NORD-SUD La questione meridionale secondo la Confindustria Rinaldo Gianola C'è qualche relazione tra la crisi delle maggiori banche del Sud, come il Banco di Napoli e la Sicilcassa sicuri feudi del decennale dominio democristiano, l'elevata disoccupazione che supera il 50% per i giovani e il rinnovato interesse del grande capitale del Nord per il Mezzogiorno considerato non più un freno, ma bensì un'occasione di sviluppo? Certo che c'è. Ogni volta che nel nostro paese si manifesta una rottura degli equilibri di potere, negli assetti sociali, politici, economici consolidati, ecco riapparire la questione meridionale. La frantumazione del sistema democristiano, ne Sud più che altrove, ha rotto alleanze e blocchi sociali, ridimensionato la vecchia politica dell'assistenza e dei fondi pubblici a pioggia, eroso e disseminato enormi aree di consenso elettorale. Ma non c'è solo questo aspetto di vuoto politico che rischia di essere parzialmente coperto dalla solita destra populista e rissosa. C'è, ancora, una forte emergenza economica. La ripresa degli ultimi tre anni ha accresciuto, per dirla con l'Istat, "gli squilibri territoriali ?el _paese". Mentre il Nord v1agg1aa ritrni di sviluppo da record, il Mezzogiorno rimane fermo, anzi arretra. L'Italia a due velocità non è un'invenzione, è una realtà. Il volano della svalutazione della lira, che ha fatto decollare il ricco e sempre più rancoroso NordEst non ha provocato alcun effetto positivo al Sud che, anzi, ha dovuto accusare gli effetti negativi di un progressivo allontanamento dello Stato. La fine degli interventi straordinari nel Mezzogiorno - uno strumento che ad essere franchi nessuno può rimpiangere - ha rappreséntato in realtà, la fine di qualsiasi intervento, proprio nel momento in cui la congiuntur~ economica e l'emergenza sociale avrebbero reso indispensabile la presenza della mano pubblica. Fino al 1992 il Mezzogiorno ha ricevuto in media tra gli 8 e i 12mila miliardi come trasferimenti di fondi pubblici ogni anno, l'anno scorso sono stati circa 3mila miliardi, cioè l'equivalente del piano di salvataggio deciso dal Tesoro per il Banco di Napoli portato sull'orlo del fallimento da decenni di gestione democristiana, clientelare e sperperatrice e qualche volta, come ha riscontrato la magistratura, ai limiti della legalità. È in questo contesto - latitanza della classe politica, carenza di struttu~e produttive e di infrastrutture, gestione distorta del credito, presenza diffusa della criminalità - che viene lanciato da capitale privato un grande progetto di investimenti nel Mezzogiorno che dovrebbero finalmente emancipare il Sud dalle storiche arretratezze economiche e sociali. La novità è di un certo interesse, se si confronta con il vuoto delle proposte dei partiti. Qualche settimana fa Fiat, Banca di Roma, Mediocredito centrale, con l'imprimatur della Banca d'Italia, hanno tenuto un convegno su "L'Italia del Sud verso l'Europa", occasione per sottolineare in pubblico l'urgenza dello sviluppo del Mezzogiorno, "una necessità e un'opportunità - secondo Gianni Agnelli - che riguarda non solo il Sud ma l'intero Paese". L'industria e il capitale privato, dunque, si propongono come il nuovo soggetto politico-economico che, dopo il fallimento dello Stato, dovrebbe risolvere i problemi del Sud. Nel momento in cui si alimentano aspirazioni secessioniste nel Nord ricco e produttivo, è la grande industria che si pone come "collante dell'unità nazionale" come aveva spiegato la Fiat ai tempi del lancio del progetto di Melfi. Questa vocazione solidaristica e filantropica della Fiat e compagnia appare sinceramente fuori luogo. Il Sud, in realtà, è un mercato che deve essere sviluppato e conquistato come ha ben spiegato Cesare Romiti, abbandonando la filosofia e facendo concretamente i conti della serva: "Per le auto, fatto 100 il livello delle vendite del '90, nel '95 il Nord-Est era a quota '96, Il Nord-Ovest a quota 76, il centro a 73 e il Sud Crolla a quota 50". Ecco di cosa si tratta, bisogna portare il Sud allo stesso livello di auto del Nord. Il modello di sviluppo è quello del mercato attraverso la competizione e la flessibilità. E a questi totem indiscutibili, secondo l'impresa privata, sia la casse politica meridionale che il sindacato devono sottomettersi se vogliono ottenere i giusti benefici per le popolazioni merid_io_nali.È, in sintesi, la trasposmone del modello Melfi - il '.'prato :verde" dove la grande mdustna del Nord costruisce la rivoluzione industriale del Sud, impermeabile alle vecchie minacce classiste e conflittuali del Nord - in tutto il Mezzogiorno. Un modello dove la guida è il capitale privato, i comprimari indispensabili sono lo_Stato come erogatore di fondi (un po' di contributi pubblici ci devono pur essere) e il sindacato come ~arante della pace sociale. Poi sarà l'impresa a condurre i giochi, senza interferenze o disturbi. Questo processo di sviluppo non viene presentato alle elezioni, non ha bisogno di voti, viene discusso nei consigli di amministrazione ma necessità dell'aggregazione, del consenso delle istituzioni e delle forze sociali, attorno all'indiscussa leadership della grande industria e finanza. Non deve stupire questa aspirazione del capitale privato a fronteggiare la questione meridionale con una filosofia innovativa, almeno apparentemente, risJ?etto alle vecchie politiche assistenziali dello stato. C'è una logica evidente di potere, già manifestata in tante occasioni negli ultimi anni, con la quale l'impresa rivendica un ruolo ventrale e pervasivo nella guida del Paese, non solo nel1' economia, in sostituzione di una classe politica prima corrotta e poi inefficiente. C'è, poi, la chiara comprensione che l'economia italiana e la grande industria del Nord non possono più tollerare, se il Paese vuole restare legato all'Europa e rispettare i comandamenti di Maastricht, che mezza nazione rimanga a traino dell'altra età, senza un tessuto imprenditoriale, senza sviluppo, senza reddito. ♦
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