione di massa caricava nel- ]' economia di scala. Ora la fabbrica deve diventare snella, addestrata al "just in time", a rispondere al momento giusto offrendo la quantità e la qualità richiesta in quell 'istante, non prima e non dopo, da quel determinato cliente, adattandosi e allenandosi, ristrutturandosi per essere costantemente in grado di rispondere ai salti, ai soprassalti, alle cadute o alle riprese di un mercato che non è prevedibile, non è programmabile. Così l'idea della programmazione salta e si passa all'idea dell'occasionalismo. Tutto questo ha conseguenze straordinarie nella gestione della forza-lavoro. La forza-lavoro non può più essere, come nel fordismotaylorismo, quella alterità incorporata nella fabbrica con cui il padrone deve fare i conti, che conosce, che deve conti nuamente dominare e contrastare perché la soggettività operaia se si esprime è antagonismo. Questa idea del fordismo diventa un lusso che il toyotismo non può permettersi. Nella nuova fabbrica si deve costituire una comunità organica di produttori, in cui non ci si può permettere né il conflitto, né la meccanizzazione pura e semplice delle mansioni, ma in cui ai lavoratori si chiede di identificarsi nei fini aziendali, di mobilitarsi per raggiungerli, di spendere la propria soggettività. Meno soggettività esprimeva il lavoratore di Taylor meglio era, nella fabbrica di Ohno invece la soggettività è una risorsa. Nel modello taylorista l'informalità era un disturbo, il lavoratore che inventava un espediente o un piccolo attrezzo per facilitarsi il lavoro e farlo in meno tempo di quello previsto dal cronometrista, commetteva un reato; nella fabbrica di Ohno è un dono che il lavoratore fa ali' impresa, perché la comunità di fabbrica deve essere una comunità totale di cui tutti condividono le finalità. delegato sindacale e caposquadra sono la stessa persona Una fabbrica, quindi, per certi versi più democratica nei confronti del mercato e dei consumatori, perché ne accetta come immodificabili le propensioni, ma infinitamente più totalizzante nei confronti della forza-lavoro. La fabbrica fordista-taylorista era una fabbrica dualistica, in cui l'atto produttivo era il prodotto di uno scontro, la produzione del prodotto era l'effetto di un rapporto di forza e su questo si è costruita l'intera rete delle relazioni industriali.

Tutto il sindacalismo novecentesco è basato sull'idea di organizzare uno dei due fattori antagonistici della produzione in vista di una mediazione. Conflitto e mediazione erano i due aspetti ciel problema. Questi due aspetti vengono meno nella fabbrica integrata toyotista. non è ammesso il dualismo, la comunità cli fabbrica è monistica, è univoca, è ammessa un'unica soggettività, la rappresentanza del lavoro è realizzata nelle funzioni tecniche, il delegato di squadra è anche il capo della squadra. Il ruolo lavorativo e la soggettività sono la stessa cosa, non c'è un versante negozialeconfl ittuale mecliatorio, c'è esclusivamente una comunità di fabbrica articolata nelle sue diverse funzioni le quali devono essere organicamente sincronizzate tra di loro. Questa è l'idea, che si proietta all'esterno nella crisi di un'idea di uno stato sociale che deve mediare tra due grandi classi, di una comunità nazionale che deve competere con altre unità nazionali per attirare gli investimenti e così via. La fine del '900 è la fine di tutti quegli istituti che erano legati alla rappresentanza di interessi, al conflitto e alla mediazione. Di fronte a tutto ciò cosa può essere un movimento operaio? In questo senso io credo che ci siano tre strade possibili di fronte a un'ipotetica sinistra. La prima è quella di difendere la vecchia struttura e le vecchie relazioni industriali, l'idea del sindacato generale, ripeto, l'idea del lo stato assistenziale, l'idea della organizzazione politica di tutti i lavoratori come monopolista della loro soggettività, l'idea di un conflitto di fabbrica che ha come posta l'egemonia ali' interno della fabbrica stessa da parte dei lavoratori perché aura verso questa si egemonizza la ·società. Una seconda via è invece quella di aderire pienamente a questo modello cercando, ali' interno dei suoi caratteri inediti, la realizzazione di pezzi di programma operaio, che ci sono. Non c'è dubbio che nel toyotismo e nel I' onhismo c'è l'idea del la partecipazione, della soggettività valorizzata dal capitale, che è un'idea che è stata dentro per buona parte al programma delle sinistre, al programma operaio del superamento dell'alienazione produttiva. Quindi si può leggere in questa uscita dal fordismo-taylorismo un elemento di realizzazione di questo programma, comunque un terreno su cui battersi per consolidarlo, per incentivarlo. Mi pare che le cose che Vittorio Rieser scrive sulla fabbrica integrata rispondano un po' a questo carattere. Ovviamente questa idea presuppone che la nuova fase non faccia tabula rasa, in modo catastrofico, della istituzioni della fase precedente, che possa sopravvivere un sindacato che negozia e così via. Questa è una possibile strada. O addirittura decidere che si è chiusa un'epoca, che il programma operaio in parte è fallito, in parte è stato realizzato dal capitale. autogovernare collettivamente la propria quotidianità lo credo che tra queste due vie -l'apologia del nuovo e la difesa del vecchio- ci sia anche una terza via. Quella di una disincantata e realistica presa d'atto delle novità e di ciò che è ormai indifendibile nel repertorio politico-organizzativo del movimento operaio, ma, contemporaneamente, di una ricerca delle forme nuove di realizzazione di quello che continuo a considerare il nocciolo duro del programma operaio: i valori dell'autonomia della persona che lavora, della autonomia culturale, sociale, esistenziale della comunità del lavoro dalle devastazioni dello sviluppo capitalistico. Il movimento operaio si è costituito nei suoi principi fondamentali dentro un processo di resistenza alla mercificazione integrale delle condizioni di lavoro implicite nel processo di induslrializzazione. Non è stato un mero prodotto del l'industriai izzazione, ma anche di un processo di resistenza e di difesa di prerogative pre-industriali. Penso alle comunità di lavoro inglesi descritte da Thompson, alle lotte dei luddisti in quanto comunità etico-politiche, eticosociali, che difendevano in qualche modo relazioni non mercificate contro I' introduzione del macchinismo. Credo, cioè, che il movimento operaio si sia costituito nella difesa di un nucleo di umanesimo sociale dentro il processo di burocratizzazione, razionalizzazione, meccanizzazione, mercificazione capitalistico. Questo nucleo essenziale è stato difeso nell'800, nella fase pre-fordista-taylorista con lotte di resistenza, compresa quella delle 8 ore, lotte di resistenza di spazi, di autonomia. Mentre nel corso del '900 il valore dell'autonomia sociale e esistenziale della forza-lavoro è arretrato molto. Lo stesso stato sociale può essere considerato come l'effetto di un BI ES 0 dei céa auGianeo sicurezza, si rinuncia alla propria autonomia di mestiere, produttiva, e si ottiene in cambio una garanzia di un elevato livello di consumo. L'autonomia operaia ritorna fuori con grande forza nel periodo crepuscolare del fordismo, negli anni '60, nelle lotte dell'operaio-massa contro la reificazione e contro l'alienazione, lotte per certi versi fallite perché poi il salto tecnologico le ha spiazzate, ma che avevano al centro questo valore. Ora questo valore dell'autonomia può essere giocato con forza in questa terza fase. Si tratta cliinventare gli strumenti attraverso i quali si continua a praticare quel programma originario del movimento operaio. Che a mio avviso ruota fortemente intorno ali' idea di una cultura della solidarietà. Di fronte a comunità aziendali di produzione egemonizzate dalla domanda di impresa, dall'idea dellacompetizionedi impresa, che tenderanno a assorbire al proprio interno quello che le macerie dello stato sociale hanno lasciato scoperto -avremo le imprese che gestiscono le pensioni, la sanità dei propri dipendenti fedeli, gli asili nido, eccetera- credo che noi dobbiamo accettare questa sfida, tentando di costruire microcomunità solidaristiche dominate dal l'obiettivo del l'autonomia e non dalla adesione all'egemonia aziendale. E farne una scuola, una palestra di solidarietà e di autonomia. Un luogo in cui quello che è stato dissipato nel corso del '900 -la capacità, cioè, della gente di far da sé, di autogovernare pezzi della propria vita quotidiana- delegandolo alle grandi macchine burocratiche e all'impersonalità dello stato, venga restituito alla gente attraverso processi di libera associazione e di autogestione e autogoverno, non della produzione, ma della riproduzione sociale. Oggi è fondamentale recuperare il legame sociale nel territorio e non più solo nella fabbrica dove rischia di essere travolto continuamente dai movimenti e dalla mobilità del capitale. In che modo? Dobbiamo accogliere la sfida, costituire delle mutue autogestite con un numero relativamente basso di soci in modo tale da garantire la continua trasparenza e la partecipazione della gente. Rispondere, per esempio, al fauo che lo stato non copre più, se non in minima parte, il terreno della sanità. Ma senza rivendicare il ritorno a uno stato sociale che ci ha presi in ostaggio per poi abbandonarci, che ha monopolizzato i redditi operai e poi non ha mantenuto le proprie promesse, lasciando per di più milioni di persone indifese, senza più gli strumenti soggettivi per difendersi, ma scegliendo di costruire organi di autogoverno attorno a una cultura della solidarietà. Certo, i rischi sono enormi. Anche questi organi possono degenerare in piccoli gruppi avari, in gruppi di privilegiati che si contrappongono all'esterno come a un nemico. Ma il modo poi con cui il gruppo di coloro che hanno costituito una mutua, un'associazione di mutuo soccorso, o un fondo di solidarietà viene gestito -se lo aprono all'extracomunitario oppure no, se lo aprono al recupero dei tossicodipendenti del quartiere oppure no- non può essere un problema di automatismo istituzionale, ma di cultura, che deve essere in qualche modo rinnovata giorno per giorno a diretto confronto con i casi concreti. L'idea del mediatore istituzionale impersonale, astratto, universale che ha il monopolio della solidarietà, ti lascia poi un mare di leghisti, di gente espropriata cieli' idea stessa di solidarietà e che odia quel mediatore istituzionale perché lo rapina. Questa è una strada sbarrata. Dobbiamo essere in grado di inventare nuovi modelli, nuovi meccanismi di elaborazione, giorno per giorno, di procedure adeguate, di decisione, di criteri di ripartizione delle risorse. la logica della domus al posto di quella della polis Faccio un esempio concreto: noi a Torino abbiamo costituito l'Associazione dei Lavoratori Torinesi che non ha l'obiettivo di essere essa stessa la società di mutuo soccorso o la struttura solidaristica, ma di favorirne la formazione, di mettere a disposizione conoscenze tecniche, competenze, consulenti ecc. per chi volesse praticare l'autogoverno della propria vita, l' autogoverno collettivo e solidaristico della propria vita quotidiana. E' ai primi passi, è complicatissimo tutto perché ci si muove su un terreno inedito. Abbiamo deciso però di costituire un fondo di solidarietà edi sostegno per licenziati per atti di rappresaglia. A quel punto, nella necessità di scegliere i criteri con cui ripartire i fondi, di decidere chi ha diritto e chi no, ci siamo trovati di fronte alla tipica tentazione che qualsiasi politica solidari- sepra nocotra: quella di riprodurre il meccanismo statale, peraltro estremamente efficace, perché evita tutta una serie di problemi, della formulazione di regole astratte, impersonali, formulate prima dell'emergere di qualsii\Si esempio concreto, bisogno concreto. Quindi giuridicizzare rigorosamente a priori il funzionamento del fondo, stabilire chi ne ha diritto in astratto, in modo tale che poi non ci si presti alle accuse di favoritismo, precisare a priori le percentuali e le aliquote di distribuzione del fondo, costruire una casistica molto precisa di condizioni che ne danno diritto. A metà di questo percorso ci siamo resi conto che questo meccanismo, fatto per realizzare un progetto solidaristico, avrebbe inevitabilmente generato conflittualità invece di solidarietà. Perché all'interno di quelle regole è chiaro che chi avesse goduto di un emolumento di fronte alla possibilità di entrata di un secondo avente diritto si sarebbe appellato alle regole per di fendere l'entità del proprio emo1umento. Ci siamo accorti che proprio un meccanismo impersonale della ripartizione favorisce l'individualizzazione e lacompetizione anziché la solidarietà. Allora abbiamo abbandonato la strada della giuridicizzazione a priori, decidendo che l'assemblea dei soci valuta le nuove domande di sussidio a partire dalle caratteristiche concrete del caso, se ha altri redditi, quanti figli a carico ha e così via, e ridefinisce di lre mesi in tre mesi le quote che ognuno versa e le quote che vengono dislribuite a chi ne ha bisogno. Esattamente come in casa, giorno per giorno, si ridefiniscono le quote di ripartizione del reddito. Abbiamo applicato, non la logica dello stato, della polis, ma la logica della domus, la logica della casa, che non è la logica formalizzata e giuridicizzata della sfera pubblica e non è nemmeno la logica individualistica cieli' atomo, bensì quella della ree iprocità, dello scambio, del dono, quindi del legame sociale fortemente personalizzato che rompe sia con l'impersonalità del mercato, sia con l'impersonalità dello stato. Questo, da un punto di vista giuridico, significa dare vita ad un processo di costruzione di precedenti molto più vicino a quello del diritto anglosassone che a quello del codice napoleonico. Fare in modo, cioè, che siano le delibere dell'assemblea, volta per volta, a creare il nuovo diritto, un diritto che si produce nel farsi. Questa, secondo me, può essere una logica della solidarietà che si contrapponga alla logica novecentesca della burocratizzazione statale o del puro mercato. La proposta di riduzione dell'orario? Anche per l'orario di lavoro bisognerebbe far lavorare la fantasia. Ora si riesce solo ad inventare 35 ore a parità di stipendio, che era la proposta, una delle più giuste, di Lotta Continua nel '75. Allora era l'unico modo per stare dentro al processo di innovazione tecnologica continuando a far pesare l'operaio. Proporlo però oggi, quando il salto tecnologico è avvenuto e consumato, secondo me è un errore. Dirò una cosa che potrà scandalizzare: l'aumento di produttività è stato tale per cui una riduzione di 5 ore cieli' orario non cambia iIproblema occupazionale. Nel 1978 un operaio Fiat in un anno produceva 9,5 vetture, oggi ne produce 79. Allora ditemi quanta mano d'opera ti fa risparmiare 5 ore di diminuzione che equivalgono a poco più del I0% dell'orario di lavoro? Niente, a fronte di una produttività aumentata del I000%, per uomo a ore. contrapporre una solidarietà razionale all'egoismo razionale Diminuire l'orario di lavoro a parità di salario oggi significa solo accelerare il processo di periferizzazione e di rilocalizzazione del capitale. Perché uno deve produrre auto in Italia dove gli mettono questo vincolo, quando può produrle in Estremo Oriente dove un lavoratore gli costa 30 dollari al mese? Qui costa 30 dollari al giorno. Bisognerebbe, semmai, avere il coraggio di dire: 20 ore settimanali, o 16 o 30 ore settimanali, orari flessibili con una relativa diminuzione anche del salario, e con la A noi sta il compito di costruire un programma di solidarismo razionale altrettanto adeguato ai tempi, contrapposto, ma che non neghi i presupposti. E i presupposti sono che il territorio nazionale non è più lo spazio di riferimento, che lo stato sociale così come si è costituito è indifendibile, che la solidarietà deve scegliere strade nuove. Mi pare che in Italia pochissimi lavorino in questo senso. In Francia sono tantissimi, dal Mouvement Antiulitariste dans !es Sciences Sociales, una serie di filoni di sindacalismo rivoluzionario che comunque sono rimasti, pezzi di cooperativismo proudhoniano, la Francia ha una tradizione molto forte di antistafalismo, che in Italia manca. In Italia abbiamo la cultura del PCI che era "massa e stato" e "le masse dentro lo stato" e basta. Togliatti. E Gramsci, certo, ma Gramsci è stato grande perché ha capito perfettamente la portata strategica del fordismo e del taylorismo, quello che ora sta chiudendo. società di mutuo soccorso, circoli e giornali operai possibilità del lavoratore di negoziare rap- E la sinistra italiana è indifesa, non ha più porti di lavoro parziali non con un unico neppure la memoria della sua fase mutuadatore di lavoro. Io, lavoratore Fiat, posso . listica. Che è stata una fase di una ricchezfare benissimo 20 ore settimanali alla Fiat . za straordinaria fino al 1904. Lo sciopero per 700 o 800 mila lire, invece di fame 40 generale è un momento in cui questa rieper 1.400.000, e poi costituire una coope~ chezza delle società, delle leghe, dei merativa per la gestione del territorio, lavoro stieri, questa complessità è stata ridotta altre I O ore alla settimana, mi guadagno le nella logica della organizzazione centramie 300, 400, 500 mila lire e faccio dei lizzata. Poi la prima guerra mondiale è lavori di cura, ad esempio, agli anziani, ai stato un momento devastante da questo bambini, di cura del territorio, di pulizia punto di vista. dell'ambiente o un'infinità di lavori, arti- Ma andiamo a vedere quello che è stata gianali, creativi. Perché non immaginare l'esperienza del mutualismo, non dico in strutture della giornata lavorativa mobili, Emilia Romagna, ma in Piemonte che povariabili, integrate, e continuare a conside- trebbe sembrare poco significativa. Nella rare la giornata lavorativa come quel con- provincia di Novara c'erano 77 società di tenitore unico assorbente monolitico che è mutuo soccorso, alla fine dell'800 c'erano stata definita alla metà dell'800? La gior- 21 circoli operai, l'inaugurazione della nata lavorativa oggi può essere pensata Camera del Lavoro è avvenuta con la sfilamodulare, così come è modulare la vita ta degli stendardi delle leghe di resistenza della gente. Bisogna avere il coraggio di e delle società che raccoglievano decine di lanciare idee di questo tipo. esperienze, solo in una valle del novarese La Lega la vedi come un sintomo di c'erano 4 giornali operai. Il modello partiquesta crisi epocale? lo-stato ha spianato tutta questa ricchezza, Sicuramente. La Lega in Italia è stata l'uni- ha trascinato le risorse al cenlro, ha portato ca forza che, del tutto inconsapevolmente via i militanti dirigenti dalle fabbriche e dai penso, si è presentata come innovazione territori, li ha spostati di volta in volta nelle adeguata a questo doppio sfondamento capitali regionali e poi in quelle nazionali, dello stato nazionale: verso l'alto, per la ha fatto un processo di devastazione del globalizzazione del sistema economico, e tessuto operaio che nemmeno i padroni verso il basso, nel trasferimento del luogo hanno fatto, una cosa moslrUosa. in cui si produce identità dal territorio Per concludere. Mirafiori che fine farà? nazionale alla dimensione locale, al locali- Mirafiori è finita. Era addirittura quasi un smo. La Lega nel suo liberismo assoluto - paradosso nel modello fordista, un fordiglobalizzazione- e nel suo micronazionali- smo portato talmente alle estreme consesmo etnico, microcomunità locale -contro guenze da essere quasi assurda. Oggi a lo stato sociale, contro lo stato nazionale- Mirafiori esistono già almeno due fabbriha colto esattamente i segni del tempo. che: una che muore e una che vive. Quella Poi li ha trasformati in un brodetto mo- che vive ha tremila dipendenti che sono struoso dal punto di vista del contenuto, quellichefannolaPunto,quellachemuore perché ha esasperato tutti gli egoismi, però ha ventimila dipendenti che sono in cassa se si trattava di fare un programma adegua- integrazione. Mirafiori verrà chiusa nei to di egoismo razionale, la Lega l'ha fatto. prossimi IO anni, non ci sarà più. • UNA CITTA' 5

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