Una città - anno III - n. 26 - ottobre 1993

• ,n questo nu,nero LA CLASSEDEL 93 è /'intervista a Vittorio Rieser sulla situazione fra gli operai. NECROPOLI è /'intervento di Rocco Ronchi a partire dai tragici fatti di Russia. DAL LOGOS ALLA LEGA è quello di don Sergio Sala sul linguaggio della Lega. In seconda e terza. L'APOCALISSE IMMANENTE. La vittoria della pulizia etnica in Bosnia farà scuola in tanti altri paesi. E' il risultato del mancato intervento militare. Dopodiché quello umanitario ha fatto peggio. Queste le considerazioni amarassime di Gianni Baget Bozzo, che nella polizia internazionale ci aveva creduto fermamente. A fianco /'intervista a Sonia Licht, dissidente e pacifista serba. In quarta e quinta. COME LEDONNE DI GERUSALEMME. Suor Gemma è una carmelitana delle Case della Carità, che hanno rinunciato alla clausura per vivere in famiglia coi più sfortunati. Nelle loro case la confidenza col dolore non ha nulla di assistenziale. In sesta e settima. Insieme a/l'intervento sul tema della maternità di Antonella Anedda. I MURI CIECHI DI MILANO è /'intervista a Umberto Fiori, poeta. Vi si parla della semplicità della parola "casa", dei limiti della voce, di megafoni degli anni 70 e degli utili anni '80, de/l'anonimato del proprio abitare con cui fare i conti. In ottava e nona. SE LO SCONTO SI FA DURO. In decima e undicesima Paolo Bertozzi ci parla degli harddiscount, dove lo stile è quello da supermercato sovietico. E c'è la fila fuori. LE PEZZE DI CARTA è /'intervento di Vincenzo Buglioni sulla nuova riforma della scuola. QUALE ISLAM? è /'intervista a Giulio Soravia. In dodicesima e tredicesima. ORTI DI GUERRA /'intervento di Edoardo A/binati. IL DIALOGO NEL LUTTO. Francesco Campione ci parla dei problemi che ha il malato di Aids ne/l'affrontare la morte. L'utilità di un dialogo e i rischi di un aiuto puramente tecnico. In quattordicesima e quindicesima. SPODESTARE IL DOLORE è /'intervento di Ivan Zattini e CREARE DAL NULLA quello, per "stazioni", di Gianluca Manzi. PROFUGHI E VOLONTARI nel racconto di Raffaella Solini la storia di un campo profughi nella Be§ Yu o /avio e la sua esperienza di volontaria nella ex- Yugoslavia. In ultima.

un 111ese di un anno Va male. Si dice che nei bar i maschi abbiano alzato le mani in delirio al gesto del nuovo leader nazionale italiano. Al di là del folclore dei programmi c'è in politica segnale più preciso, e sinistro, della disinibizione, nel maschio, di maleducazione e volgarità? Del coraggio di mostrare la volontà di aggredire una donna? Dalla caduta delle buone maniere al primo linciaggio quanto è lungo il passo? Comunque "il ragioniere con la durlindana" di cartone ne sta facendo di strada. In Bosnia ne ha fatta tanta e cominciò prendendo ferie e aspettative. Chi poi si illude di utilizzarlo ancora una volta dimostra solo cieco disprezzo della gènte comune. A differenza spesso di un potente la gente comune conta: può togliere la vita. Che fare? Come stanno gli operai oggi? I cambiamenti che ci sono stati, la diffidenza verso la politica, le contraddizioni non risolte degli anni '70. Il problema decisivo della rappresentanza. Intervista a Vittorio Rieser. Vi/Iorio Rieser. ricercatore all'IRES - centro s111dei ricerche della CGIL- di Torino, si occupa in panico/are della sit11a:ione delle fabbriche torinesi e dell 'evo/11:ionedei modelli organi::ativi nelle industrie. La durezza manifestata nelle recenti lotte operaie, come a Crotone, è dovuta solo alla paura di perdere il posto di lavoro o c'è anche qualcosa di diverso? Devo dire innanzitutto che queste lotte nel Sud le conosco soltanto dai giornali e quindi la mia conoscenza è molto superficiale. Il rischio di perdere il posto di lavoro è soprattutto nel Sud, anche senon è una questione solo del Sud, e il problema non nasce·dal fatto che uno voglia restare in quella certa fabbrica, però ci sonodel le alternati ve: questa volta il rischio è non solo di perdere quel posto di lavoro, ma di perdere la stessapro petti va del lavoro. Quindi la lotta ha un significato più generale, non è la lottain difesa di una singola fabbrica. Una volta si diceva, anche con un ingiustificato disprezzo. chenon si potevadifendere la fabbricacome un campanile, e qualche volta può darsi che ci sia stata la difesa della fabbrica in questo modo. ma oggi la questione è molto più drammatica: sesi perde quel posto di lavoro non se ne troveranno altri di tipo indu triale, di tipo moderno. Questo accade in molte zone del Sud, ma sono parecchie le zone d'Italia in cui ci si domanda quanto e quale lavoro ci saràin futuro. Torino. per esempio, non è certo un caso tranquillo, in cui chi rischia il posto di lavoro lo può poi recuperare in qualche altro luogo. La situazione torinese, che conosco da vicino, non è ancora al livello di drammaticità di Crotone e, per adesso.casi di chiusura così drammatica di fabbriche non ci sono stati. La situazione di Torino forse è drammatica in prospettiva: si stanno affievolendo le fonti più importanti di occupazione, cioè quelle legate ali' industria de li' auto, enon èancora chiaro da cosa saranno sostituite. Gli operai disperati, l'esempio è ancora Crotone, non temono anche il ricorso alla violenza ... Non credo che la violenza sia limitata alla specifica situazione del Sud. A Crotone avevano la sensazione. in gran parte giustificata. che minacciando di ricorrere alla violenza sarebbero riusciti ad attirare l'attenzione e quindi ad ottenere delle risposte concrete. Se le risposte concrete avvengono senza la violenza questa non si allargherà, invece, scquandoc'è una forma normale di protesta tutto viene lasciato com'è, o le risposte sono inadeguate, c'è davvero il rischio che la violenza si allarghi. E' una questione che riguarda llltte le situazione estreme, quelledovec'è il rischio di perdere il posto di lavoro senza nessunaalternativa concreta e immediata. Se ci saranno o no delle esplosioni di violenza dipende molto dal sindacato e dal governo, perché se le normali forme di lotta, o le situazioni in cui già si sa che verrà perso il lavoro portano a degli interventi -che anche se non immediatamente, ma almeno in prospettiva, come aCrotone- risolvono la questione, allora la violenzasi previene; seinvece tutto rimane come prima, se tutto rimane stagnante e c'è l'impressione che solo con la violenza si possano smuovere le cose. allora la violenzaè destinata ad estendersi. Il caso dei due suicidi, poi, è emblematico di questo dramma dovuto alla perdita del lavoro, sono un segno di chi perde la condizione operaia. Ma com'è l'odierna condizione operaia? Rispetto agli anni '60- 70 c'è un cambiamento ambiguo. Alcune conquiste di allora non ono state del tutto rimangiate o distrutte, ci sono delle eccezioni, ma complessivamente nelle fabbriche oggi si sta meglio che non negli anni' 50 e '60; la tendenza al miglioramento non è stata distrutta. Detto questo. va anche detto che dal punto di vista salariale le condizioni sono peggiorate, manon hanno riponato gli operai al livello di vita precedente alla grande ondata di lotte. Quando parlavo di cambiamento ambiguo mi riferivo però alle trasformazioni tecnologiche e organizzative che stanno mutando le condizioni di lavoro. L'ambiguità sta nel fatto che queste trasformazioni aprono possibilità di lavori meno faticosi, professionalmente e intellettualmente più ricchi, equesto è l'aspetto positivo, ma dall'altra partequestetrasformazioni stanno avvenendo in una situazione di crescentecontrollo padronale sul la prestazione lavorativa. Questi cambiamenti, quindi, rischiano di accompagnarsi aduna intensi ficazionedel lo ~fruttamcnto. con l'operaio sempre sotto pressione. e quei margini di respiro chesi erano conquistati rischiano di essereassorbiti dall'azienda fino al millesimo di secondo. Può perciò verificarsi che ci sia un lavoro più intelligente. meno faticoso dal punto di vista fisico. con meno nocivitù. ma con una tensione taleda produrre stress edaaggravare la perdita clicontrollo sul le condizioni cli lavoro. I giovani sembrano e~scre quelli che maggiormente puntano sulle prospettive di mutamento nell'organizzazione del lavoro, mentre ovviamente gli anziani non vedono molte possibilità di essere loro a godere di queste nuove possibilità. Questo non vuol dire che gli uni si identifichino con la fabbrica e con il lavoro egli altri no; la realtà èche i vecchi sono incatenati in qualche modo al posto di lavoro attuale e non vedono alternative. mentre i giovani vedono più possibilità, sia nella fabbrica dove sono, sia cegliendo altri lavori. Quella dei giovani è una pro petti va meno rigida. Questo significa che fra i giovani c'è una minore identificazione di classe? Questo, francamente. non saprei dirlo, parlo sempre della FIAT, ma non credo che oggi anche fra i vecchi ci sia una grande identificazione di classe.Agli scioperi partecipano di più i giovani che non i vecchi; i vecchi sono rimasti più segnati dalla sconfitta degli anni ·so e quindi sono più rassegnati. 1 giovani sono più combattivi, senza che questo. però, si traduca in una coscienza di classe come la conoscevamo negli anni '70. In realtà la coscienza di classe, così come è definita in termini teorici, è sempre stata difficile da trovare concretamente. Sempre rimanendo alla FIAT, che nonè uncaso tipico. èun caso abbastanza particolare anche se importante, la forte co cienza di classe degli anni ·70 rinetteva il fatto che la fabbrica era il luogo in cui gli operai avevano trovato la loro forza. Era nella fabbrica che erano riusciti a cambiare le cose e avevano una profonda diffidenza. spessoanche di tipo qualunquistico, verso la politica: questa diffidenzaè rimasta e si è perso il resto. Oggi dai giovani si sentono facilmente dei discorsi di tipo normalmente democratico. i parla di diritti. anche cli adesionealle lotte se si pensa che possano servire. ma senzacondirle di un'ideologia anticapitalistica. La fabbrica ha perso quindi il ruolo centrale che aveva sia nella società che nell'immaginario? Si, credo di sì, ma va anche detto che questo ruolo centrale è stato mitizzato. E' stato mitizzato nel senso che certamente la fabbrica era socialmente centrale, le lotte operaie segnavano il cammino della società, mal' ideacheda lì partisse un processodi mutamento politico, che cominciando dal controllo sulla organizzazione del lavoro arrivasse al controllo ugli investimenti, al ·'nuovo modello di sviluppo", fino al potere politico, era minoritaria. Era un'ideologia presente non olo fra gli intellettuali, ma anche fra gli operai. in settori del!' avanguardia politicizzata, ed era centrale per le lotte operaie che c'erano, ma comunque rimaneva minoritaria. Oggi il tessutodi lotte è molto indebolito ed in questo senso la fabbrica è meno centrale. Dal punto di vista strutturale sono convinto che lo sviluppo industriale, non la grande fabbrica. continui a esserecentrale per le prospettive future. Nel casodi Torino è perfettamente pensabile, e forse auspicabile. un futuro non centrato sull'industria automobilistica, ma non è pensabileun futuro senzaindustrie. E il sindacato? Sembra che, dai primi anni '80 in qua, abbia perso il senso del proprio essere ... Sì, e le cause di questa crisi sono molte. Il problema è che c'è stata una fase, che riguarda una buona parte degli anni '80, in cui il peso della sconfitta ha determinato una situazione con poche lotte, molto difensive e con scarsi margini di conquista. Questo ha portato ad una specie di rottura di continuità nel rapporto del sindacato con i lavoratori; un rapportocheeraba atosull'attività contrattuale quotidiana del sindacato. C'è stata la crisi dei Consigli di Fabbrica e quindi si è materialmente indebolito. e in certi casi è scomparso, il tessuto di rapporti capillari del sindacato con la base sociale. Questo è un dato oggetti- ~ CnffdileRi ipfnrmdi iForlì s.p.A. co~o, ~ da O a 10 annt da 11 a 19 anni Per loroil migliorfuturopossibile AUT. INT. FIN. FORLI' n. 4/7423 del 30/9/92

vo, in parte indipendente da quella che era la volontà del sindacato all'inizio degli anni '80. Un altro aspelto della crisi. che invece è politico edipende dalle scelteche il sindacato ha fallo, è dovuto al fallo che il sindacato non ha saputo fare un·analisi e trarre delle lezioni adeguate da quella sconfitta. Abbiamo avuto porzioni consistenti del sindacato -di cui la ClSL è l'esempio più clamoroso, ma che vale anche per buona parte della CGIL- le quali hanno semplicemente pensatoche si era stati troppo estremisti, che avevamo lo1tato troppo e quindi bisognava diventare più moderati. Un'altra parte del sindacato, ad esempio molti compagni di '·Essere Sindacato", in sostanza esprime invece una nostalgia per quei tempi e quindi non si domanda fino in fondo perché quella linea è stata sconfi1ta. Nei falli, comunque, l'incapacità di elaborare questa esperienza, unita al dato oggettivo di alcuni anni di rottura di continuità e di mancanza di lotte, hacontribuito aportare alla situazione attuale. in cui si ha la sensazioneche buona partedel sindacato giri su se stesso, che sia molto proiettato sui problemi interni e i problemi di politica sindacale li affronti in modo molto accademico, avendo presente gli interlocutori istituzionali, maavendopoco presente la situazione dei lavoratori. Questo ovviamente non vale per moltissimi pezzi periferici del sindacato, che continuano a fare un lavoro oscuro e faticoso di rapporto effettivo con la base, ma non sono questi che segnano le scelte e la vita politica del sindacato. Ma perché la crisi degli anni '80 non è stata capita bene da nessuna delle correnti sindacali? I motivi sono molti. Uno è che le lotte degli anni '70 erano arrivate ad un punto tale che c·era bisogno di una soluzione politica; in fabbrica si era creato un sovraccarico di forLe e di scontri che richiedevano delle misure di politica economica e di politica sociale che non potevano più essereprese dalla fabbrica, ma dovevano essere prese dal governo. Questa esigenza, che era avvertita anche nel sindacato, si è però tradotta da un lato nei governi di solidarietà nazionale e dall'altro nella linea dell'EUR, che è finita male. Ha finito per portare alla centralizzazione della contrattazione e al prevalere di una linea moderata. Dall'altro lato, nei luoghi di lavoro, il sindacato non ha saputo affrontare il problema della gestione della contraltazionc e delle lolle. Non è un casoche allora, anchenei Consigli di Fabbrica. dominasse il timore della "istituzionalizzazione··, non è uncasoche allora parole come '·cogestione" fossero viste come bestemmie e si avesse tulti paura di qualsiasi stabilizzazione delle relazioni industriali in fabbrica. In realtà i rapporti di forza che si eranocostruiti potevano consolidarsi solo sesi trovava con le aziende un modo che permcltesse di esercitarequestaforza inmodi compatibili con l'esistenza e la competitività del le aziende stesse.Questo è un problema che allora non si è affrontato, si è affrontato dopo ed in termini puramente teorici, cioè con una serie di elaborazioni che il sindacato ha fa1to e che nel caso della CGIL vanno sollo l'etichetta di "codeterminazione". Questeelaborazioni traevano la giusta conseguenza dalle contraddizioni non risolte degli anni '70, però l'hanno tratta solo sulla carta: quando il sindacato aveva la forza per fare la codeterminazione non la voleva per pregiudizi ideologici, quando poi hacominciato aparlarne non aveva più la forza per applicarla e poi prevaleva una linea di tipo moderato che non permetteva neanche di ricostruire questa forza. Ma questo approdare, ora che è divenuta inapplicabile, alla codeterminazione, non nasce soprattutto dal fatto che il sindacato non ha saputo cogliere pienamente il senso della tensione al cambiamento che animava le lotte degli anni '70? La tensione c'era, è vero, ma questasituazione non può durare indefinitamente. L'ho visto bene nella situazione FIAT, dove questacontinua tensione di lotta, di connitto. di intervento attivo, di controllo, già negli ultimi anni '70, e quindi ben prima della sconfitta del!' 80, vedeva una partecipazione sempre più ristretta e una passività sempre più grande. Anche all'inizio, nel '69 o nel '70, a partecipare attivamente alle lotte, ai cortei, non erano tutti gli operai, forse non era neanche la maggioranza, forse era la metà, ma via via la partecipazionesi è ristretta. Nei contratti del '79 a fare i blocchi stradali erano striminzite avanguardie organizzate, gli altri seguivano, subivano, salvo poi fare la marcia dei 40.000 un anno dopo. Il problema è che una situazione di tensione non può durare oltre certi limiti e ad un certo punto deve tradursi in conquiste. in istituzioni consolidate. In quella situazione e·eraunelemento di tensione anticapitalista importanteche però non aveva sbocchi politici possibili e del resto il sindacato stessonon ha mai osato tradurla in paroled' ordine. Il sindacato non ha mai dello che bisognava eliminare i padroni e se i padroni non si potevano eliminare bisognava trovare delle forme di rapporto che consentissero la coesistenza, ma che riuscissero anche a conservare il più possibile le conquiste che si erano falle. La situazione entusiasmante che abbiamo vissuto alla fine degli anni '60eall'iniziodcgli anni '70 non poteva durare in eterno, ed infatti già nella secondametà degli anni '70 la situazione nonera più la stessa. Questa tensione al cambiamento oggi non rischia di essere fatta propria dalla Lega? Secondo me sono cose diverse, anche se c'è un elemento comune di tensione, di protesta. Al di là di questo dato comune. però, bisogna poi vedere quali sono i contenuti concreti. I contenuti concreti allora riguardavano il miglioramento delle condizioni di lavoro e il miglioramento salariale, che in parte si sono ottenuti anche se adesso la situazione è molto peggiorata, poi riguardavano la partecipazione, i diri1ti, l'esigenza di contare. Questa esigenza c'è ancora e non credo che sia la Lega a raccoglierla. La Legaraccoglie altri elementi di protestachee' eranoancheallora; quando si facevano le lotte per le riformc di fatto si voleva un fisco più giusto, dei servizi chef unzionassero, la riforma sanitaria, una pubblica amministrazione efficiente. Su queste cose, che dipendevano dal potere politico, non si è riusciti ad ottenere delle conquiste importanti ed è su questo terreno che la Lega gioca; sono argomenti su cui la Lega può trovare consensi anche tra gli operai. Ma non è che ci sia una astratta tensione al cambiamento che di volta in volta si dirige verso la lotta sindacale o verso la Lega; bisogna vedere ogni volta la tensione da che problemi parte e verso che obieltivi si dirige, non è sempre la stessa. Non che non ci siano operai che votano Lega però il segno caratterizzante del blocco sociale della Lega non è dato dalla classeoperaia. lo credo che tutt'ora la classe operaia, se la intendiamo in un sensonon restriltivo, cioè non solo chi fa lavoro manuale, ma chi fa lavoro dipendente, continui ad essere un gruppo sociale che ha degli interessi comuni. Che questo DAL LOGOS ALLA LEGA E' uno strano paradosso della po- per cambiar l'Italia usa un linguaglitica, che per essere un'attività emi- gio "popolare"; o meglio rompe il nentemente pratica, dipende tutta- codice linguistico nazionale. Di più: via dalle umilissime e astrattissime usa la violenza volgare del linguagparole. In politica, le parole conta- gio. La scelta di un nome nuovo per no. Non solo owiamente per quel il proprio partito non è solo una che riescono a far credere (se ci mera operazione di facciata: chi riescono) ma proprio perché paro- l'ha voluta era ben consapevole le, che in quanto tali comportano, della potenza di identificazione legano (logos) un universo menta- politica che comportava, del nuovo le che è poi quello che cambia universo di significati e di riferimenpraticamente la realtà. ti che implicava: strategicamente, Due riferimenti illuminanti alla poli- una intelligente operazione polititica del nostro tempo: da una parte ca. Al polo opposto il nuovo linun partito che si rinnova cambian- guaggio violento e volgare della Bi 00 rròl 1 ercaartGi nO 13t8n°cO del discorso vien da chiedersi se si tratti solo di una semplice questione di gusti, di stile; problemi marginali. O se invece non c'entrino anche la politica e l'uomo: a quale livello di umanità ci si rivolge in piazza quando si parla così? Si sa che il linguaggio dei comizi non è mai stato particolarmente tenero e gentile. Eppure in questo linguaggio leghista sembra di riascoltare la spavalda volgarità fascista. Chi applaude e ride crassamente all'oratoria del "senatur" è ancora capace di intelligente giudizio critico, o intende la politica solo come oggi non si traduca in una capacità attiva di essere un blocco sociale con una sua fisionomia che pesi in politica, è indubbio; credo però che sia ancora questo il terreno su cui occorre lavorare. Anche il quadro di alto livello, che ha dei grossi margini di decisione tecnica sul suo lavoro e non è certo un operaio della linea di montaggio, non ha però nulla ache fare con le decisioni politiche aziendali equindi subisce le conseguenze di scelte fatte daaltri. Il contestoorganizzativo in cui si svolge il suo lavoro è determinato da altri e questo spessogenera malcontento, contraddizioni. Varie inchieste fatte dal sindacato fra gli impiegati rivelano una forte carica critica verso l'azienda e delle non piccole esigenzedi cambiamento. Il sindacato non ha saputo, salvo brevi momenti, cogliere questa situazione, neanche negli anni '70 e nemmeno oggi sta facendo molto verso gli impiegati. II movimento degli "autoconvocati" può rappresentare una prospettiva? Credo che il movimento degli autoconvocati, sia, nei fatti, più un residuo del passatoche non un coagularsi di forze nuove. Gli ·'autoconvocati" sono ciò che di meglio è sopravvissuto dei vecchi Consigli di Fabbrica edalcuni loro settori esprimono una visione del tutto condivisibile, ma non credo che possano rappresentare l'inizio di un nuovo movimento. Punto decisivo per la rivitalizzazione del movi mento dei lavoratori è la ricostruzione di un tessutodi rappresentanze di baseche innanzitutto raccolga tutte le forze nuove che sono entrate in fabbrica in questi quindici anni e che non sono rappresentate. Da questo punto di vista anche le forme di rappresentanza più ambigue e criticabili sul piano della democrazia, come adesempio le formule proposte per la elezione delle Rappresentanze Sindacali Unitarie, sono una cosasecondaria se davvero si riuscisse ad eleggerle. lo credo che dal punto di vista sindacale, ma anche più in generale. il fatto che rinascano in fabbrica delle forme capillari di rappresentanzadi basesia un passaggiodecisivo. In questo senso i Consigli di Fabbrica non sono superati, però occorre che siano rappresentati anche tutti quei settori che oggi. sia per età che per collocazione professionale, non lo sono. Da lì può nascerequalcosa di nuovo. magari in forme molto diverse dal passato. • sfogo? Se il "medium è il messaggio" cosa si porta a casa questa gente dai comizi? Le espressioni e i gesti rozzi e grossolani, quelli sì che se li ricorda. E li ripete. Facile e semplice, dimostrava una ricerca recente, il linguaggio scurrile mantiene basso il livello mentale. Cosa comporta allora introdurre nel confronto politico il linguaggio violento e osceno della Lega? Si mobilitano le passionalità, si distrugge la critica. Sarà difficile con questa gente ragionare, discutere, distinguere, cercare, dialogare. Non è più in nome della "rosa" che ci si può rassegnare a perdere il significato delle cose; anzi non è nemmeno più con la parola che ci si esprime, ma con i gesti. La Lega ha NECROPOLI Necropoli. Così, dall'esilio, il grande poeta russo Chodasevic ha chiamato la Russia sovietica. Nessun paese aveva infatti conosciuto una guerra altrettanto accanita e altrettanto sistematica contro la propria anima poetica. Che cosa significasse la poesia per la Russia è ben noto. Essa è stata il luogo in cui si è costituito l'identità di un popolo. Quando già nel resto dell'Europa era divenuta qualcosa di residuale, di semplicemente bello, la poesia in Russia era ancora voce, grido, affermazione. La sua straordinaria stagione si spense tra fucilazioni, campi di sterminio, suicidi ed esilio. I nemici della parola, come li definiva Mandel'stam, avevano definitivamente vinto. Di questo delitto incancellabile è erede la povera Russia attuale dove la miseria non si misura solo dalla penuria economica o dalla diffusione, impressionante, dell'alcolismo e della prostituzione. Con tutto questo la Russia e i suoi poeti sono sempre stati abituati a convivere. Durante la guerra civile a Pietroburgo non c'era letteralmente nulla da mangiare e nulla con cui riscaldarsi, ma tutto questo non impediva affatto che in bettole luride i poeti si contendessero anche a ceffoni la palma di più grande poeta della Russia. "Non esiste forza -scrive con finto cinismo Anatolij B. Mariengof nel suo Romanzo senza bugie- che sia riuscita a strappare di dosso, a noi russi, la funesta inclinazione alle arti: non c'è riuscito il pidocchio portatore di tifo, né il fango gelatinoso di periferia che t'arriva alle caviglie, né la guerra, né la rivoluzione, né la pancia vuota, né i guanti consunti fino alle unghie. Possiamo dire di essere delle anime nobili". Ma dove non è arrivato l'orrore della guerra civile, è invece arrivata la pianificazione socialista. Ciò che doveva essere sacrificato per primo alla costruzione del «palazzo di cristallo» doveva infatti essere proprio /"'anima nobile" dei russi. Di là era venuta la rivoluzione nella vita quotidiana, ma di là veniva ora il pericolo. I burocrati del socialismo reale si sono applicati in questo meticolosamente. Con grande intelligenza tattica hanno mirato alle radici, hanno bruciato ogni forma di vita, anche la più embrionale. Nessuno doveva più poter dire, come Aleksandr Blok, che «la vita è bella". La vitapoteva essere solo sacrificio, lavoro, produzione. Quando, con l'inizio della fine del comunismo, la moglie di Chodasevic, Nina Berberova, ebbe modo di rientrare in patria, si mostrò alquanto pessimista sul futuro del suo paese. Gorbaciov è solo, sembra che abbia detto, ormai sono morti tutti. Per chi voglia pensare il presente senza farsi strozzare dall'attualità, la vicenda russa attuale è allora segnata da questa tragedia. Non sono certo i protagonisti di questa farsa sanguinaria -capetti codardi che sfruttano il rancore naziona/-fascista di masse brutalmente impoverite, improvvisati leader al servizio del Fondo Monetario Internazionale e della criminale idea di «libertà» da esso propugnata- a poter essere chiamati in causa come i responsabili di questa situazione. Essi non sono responsabili di nulla perché sono soltanto gli esecutori materiali di quel nulla che li ha partoriti. La Russia, si dice, dopo il crollo del comunismo, è stata restituita alle convulsioni della libertà, ma ciò che ottimisticamente (e ipocritamente) si interpreta come il dolore di unparto è in realtà il compiersi di una agonia interminabile. Dopo la fine del comunismo sembra infatti sia rimasta solo la fine. Essa era dipinta sui volti della stragrande maggioranza dei moscoviti indifferenti a quanto succedeva intorno alla Casa Bianca perché troppo presi dalle necessità della sopravvivenza in una economia di mercato. Le immagini delle agitazioni moscovite comunicano una paradossale sensazione di sfinimento e casualità: forze dell'ordine stanche, insorti stanchi, s9/dati stanchi, vincitori stanchi. Perfino i morti, da ambo le parti,_appaiono estranei ad ogni possibile aura di gloria, più simili a· vittime di incidenti stradali che a caduti «per l'idea». Queste immagini sembrano così confermare la diagnosi di Chodasevic. Nella Russia trasformata dagli ingegneri sociali del comunismo in una necropoli, anche i moti insurrezionali e i colpi di stato sono una questione tra ombre, tra pietroburghesi spettri. Ma una speranza alligna in fondo al cuore. La fine è infatti materia troppo incandescente per non risvegliare la potenza poetica della lingua russa (una delle più interessanti correnti letterarie e cinematografiche di Pietroburgo ama definirsi significativamente «necrorealista» ). Anche se non è detto che un giorno, con tecniche più raffinate, magari importate dall'Occidente, sia possibile ad una Russia capitalista e democratica uccidere non solo i poeti, ma anche la lingua che essi, con amore, si ostinano a custodire. sostituito il Logos: riduzione progressiva. Non bisognerebbe resistere allora al fascino volgare di questa borghesia, che invece contagia e si diffonde progressivamente? Anche dal linguaggio si coglie l'autenticità umana delle ispirazioni: il dolore dei popoli, lo sdegno etico, il gemito religioso della creatura oppressa hanno sempre dato la parola ai poeti. Pablo Neruda, Garcia Lorca, Majakovskij e padre Turoldo. "io trovai lungo i muri ... / una goccia di sangue del mio popolo / e ogni goccia, come il fuoco ardeva": così si sentiva la passione politica e si diventava uomini per un mondo di uomini. Ma il linguaggio leghista adempie ad un'altra funzione, consegue coRocco Ronchi munque un altro scopo politico. In presa diretta del "linguaggio popolare" (ma il popolo non c'entra), diventa appello al senso comune e insieme rottura del linguaggio nazionale. Non è nemmeno questione di dialetto lombardo. Il localismo della parola è un fattore non trascurabile della propria identificazione politica e quindi anche del successo politico. Non per nulla si richiede anche l'uso del dialetto negli uffici pubblici; si marca la diversità lombarda. Il linguaggio della Lega non è solo originalità, colore, divertimento; è scelta politica e imbarbarimento umano. E' scritto che "in principio era la Parola". Sergio Sala UNA ClffA' 3

Sarajevo e noi I L'assurdità di un principio di rinuncia all'autodifesa. La grande occasione della Guerra del Golfo e il terribile fallimento della Bosnia. Ora le guerre etniche dilagheranno in una situazione di rinnovato pericolo nucleare. Intervista a Gianni Baget Bozzo. Lei, fin dai tempi della guerra del Golfo, ha polemizzato col pacifismo, e anche ora per la Bosnia. Perché? U motivo principale è questo: per un cristiano uno può accettare di non difendersi, ma, potendo fare qualcosa, può accettare senza fare nulla che l'altro venga ucciso? Questo è il problema fondamentale che si pone nel caso morale della difesa. Uno può rinunciare all'autodifesa, ma in linea di principio non può rinunciare alla difesa degli altri, né può pensare che l'insieme degli uomini di una comunità civj- . le possa fondarsi sul principio della rinuncia all'autodifesa. La difesa è · uno degli scopi fondamentali della convivenza umana. In questo senso una posizione che escludesse in modo radicale il diritto di una comunità politica a difendersi sarebbe la negazione della comunità politica. Dal punto di vista cristiano la negazione totale della difesa è un'antica eresia. Perché ci sono testi contrari nel Vangelo: il Battista ai soldati o gli elogi sperticati di Gesù a un centurione romano. Gesù stesso rinunciò alla propria autodifesa, ma non a quella degli altri, tant'è vero che, in sostanza, non organizzò la propria difesa e in questo senso pt!'rmise agli altri di andar via, di fuggire, di salvarsi. La rinuncia all'autodifesa è possibile, Gesù la fece, quella alla difesa altrui no, né per il singolo né, certamente, per la società. Se, come fa un certo pacifismo, si rinuncia sempre e comunque alla difesa dell'aggredito nessuna vita civile è possibile. In realtà il pacifismo come pensiero è impensabile e nel cristianesimo è un'eresia senza nessun fondamento nella scrittura. il pacifismo assoluto è sempre stato un'eresia Tutti quelli che l'hanno sostenuto - dai montanisti che, con una posizione estrema, da chiesa antica, negavano che il cristiano dovesse sottoporsi agli obblighi mondani e che quindi non potesse fuggire il martirio, ai catari che negavano il valore dell'autorità civile- sono sempre stati considerati eretici. Quindi: per ragioni teoriche generali, e cristiane particolari, io non ho mai capito il pacifismo, quello assoluto naturalmente. Forme di ricerca della pace sono sempre possibili, ma richiedono sempre consenso e quasi sempre una qualche applicazione della forza. Ora la possibilità che si era offerta con la guerra del Golfo -con l'uso di una forza internazionale- era quella di passare da una situazione in cui la guerra era la soluzione dei conflitti fra i popoli e quindi come esercizio della difesa -tra l'altro ogni guerra si è sempre legittimata dal diritto alla legittima difesa, la paura di un'aggressione legittimava l' attacco- a una situazione in cui un'autorità internazionale imparziale giudicasse un conflitto e applicasse una sanzione. Era cioè applicare in campo internazionale il metodo che ha reso possibile la soluzione dei conflitti particolari all'interno della comunità politica. E' vero che questo fu reso possibile da una circostanza particolare: era interessatal' area petrolifera e un monopolio qi Saddam Hussein su quella zona qel petrolio avrebbe sconvolto la comunità internazionale. Si era, · èioè, creato un motivo di bene comune economico internazionale che fu la base materiale per l' applicazione di un principio etico-giuridico fondamentale: il diritto della comunità internazionale a riconoscere le aggressioni, a giudicarle e, nel caso, a intervenire per tutelare l'aggredito. Il che è conforme alla carta dell'Onu che è nata proprio per giudicare un'aggressione ed eventualmente sanzionarla. Il pacifismo allora praticamente cosa difese? Il principio che la società internazionale non dovesse intervenire nel caso di un'aggressione. Un principio, cioè, che a me sembrò reazionario perché andava contro quello che era un progresso storico. Nel caso della Bosnia, purtroppo, questo principio non s'è applicato. Perché? Non tanto perché non ci fossero interessi per intervenire, ma perché l'Europa stessa era divisa sulle parti da sostenere. Ero e resto convinto che se si fosse bombardato i serbo-bosniaci quando cominciarono a bombardare, non si sarebbe arrivati a questo. Che se ci fosse stato un minimo di volontà da parte della comunità internazionale o anche solo della Comunità Europea, o della Nato, di bloccare la cosa dall'inizio questo non sarebbe accaduto. Non si volle. E non si volle perché c'erano simpatie franco-britanniche per la Serbia, c'erano simpatie russe per la Serbia che pesavano sugli Stati Uniti, ma in realtà io credo che, alla fin fine, ci sia stato un veto reciproco che ha neutralizzato le parti. Tutte sono convenute sul fatto di non intervenire, non intervenire andava bene a tutti. E non è vero che il riconoscimento della Croazia da parte della Germania abbia precipitato le cose, perché la guerra civile era già cominciata. Il punto fondamentale era il dissenso visibile fra le potenze europee su cosa fare. Il problema era complesso, perché mentre finora la convivenza interbosniaca era stata retta nel quadro di sistemi più vasti -l'impero turco, l'impero asburgico, la Repubblica federativa iugoslava- accadeva che la Bo nia doveva fondare la sua unità su se stessa e questo era un fatto che non era mai accaduto. In Bosnia non c'era forse un consenso sufficiente fra le varie parti per fare questo, però la trattativa sarebbe cominciata in modo diverso se ci fosse stato un intervento che avesse imposto l'idea della Bosnia unita. Ma un intervento, che scoraggiasse ogni aggressione. In quel momento, fra l'altro, sia in Croazia che in Serbia che in Bosnia, c'era ancora un'idea di convivenza "sovietica", anche perché in quel modo avevano sempre convissuto, e quindi le mediazioni erano ancora possibili se fosse stato ben chiaro che comunque la comunità internazionale non avrebbe tollerato il massacro dei civili, cioè quello che poi è accaduto. l'aiuto umanitario ha peggiorato le cose Dopodiché accadde la cosa più terribile: il massacro cominciò, continuò e prese forme via via più terribili e il non intervento continuò. Al punto che addirittura si può dire che l'intervento umanitario abbia finito per peggiorare le cose. Per un verso perché ha reso ancora più difficile un intervento trasformando le truppe franco-britannichespagnole in possibili bersagli per azioni di rappresaglia dei serbi, fornendo loro un oggettivo potere di ricatto e, per un altro verso, perché fornendo viveri, aiuti, eccetera, rendevano impossibile la soluzione finale del conflitto, allungandone la durata e quindi le 'Sue vittime. Una situazione davvero singolare: se le forze Onu non avessero fatto niente saremmo arrivati alla finale prima, se questa era la finale decisa dai serbo-bosniaci. Naturalmente si dice che un intervento militare avrebbe significato occupare militarmente la Bosnia, che i tedeschi durante la seconda guerra mondiale mandarono ben 1 O divisioni, eccetera. Ma intanto i tedeschi avevano contro un popolo unito e non diviso e poi i serbi e i croati di fronte a un intervento deciso della comunità internazionale avrebbero sicuramente fatto pressioni sui loro "agenti in luogo", i vari Boban, Karadzic, eccetera. Ma tutto questo non è avvenuto. La cosa che più impressiona in un intervento di polizia internazionale, che deve poi usare tutti i mezzi della guerra vera e propria, è quello del costo di vite innocenti che comunque può provocare. Poniamo che si fosse intervenuti contro i serbo bosniaci che assediavano Sarajevo, è ovvio che in un intervento di quella natura si colpiscono degli innocenti, ma sempre in guerra si colpiscono gli innocenAbbonatevi a UNA Cll'l'A' 1 O numeri 30000 lire C. C. P. N.12405478 intestato a Coop. Una Città a r.l. S • • cr1vetec1, il nostro indirizzo è: P.za Dante 21, 47100 Forlì - Tel. e fax: 0543/21422. La redazione è aperta tutti i giorni, certamente dalle 17 alle 19. Una città la si può trovare nelle librerie: "Feltrinelli" e "Tempi moderni", a Bologna, "Dedalus" e "Bettini", a Cesena, "Moby Dick" a Faenza. Nelle tre "Feltrinelli" e alla "Utopia" a Milano, alla libreria "Pesaro Libri" a Pesaro. CO ti. In guerra chi è colpevole? La guerra toglie l'innocenza come stato di condizione, perché crea uno stato che non riguarda il singolo ma l'insieme. La guerra è una specie di strage reciproca degli innocenti, la guerra è la strage di innocenti. Poi si può dire che ci sia un popolo colpevole? Abbiamo creato questa categoria per la Germania, un po' arbitrariamente persino, abbiamo colpevolizzato la Germania, mentre le responsabilità della seconda guerra mondiale non erano solo tedesche. Giudicare i popoli colpevoli mi sembra sempre un errore. Nelle guerre i popoli sono tutti obiettivamente, in se stessi, innoSarajevo: la biblioreca nazionale. centi, ma colpevoli dinanzi all'altro di essere di un altro paese: questa è la guerra. L'innocenza ha un valore nella realtà interpersonale, ma nella realtà colletti va non lo ha. Ogni guerra è una strage degli innocenti dove ognuno non ha mai nociuto all'altro, mai, può nuocergli ora nel conflitto che si crea. Questo è il dramma della guerra. E ora cosa succederà? Ora si parla di mandare 50000 uomini in Bosnia, di cui 25000 americani, con una spesa inenarrabile, per difendere uno stato mussulmano che forse sarà indifendibile. Quando cominceranno gli attentati da una parte e dall'altra ... Gli americani dicono "Noi vogliamo andarci quando sarà certa una via per ritirarci". Quando sarà previsto un piano in base al quale ritirarsi. Ma quando? Come? S'è ormai creata una situazione così orribile, con tali odi i reciproci dopo tanti massacri, dove nessuno controlla più nessuno, dove i politici non controllano i militari, i militari non controllano gli irregolari, pensiamo che 50.000 uomini siano sufficienti? E già sarebbe uno sforzo enorme, di proporzioni cambogiane. Dove peraltro si poteva pensare di arrivare a fare le elezioni, ad un controllo della Cina sui K.mer Rossi, eccetera. Ma lì? Quale piano ci sarebbe? La prospettiva sarebbe quella di un'occupazione militare americana permanente della Bosnia. Mentre nel contempo ci sarà, probabilmente, la guerra civile in Kossovo, con i serbi che cercheranno di soggiogare gli albanesi, di mandarne via una parte, di dividere il territorio, comunque di tenerlo sotto occupazione militare, in Macedonia una situazione incerta, va bene, ci andranno gli americani e forse i serbi non ci andranno ... Insomma abbiamo creato una situazione che non c'è mai stata, la più impossibile. Quindi: mancando un uso della forza ali' inizio, per imporre la pace, di peace-making, c'è stato, prima, un intervento di peace-keeping di truppe Onu che non hanno potuto che assistere al massacro, e lo hanno in qualche modo rallentato e allunga-

to, senza attutirne la violenza. In sostanza l'ambizione della pace ha permesso lo stillicidio della guerra; e finiamo poi con un altro peacekeeping addirittura di 50.000 uomini, a tempo indeterminato, in una siIllazione assurda in cui manca qualsiasi consenso, -è di oggi il rifiuto dell'assemblea mussulmana di accettare lo stato etnico- con uno sforzo militare impressionante e una spesa assurda che non valgono la Bosnia e quindi non reggerà. li contribuente americano pagherà i 50.000 uomini, ma per quanto tempo? ora la violenza sta già dilagando altrove Come se ne esce? lo non lo so. Non essere intervenuti prima, non avere fatto il peace-making non permette alcuna soluzione ora, a meno che non si pensi alla cacciata dei mussulmani dalla ex-Yugoslavia ... E ora vediamo che la stessa cosa succede in Georgia. 11 massacro dei giorgiani da parte degli Abkazi sta succedendo ora, mentre parliamo. Quindi cosa significa? L'aver rinunciato a un intervento in Bosnia rende possibile il dilagare della violenza di tutti contro tutti. Noi affidiamo ora alla Russia il regolamento della questione delle minoranze nei territori dell'ex-Unione Sovietica, ma questo porta al fatto che, siccome i russi vogliono r Abkazia che è sul Mar Nero. alla fin fine se la sono presa. Ed ora anche in Abkazia ci sarà la pulizia etnica. A questo punto siamo al di fuori di ogni ordine. Siamo in un dramma senza fine, il più terribile accaduto in Europa dopo i campi di concentramento nazisti, vi abbiamo assistito senza fare nulla, e ciò ha creato dei principi che si porranno poi altrove. I I problema delle minoranze in Russia sarà un problema, ovunque siano. E l'unica soluzione, in realtà, che si può pensare è il ritorno dell'impero russo, che la Russia svolga praticamente di nuovo un ruolo imperiale sui territori per imporre un certo ordine, che eserciti, cioè, essa stessa un principio di intervento che sarà ancora più forte di quello delle Nazioni Unite. Dobbiamo sperare in questo ... Abbiamo creato una situazione tragica senza via d'uscita, mi sembra quasi peggiore di quella cambogiana ... dove c'è ancora Poi Pot! Allora cosa viviamo oggi? Un clima di guerre etniche, il ritorno alla guerra come mezzo per la regolazione dei connitti, la guerra dei popoli invece che degli stati, cosa resa possibile anche dal mercato fiorente delle armi. Rispetto al comportamento degli stati europei lei ha fatto il paragone con la Monaco del '38. E' stato fatto anche il paragone con la Spagna del '36. Perché, come allora in Europa, Sarajevo non è diventata una bandiera dietro cui schierarsi'? Ma la Spagna del '36 fu una guerra ideologica: fascismo contro antifascismo, comunismo contro capitalismo, religione contro ateismo. Per carità. Queste invece sono guerre di carattere etnico, dove la religione vale non come fatto universale, ma come determinazione di un particolare che non coinvolge nessun principio. la cosa essenziale sarà quella di dimenticare E poi ... per la guerra ideologica la gente è disposta a morire, la Seconda guerra mondiale fu combattuta con più partecipazione della prima. La guerra di Spagna fu combattuta in nome degli universali. Oggi il dramma è che abbiamo guerre particolari. Noi pensavamo che eliminati gli universali fossero cadute le guerre. No, eliminato un bersaglio, è nato un altro tipo di guerra: guerre di particolari. Guerre, cioè, di piccole patrie, guerre etniche che sono una possibilità nuova che la società tecnologica offre e rispetto a cui siamo disarmati. In realtà oggi, siccome nessuno ha interesse a fondare un impero come una volta e non c'è un principio ideologico che possa fondarlo, nessuno ha interesse a intervenire come forza internazionale per combattere le piccole guerre. In realtà non c'è un supporto politico sufficiente per eliminare i piccoli connitti. Non c'è ethos. Chi è che muore per Sarajevo? Chi è che muore per una operazione di polizia internazionale? Lo vediamo già in Somalia, gli americani sono già stanchi e ne sono morti una ventina ..., ma è già un disastro perché, in sostanza, non si muore peroperazioni di polizia. Si moriva per un impero, ma morire per difendere l'ordine interno di un paese, senza ricavarne poi alcuna inn uenza, morire gratuitamente, senza una ragione di potere, senza la nobiltà del potere, è impossibile. Si muore per l'impero, per la patria, si può morire per ragioni umanitarie, per portare aiuti perché assume un significato simbolico universale, ma per la polizia internazionale, per il compito politico di portare l'ordine internazionale in un paese dilaniato da una guerra interetnica, chi muore? Non è una funzione fascinosa. Come vede ora la questione dei diritti umani? Diritti umani? In Bosnia? Facciamo il tribunale internazionale per giudicare i colpevoli? I colpevoli saranno condannati tutti in contumacia. Un'autorità internazionale che non è intervenuta che diritto avrà di applicare una giusti zia? Non ne avrà né il potere di fatto né il titolo derivante dall'aver imposto la pace in nome del diritto. Diritti umani? Quale tribunale! In alcune parti del mondo siamo in piena anarchia interetnica. Ad un certo punto, la cosa essenziale sarà LE TANTE MAPPE DEI BALCANI Non c'è solo la Grande Serbia, sono in tanti a sognare di diventare grandi. La miscela fra problemi economici e mancanza di tradizioni democratiche ha favorito i nazionalisti. Aiutare chi non è d'accordo e ce ne sono tanti. Intervista a Sonia Licht, dissidente serba. Sonja Licht è fra i fondatori dell"'Associazione dei cittadini di Helsinki" e una dei principali esponenti del movimellto pacifista di Belgrado. Entrata giovanissima nel Partito Comunista yugoslavo, ne è stata espulsa nel '68 perché dirigente delle lotte studentesche. Col marito ed altri hafondato il Partito Socialdemocratico, poi sciolto da Milosevic. E' presidente della "Soros Foundation ", che interviene in Serbia a tutti i livelli per aiutare le vittime della guerra eper costruire spazi di democrazia e di informazione indipendente. Ebrea, dissidente nel vecchio regime, dissidente oggi, èfermamente intenzionata a restare in Serbia il più a lungo possibile per lottare lì contro il nazionalismo. goslavia era precisamente la Yugoslavia e questo tetto è stato distrutto con l'obbiettivo di costruirne altri. Uno di questi è appunto la Grande Serbia, che non è l'unico, anche se è il più visibile a causa soprattutto dei media e di un approccio ideologico al problema. Non voglio dare l'impressione di sottovalutare il ruolo del nazionalismo serbo e di Milosevic: entrambi hanno contribuito a portarci al disastro. Ma non concordo con le semplificazioni per cui il solo progetto della Grande Serbia, il solo progetto di Milosevic, è sufficiente a spiegar~ questa guerra. Questa guerra non è semplicemente un' aggressione, ma è il risultato di quanto dicevo all'inizio, cioè del fatto che queste persone hanno cominciato a sognare di costruire la loro Dove nasce l'idea della Grande nazione. E cioè, perché è precisaSerbia? Dove prende la forza per mente di questo che si parla oggi, "valere" una guerra? come costruire stati etnici. Questo E' il tipo di domanda a cui di solito ha portato al concetto e alla pratica non amo rispondere, perché in qual- della pulizia etnica, ha portato a che modo rivela che non si coglie grandi distruzioni, come a Vukoper intero la complessità della si- vare Mostar, e sta dando vita, dalla tuazione nei Balcani. Se nei Balca- Slovenia alla Macedonia, ad una ni esistesse solo l'ideologia della serie di stati etnici assolutamente Grande Serbia non ci troveremmo autoritari, privi di sensibilità, dinei guai in cui ci troviamo. Il pro- scriminatori. Non è corretto, ancoblema è che in questo preciso mo- ra, comprendere la Macedonia, ma mento il modello della Grande Ser- sono certa che sarà così, purtropbia attraversa tutti i Balcani e c'è po ... l'idea della Grande Croazia, della Tutto questo è il risultato del fatto Grande Macedonia, della Grande che sia il popolo della ex YugoslaGrecia, della Grande Romania, via che la comunità internazionale della Grande Bulgaria, della Gran- hanno consentito che si distruggesde Ungheria; non è unaesagerazio- se la Yugoslavia, piuttosto che getne. Sono modelli presenti negli ide- tare tutte le energie nella costruzioali e nei programmi di forze politi- ne di un progetto di trasformazione che; sono già state preparate le map- democratica del paese. Per esempe! Nient'altro che questo è la tra- pio, la Macedonia è una delle regediadei Balcani. Tuttaquestagen- pubbliche che finora è riuscita ad te sta sognando come ingrandire i evitare la guerra, che ha concentrapropri territori,o,comeamanodire, togli sforzi politici per mantenere come "mettere tutti i serbi (o tutti i la sua condizione interetnica e quancroati, o tutti i macedoni e così via) do alcuni parlano della Macedonia sotto lo stesso tetto"; solo che met- con accenti nazionalistici la gente tere ognuno sotto il proprio tetto dice che si tratta di pazzi, di personon significa altro che la guerra, ne bisognose di cure (in effetti anperché tutti sono sparpagliati, me- ch'io penso che tulli i nazionalisti scolati con gli altri. L'unico tetto abbiano bisogno di cure ...), ma di- Broifofe1Ce~r t3 l'1 10chegrarfc0 1 Partito Nazionalista Macedone il suo leader, Georghiewsky, ha concluso il discorso dando appuntamento per l'anno dopo a Salonicco, capitale della regione macedone della Grecia! Queste sono cose pericolosissime, sono stupidi slogan che, però, già alla base hanno il concetto di guerra e accendono le reazioni più impensabili. Questo è quanto sta accadendo nei Balcani. E l'atteggiamento della gente comune? Dipende dalle circostanze. Dopo la caduta del muro di Berlino l'insicurezza per i cambiamenti radicali che sono seguiti è aumentata e ad un certo punto la gente ha cominciato a sentirsi frustrata. Nel modello comunista le persone erano abituate ad avere molte certezze ed una presenza dello Stato, delle istituzioni, delle leggi, molto precisa; avevano, per semplificare, un modello da seguire per pensare, per le cose da fare, per il comportamento ... Tutto questo è improvvisamente scomparso e purtroppo l'alternativa più facile è stata proposta dal nazionalismo. La gente ha paura del futuro, questa è l'eredità del sistema autoritario e dell'ideologia collettivista. Non ci sono istituzioni democratiche, non c'è società civile e così è facile che molti, spesso la maggioranza, cadano in una nuova trappola che si presenta come prospetti va chiara, comprensibile, che dà un senso di sicurezza. Sono certa che tantissima gente non ha la più pallida idea di dove li porterà la retorica nazionalista. E qui c'è la grande responsabilità degli intelleuuali che hanno cominciato a parlare di nazionalismo e a sognare di queste cose: loro sanno dove si va a finire! li problema è che i media sono completamente controllati (lo vedete anche in Italia: chi controlla la tv ha in mano la più potente delle risorse) e il novanta per cento delle persone non legge né giornali, né libri: guarda la tv e basta. I media stanno giocando un ruolo incredibile in questo dispiegarsi del nazionalismo; non voglio dire che i giornalisti siano peggiori degli altri, ma sono forse più portati all'opportunismo, gli viene più facile ripetere quello che i politici dicono e pensano. I politici sono immersi nel nazionalismo da molto tempo -almeno dagli anni '70, quando il comunismo era già morto nei fatti e quello che c'era in Yugoslavia era tutto tranne che socialismo- e questa nuova manipolazione delle idee in chiave nazionalistica non è stata altro che il modo per garantirsi il potere e il controllo del paese. E' importante aggiungere che c'erano due tipi di dissidenti politici in Yugoslavia: uno era l'anticomunista democratico, che voleva una società libera e pluralista; l'altro era l'anticomunista nazionalista, non democratico, non libertario. Nel momento del cambiamento è stato facile per questi ultimi andare al potere, perché molti in qualche modo c'erano già essendo, come Milosevic e Tudjman, ex comunisti. Si sono semplicemente riciclati come nazionalisti, ma è stato facile perché il loro modo di pensare era già quello. C'è anche un'altra cosa, che mi mette paura: questi leaders non sono assolutamente all'altezza di guidare un paese, non hanno esperienza, non sono abituati alla politica, alla mediazione, non sanno cos'è la democrazia. E' così anche per la popolazione in generale, che ha sempre pensato che la democrazia sarebbe arrivata da sola, che sarebbe stato tutto semplice, che tutti sarebbero stati ricchi e felici. Questo non è accaduto, anzi, è successo proprio il contrario! E in questa situazione di delusione, di frustrazione, di insicurezza non è stato difficile manipolare le idee e i sentimenti. Tanti ricordano quanto è successo nella seconda guerra mondiale e forse quelli della mia generazione che vivono nelle città, che hanno toccato con mano il progresso, possono sentirlo passato, ma per coloro che vivono nei villaggi e nelle campagne, dove è forte la tradizioquella di dimenticare. In Angola sono morte 50000 persone, ha fatto mai notizia sui giornali italiani? Il nostro vero problema sarà quello di convivere, di tollerare, dimenticando che la gente accanto a noi viene ammazzata perché georgiana, perché mussulmana ... E il mondo va avanti, e guai a chi tocca. La Bosnia segnerà un epoca? La Bosnia, il Tagikistan, la Georgia, l' Azerbeigian, in Africa l' Angola, il Sudan, la Somalia, il Sudafrica ... Guardiamoci attorno ... questi drammi dei confini turco-russi ... Alla fine, se siamo usciti dalla seconda guerra mondiale forse usciremo anche da questo. Non so con quale soluzione. La pulizia etnica è la peggiore, ma in sostanza può anche essere che alla fine riusciremo a convivere anche con questa. "per chi suona la campana?" suona per te Speravamo di uscirne con la polizia internazionale. In quel caso si portava la guerra ad un livello più alto, quello del rispetto dei diritti umani in una struttura mondiale. Il tentativo è fallito. No, non siamo usciti dalla guerra. Forse siamo usciti dalle grandi guerre, ma non siamo usciti dalle piccole guerre fra paesi che prima o poi possono tutti diventare delle potenze nucleari. Il mercato delle armi nucleari è aperto. Gli americani ne orale, il ricordo è ancora vivo. Un giornalista straniero di ritorno dalla Krajina mi ha raccontato che un giorno, all'inizio della guerra, in un villaggio gli hanno detto di avere avuto 58 morti. Lui non ricordava che si fosse parlato di una strage così grande in quella zona e ha cercato di saperne di più. I ricordi però non erano precisi, non tutti dicevano le stesse cose, finché lui ha chiesto "Ma quando so". Questo semplicemente per dire che improvvisamente le differenze fra passato e presente sono scomparse e tutto viene vissuto come un unico continuo. Ecco perché è così facile che la gente beva questo veleno nazionalista che gli viene offerto. Dopo due anni di morti e distruzioni non è cambiato niente nella testa della gente? Qualcosa sta cambiando. Sento che in Serbia c'è molta stanchezza e avanzano i primi dubbi che tutte queste storie di nazionalismo, di Grande Serbia, di pulizia etnica siano sbagliate. Ma in Serbia non c'è una guerra reale, ci sono gravissime conseguenze sul piano alimentare, su quello dei medicinali, sulle condizioni di vita di bambini e anziani, ma non c'è una guerra vera. In Croazia e in Bosnia, dove si combatte davvero, dove le famiglie piangono i morti, dove gli odi e le vendette trovano continuo ali• mento, le idee nazionaliste resiste-- ranno più a lungo. Tuttavia sono convinta che se si riesce a fermare la guerra, ad abbassare il livello della violenza, a tornare ad una vita quasi normale, il nazionalismo subirà una battuta d'arresto. Non scomparirà, perché per farlo scomparire occorrerà sviluppare la democrazia, le iniziative civili, l'educazione dei bambini. Ma per farlo ci vogliono tutte le energie disponibili e un grandissimo aiuto di tutti. A questo proposito vorrei aggiungere che ho molta paura che finita la guerra tutti volgeranno le loro attenzioni altrove, lasciandoci soli nel momento più importante. Da soli non possiamo farcela, anche perché gran parte dei nostri giovani, sia croati, che serbi, che bosniaci, proprio quelli che potrebbero capire cos'è la democrazia e farla funzionare, sono ali' estero. Pensi sarà possibile ristabilire una vita in comune fra croati, serbi e mussulmani? Cosa s'intende per "vita in comune"? Se s'intende una vita come era nella ex Yugoslavia, bisogQerebbe resuscitare la Yugoslavia e non credo si possa. C'è gente di buona volontà che sta sognando di ricostruire la Yugoslavia, ma credo che, in tanto lutto, in tante distruzioni, in tanto odio, i loro sforzi siano insistono sul controllo della produzione dell'uranio arricchito, ma, obiettivamente, la Cina ce l'ha e non rinuncerà a venderlo. E così parecchi paesi avranno la bomba atomica, solo il Sud Africa ha rinunciato, Israele no, l'Iraq ha i controlli in casa ma sta per arrivarci ... Il rischio allora è che le piccole guerre possano diventare più devastatrici che in passato. Forse si arriverà alla fine del mondo, non è detto. L'uomo è arrivato ad un livello tale che o creiamo una civitas dei o forse cadremo in una civitas diaboli ... "Per chi suona la campana?" recita un classico della guerra di Spagna. "Suona per te". Non v'è dubbio che andiamo verso tempi difficili in cui l'uomo ha lo svantaggio e il vantaggio di non aver più motivi universali, non ha più la fede in Dio né quella nella rivoluzione, è affidato solo a se stesso. Ormai è certo che materialmente l'apocalisse è immanente, è dentro l'uomo. Non c'è mai stata prima, c'è solo da quando siamo nel nucleare e il nucleare è diffuso. Abbiamo i mezzi per consumare la vita? Per fede dico che l'uomo può cambiare, per ragione dico che può annientare. Perché Cristo è risorto dico che possiamo salvare il mondo, per ragione dico che possiamo annientarlo. Sono due affermazioni non omogenee. Una la credo, l'altra la vedo. - addirittura controproducenti. Il problema è come resuscitare il bisogno di vivere insieme, il bisogno di democrazia, in questi stati autoritari e nazionalisti che non esistono solo nell'ex Yugoslavia, ma in tutto il mondo ex comunista. Rivendico la necessità di lavorare, di lottare il più forte possibile, per la trasformazione democratica di questi stati, cioè di quello che c'è ora, senza sognare quello che ci piacerebbe ci fosse. Non mi piacciono questi stati e staterelli; non mi sento a casa mia in nessuno di questi. Ma è questo che c'è. Ho rivisto dopo molto tempo un buon amico slovacco e mi ha detto di essere molto sorpreso dal fatto che alcuni, in Slovacchia, stanno lavorand6 per un parlamento spirituale, per una federazione spirituale della vecchia Cecoslovacchia. Lui pensa che ciò sia controproducente ed io concordo con lui. Non gli piace la Slovacchia, era ed è contro la divisione, ma ormai è avvenuta, è una realtà. Quello che dobbiamo fare è rendere questi stati il più possibile vivibili, più democratici. E' importante capire questo, perché da qui si decide il tipo di atteggiamento nel- !' aiutarci. Io chiedo di non boicottare questi stati, di non dimenticarli. Capisco che in tanti possano dire "Non mi piace la Serbia, non mi piace la Croazia" e quindi li dimen- ~icano, ma in questi paesi c'è gente che non vive bene, che non è d'accordo con quanto è successo e vorrebbe trasformarli. Queste persone vanno aiutate. Questa è politica, non mera solidarietà. In Europa l'esistenza di stati etnici, autoritari, nazionalisti, è un pericolo per tutti: prima o poi potrebbero innescare contraddizioni che si rovescerebbero sul resto dei Balcani o sul- ! 'Europa. Faccio un esempio: quello yugoslavo era uno degli eserciti più forti, addestrati, armati, centinaia di migliaia di giovani ne facevano parte e oggi sono tutti in qualche modo coinvolti nella guerra, ciò per cui sono stati preparati e caricati. Potranno smettere di combattere? Gli piacerà tornare ad una vita civile, magari monotona e difficile? Un altro esempio: quando la Slovenia s'è distaccata dalla Yugoslavia protestava perché doveva dare troppi soldi per l'Armata; oggi la Slovenia spende quattro volte quello che spendeva prima! Questi piccoli stati, con le loro strutture militari così sproporzionate, con tanta gente capace di usare le armi, senza istituzioni democratiche, saranno in grado di mantenere la pace, di affrontare i problemi senza la forza? Io sento di no. - UNA CITTA' , 5

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