CINEMA Una poliziotta incinta tra le nevi di Fargo Emiliano Morreale Un piccolo venditore di automobili fa rapire la moglie per chiedere al ricchissimo suocero il riscatto, ma qualcosa va storto e tutto precipita in un ba~no di sangue. Il caso viene risolto da una gioviale ed acuta poliziotta, che si trova al settimo mese di gravidanza. Questo il canovaccio di Fargo, l'ultimo film di Joel ed Ethan Coen, fratelli ebreiamericani autori di Barton Fink, Arizona Junior, Mr. Hula Hoop. Rispetto ai precedenti loro film, si nota un evidente salto di stile: non più i ritmi frenetici, i travolgenti movimenti di macchina, le continue e raffinate citazioni metafilmiche; il film è costruito e girato in modo che più classico non si può, trattenutissimo, avvolto dall'inizio alla fine nelle nevi del Minnesota ed attraversato da una musica come di ballata malinconica. Pochi personaggi, pochi ambienti: i Coen qui lavorano indubbiamente più per sottrazione che per accumulo. La uniformità figurativa del film ha, mi pare, un senso ben preciso. Per dirla brutalmente: Fargo restituisce trasfigurata e fatta fiaba, la visione del mondo della piccola borghesia americana. Il fatto che da un certo punto in poi il film inanelli una serie di efferatezze tragiche secondo una logica ineluttabile è si in accordo con la filosofia del noir e con una moda recente che trasmigra da un genere al1'altro (Something wild di Demme), ma qui il suo particolare pathos viene dall'essere la tragedia vista chiaramente come tragedia della piccola borghesia, di una classe cioè continuamente sospesa sull'orlo dell'abisso, priva di garanzie sociali e vittima dei tentativi di ingegneria economica, e la cui percezione del m.ondo è perciò segnata da una continua, tragica incertezza. Un "piccolo tentativo" di risollevare la propria condizione economica innesca una serie di catastrofi inarrestabili, in cui il meschino uomo medio non si raccapezza più. E la piccola borghesia è, si può dire, l'unica classe in scena: al di fuori di essa ci sono killers da cartone animato e l'uomo d'affari americano che viene f er lo più mostrato fuori da suo regno. La "città", il centro, non appaiono che di sfuggita. Da qui il tono di tristezza e di squallore che aleggia sul film, quasi una versione comico-splatter del Glengarry Glenn Ross di Mamet e Foley. Fargo è un film in cui nessuno comunica: la donnapoliziotto non parla col marito, la famigliola del venditore di auto cena in un silenzio tombale, il killer Steve Buscemi sproloquia cercando di ottenere una risposta dal suo compare. Silenzi, comunicazioni formali, non-rapporti una serie di universi incomunicanti ed isolati dalla neve. Ma i Coen aggiungono un altro tema dominante tra i registi della loro generazione, da Burton a Tarantino: quello dell'infantilismo. I personaggi in scena, anche quando sono maniaci o criminali, sono sempre visti come bambinoni malcresciuti, si muovono come cartoni animati: la violenza del film è alla Tom & Jerry, le scene di sesso sono come le potrebbe dirigere un regista undicenne. Scopo dell'industria culturale, diceva Adorno, è impedire all'uomo di diventare adulto, e i pazzi e gli assassini dei Coen ne sono un esempio. Rispetto ad Arizona junior che già metteva in scena un universo del genere, lo sguardo dei Coen è, però, esso sì, diventato adulto, meno ent~s\asta e più lucidamente emico. Eppure, l'infantilismo ha anche un risvolto potenzialmente positivo: una prospettiva infantile può anche essere ribaltamento critico, messa a nudo dell'assurdità. I "personaggi" che si agitano per il film danno l'idea di un mondo di pazzi. I Coen disegnano allegramen te un mondo atroce, e della cui atrocità mostrano di comprendere le cause. A premesse assurde, conclus10ni assurde: una strage senza fine è il minimo che possa accadere in un mondo del genere, ed infatti nessuno dei personaggi del film sembra sorrrendersene. L'episodio de "vecchio amico" asiatico della protagonista, impazzito di solitudme nella città di Minneapolis, ha una importanza fondamentale proprio perché scollegato dal plot. L'inquietante equilibrio tra la comicità fumettistica (qui molto in sordina) ed uno stile invece insolitamente "realista" è mimetico, serve proprio a far risaltare la follia dell'insieme: i Coen sono cresciuti, non hanno più bisogno del barocco, del metacinema, del demenziale (anche il gioco sugli "archetipi" della cultura americana, dall'indiano al boscaiolo Jack Bunyan, è molto più sfumato). Lo stile tace, la follia è nelle cose. È un po' come se questo fosse il primo film "da padri" di due registi finora considerati enfant prodige, anzi l'impressione è che la molla iniziale sia stata magari proprio l'immagine di · questa detective al settimo mese che è l'unico personaggio "positivo", positivo benché (perché?) quasi incosciente di quel che accade attorno a lei. L'attrice che la interpreta, non a caso, è la moglie del regista Joel Coen. ♦ ARTE E PARTE
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