La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 17/18 - lug.-ago. 1996

da Aldo Gargani, dove la crisi del marxismo viene proposta all'interno di una più generale crisi delle filosofie progressive della storia, dei paradigmi della cultura occidentale. Comincia in quegli anni la rivincita del pensiero liberale nei riguardi del marxismo? Direi proprio di sì. Per esempio sulle pagine di Mondo Operaio Norberto Bobbio inizia una polemica contro il carattere antiliberale e antimoderno del marxismo, una polemica che vorrebbe aprire la strada al riformismo socialista, ma di fatto apre a Craxi. Questa conclusione non era certo quella cui pensava Bobbio, tuttavia nasce dalle debolezze della sua analisi teorico-politica. Quali sono queste debolezze? La separazione tra la crisi del marxismo e la crisi della ragione produce conseguenze molto gravi. Al "vecchio" marxismo viene contrapposta un'apologia della modernità liberale che condanna come totalitaria ogni esigenza comunitaria e consegna il pensiero totalmente privo di armi critiche nelle mani di una modernità ormai all'attacco di tutte le zone non mercificate dell'esistenza. Altri liberali, come ad esempio Ralf Dahrendorf, già allora erano molto più consapevoli del risvolto anomico e distruttivo della modernità, che non riproduce semplicemente i vecchi giochi della democrazia liberale, ma erode gli Stati nazionali, sradica gli uomini dalle "legature" protettive delle tradizioni, gettandoli nel gioco senza frontiere del mercato. Il grande modello marxista era già pieno di crepe ma l'attacco di Bobbio, così disattento al lato d'ombra della modernità, autorizzava, dall'alto di una grande autorità morale, un'apologia della modernità "reale" la cui "qualità" ha lastricato tutti gli anni Ottanta. Respingendo ogni critica alla modernità come nostalgia (totalitaria) della comunità organica, tutto l'orizzonte del pensiero si restringeva nel quadro della "messa a norma" liberale. Ritorniamo alla "crisi della ragione". C'è stata una rispostafilosofica ad essa? La risposta più nota e popolare è quella del "pensiero debole", che è un po' la versione italiana della filosofia post-strutturalista francese, la quale peraltro alimenta letture ben più radicali, alle quali si è ispirata anche la riflessione sulla differenza femminile. La crisi delle "grandi narrazioni" della metafisica dell'Occidente appare come una grande occasione per liberare l'esistenza dalle maglie oppressive delle diverse filosofie del progresso. La debolezza del pensiero è, per Gianni Vattimo (l'esponente più noto di questo orientamento), come la convalescenza dopo l'ebbrezza, un addolcimento della vita, l'allontanamento da ogni attrito "eroico" e "tragi·co". Questo antieroismo, negli anni che recano dentro di sé le ferite del terrorismo, incontra un diffuso sentimento di smilitarizzazione: esso propone tolleranza, delicatezza, riconciliazione con il mondo, l'ironia di una critica che evita di alzare la voce, un edonismo soft qual si conviene a una sinistra liberale. Ma l'enfasi sulla smobilitazione e sul disincanto spinge verso un'avarizia, verso un egoismo che si accarezza e cerca la distinzione, verso un paradossale snobismo di massa. La critica di ogni metafisica e di ogni missione mette !JlU. tutti in vacanza e permette di prendere posto senza problemi nel regno dei garantiti, nella cosiddetta "società dei due terzi". Sembra di capire che per lei il "pensiero debole" non si emancipa in modo sostanziale dai limiti che già rimproverava a Bobbio. Esattamente. Bobbio e Vattimo rappresentano, pur nell'ottica di due generazioni diverse, la popolarità ma anche l'impotenza della tradizione liberale di sinistra nell'epoca del post-fordismo, in cui la centralità dello Stato nazionale, della grande impresa e della classe operaia procedono verso il tramonto. Ma mentre l'ultimo Bobbio rappresenta, con un pessimismo "classico" e talvolta apocalittico, i rischi di guesta evoluzione, il "pensiero debole" che s1 mantiene a distanza dal "tragico" non riesce a offrire una risposta sostanzialmente autonoma da quella proposta da Bobbio. Insomma laddove in Bobbio è visibile la ferita che nasce dallo scarto tra gli ideali liberali e una modernità vorace e volgare, in Vattimo c'è come un cercar riparo dalle tempeste. Al fondo Ì percorsi del suo postmodernismo vivono accanto ai fabbricati della modernità. L'altro che più radicalmente ci mette in discussione, l'Altro di un pensatore come Lévinas, qui rimane a distanza perché sarebbe in contraddizione con la dolcezza disarmata del nostro vivere, sarebbe un ritorno della trascendenza e della metafisica. Credo che nel corso degli anni Ottanta la presenza di Lévinas, non solo in Italia, abbia fatto proprio da contrappeso a una filosofia della differenza troppo spesso chiusa in un relativismo di piccolo cabotaggio. Con Lévinas pare affacciarsi un'accezione di "trascendenza", intesa non nel senso verticale del rapporto con Dio, ma nel senso orizzontale di un rapporto con l'altro uomo, con colui che sta al di là della riva, un "altro" come motore di un'etica dell"'approssimazione". Senza dubbio. Credo che Lévinas apra la possibilità di uno scambio fecondo fra cultura religiosa e cultura laica, offrendo alla prima un'accezione della trascendenza estremamente concreta e "sperimentale", e alla seconda una prospettiva nuova di riflessione sull'indispensabilità della trascendenza. È il problema di uno dei personaggi della Peste di Camus: come si possa essere santi senza Dio. Credo che l'attrito posto da questa domanda apra anche a un gesto epistemologico di grande rilievo, la dimensione dell'andare verso il confine, verso il luogo dove il terreno delle nostre "ovvietà culturali" inizia a cedere e diventa possibile cominciare a pensare. Questo andare verso il confine è oggi per me anche un andare a Sud, il rovesciamento di un intero modo di pensare che ha visto nel Sud il luogo dal quale fuggire. Conosco molti meridionali, alcuni intellettuali e di successo, che continuano dentro di sé ancora a fuggire, ad andare via dal Sud non mancando mai di farlo vedere a coloro di cui desiderano l'approvazione. Credo che oggi il gesto inverso, quello che restituisce al Sud la dignità di soggetto del pensiero, sia una mossa epistemologica indispensabile su una grande varietà di piani. Laddove tutti dicono che bisogna avere in testa solo il Nord occorre aver il coraggio di avere in testa il Sud. E senza alcuna indulgenza. Essere Sud non significa assolversi, ma aspirare ad una maturità, saperla conquistare.

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